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Il bacio sfuggente

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Un elenco misterioso apre il “Piccolo elogio dell’immaginazione” di Luca Umena. È l’elenco con cui Jorges Luis Borges, nel racconto L’idioma analitico di John Wilkins, si riferisce a un’immaginaria enciclopedia cinese. “Gli animali si dividono in:

  1. appartenenti all’imperatore;
  2. imbalsamati;
  3. addomesticati;
  4. maialini da latte;
  5. sirene;
  6. favolosi;
  7. cani in libertà;
  8. inclusi nella presente classificazione;
  9. che si agitano follemente;
  10. innumerevoli;
  11. disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello;
  12. eccetera;
  13. che hanno rotto il vaso;
  14. che da lontano sembrano mosche.

Non preoccupiamoci. Non siamo abituati a distinguere gli animali tra “innumerevoli” e “imbalsamati”. È legittimo chiedersi come potremmo riconoscere gli animali “disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello” e in che luogo potremmo incontrare i “maialini da latte”. Per farlo, Luca Umena suggerisce di avventurarsi nel territorio della nostra immaginazione. Perchè l’immaginazione non è fantasia deragliante che inventa animali nuovi e fantastici, ma il pensiero creativo che “illumina di luce inconsueta creature comuni che siamo sempre stati abituati a pensare in un unico modo”. È una lente speciale: ci permette di osservare legami che fino a quel momento sono rimasti nascosti.

Infatti, il matematico Henri Poincarè definisce creatività “la capacità di unire elementi preesistenti in combinazioni nuove, che siano utili”, dissolvendo sempre più chiaramente il richiamo a una grandiosa creazione biblica. La creatività è inosservata, sottile, silenziosa: utilizza tutto ciò che è di dominio umano. Le sue mani possono impastare note o parole, oppure numeri, gesti o colori, che ogni giorno colpiscono la nostra sfera sensoriale e intellettiva. Sotto quelle mani, però, non c’è alcuna distinzione fra le due culture (Snow, 1959). Ma accade, nella scienza e nell’arte, che combinino i propri ingredienti in modo nuovo. Inaudito. Mai visto.

La comune strada dell’innovazione inizia proprio da qui.

In realtà, l’esistenza di un atteggiamento creativo, condiviso dalla scienza e dall’arte, è controversa e discussa. Per esempio, il filosofo Immanuel Kant riteneva che, nella scienza, la scoperta “geniale” fosse il risultato di un metodo, che può essere insegnato o imitato. La creatività sarebbe invece propria della produzione artistica, che non segue metodi o regole specifiche. Poi, nel corso degli ultimi decenni, le nostre conoscenze sul cervello dell’uomo e sulle sue funzioni cognitive sono progredite in modo spettacolare, quasi a tradire il farsi creativo e la possibilità di rivelarne, eventualmente, l’universalità. Tuttavia l’attività creativa è ancora di difficilissima comprensione sul piano neurobiologico. Più che fornirci certezze, le neuroscienze sembrano l’eco di domande che molti studiosi e studenti ben prima si sono posti.

Che cosa c’è in comune tra l’incredibile slancio di Max Planck, che ha introdotto il quanto nella meccanica ondulatoria, a quello di Pablo Picasso, che sgretola la prospettiva nella pittura del Novecento? “Se Watson e Crick non avessero scoperto la struttura del DNA o Einstein la teoria della relatività, altri scienziati sarebbero giunti allo stesso risultato, ma i loro procedimenti sarebbero stati differenti.” Per rispondere alla domanda il biologo molecolare Jean-Pierre Changeux dirotta l’attenzione sul punto giusto. Non si tratta di discutere la natura della produzione artistica e scientifica. Ci troviamo un attimo prima, nel momento dell’ideazione, quando non c’è gravità metodologica che tenga nella delicatissima vertigine che, l’artista come lo scienziato, devono osare per “gettare un ponte là dove le regole fanno un salto”.

Planck, dopo aver tentato invano di giustificare con procedimenti classici l’emissione di radiazione elettromagnetica del corpo nero, si avvide che i conti sarebbero tornati se si fosse immaginato che ciascun corpo nero potesse emettere o assorbire energia solo in quantità discrete, in complessioni, definite quanti. Il fisico tedesco escogita un piccolo atto creativo per spiegare gli eventi sperimentali che osserva. Immagina qualcosa che non può vedere. Più che un’ipotesi, è azzardo. D’altra parte, egli stesso sosteneva che “lo scienziato deve avere una vivida immaginazione per le idee nuove, prodotte non dalla deduzione, ma da un’immaginazione artisticamente creativa”.

Alle volte non è il potere della logica a condurre, nella fase ideativa della creatività, alla scoperta delle leggi scientifiche, ma il potere dell’intuizione, e di una comprensione quasi empatica dell’esperienza. Il territorio dell’immaginazione creativa non distingue Planck da Picasso, tipizzati invece dalla nostra epoca e dal nostro senso comune.

Sembra conoscere il loro principio di bellezza e i loro occhi visionari.

Secondo Poincarè, il criterio intuitivo per riconoscere l’utilità di una combinazione creativa è la bellezza, intesa non solamente in senso estetico, ma legata all’eleganza così come la intendono i matematici: armonia, economia, rispondenza allo scopo. Le combinazioni creative sono tali nel momento in cui sono utili: solo in questo caso si parla di invenzione; combinazioni fini a se stesse sono infinite e sterili. Inventare è discernere, scegliere. Quando Poincarè discute in Scienza e metodo quale possa essere allora un criterio di scelta, non si riferisce a “quella bellezza che colpisce i sensi, la bellezza delle apparenze qualitative, che non ha niente a che vedere con la scienza. Intendo invece parlare di quella più riposta, che deriva dall’ordine armonioso delle parti. Essa dà un corpo, uno scheletro per così dire, alle cangianti apparenze che deliziano i nostri sensi, e senza questo sostegno la bellezza di quei sogni fugaci non sarebbe che imperfetta, perchè confusa e sempre fuggitiva.”

Cercare, leggere, riconoscere la bellezza significa trovare l’armonia che è, in fondo, ciò che serve all’uomo per ordinare il mondo, un ordine utile di cui ha un assoluto bisogno. Non a caso quel senso di armonia potrebbe informarci sull’utilità del risultato futuro, del quale, strettamente parlando, la “scienza per la scienza” conosce poco anticipatamente. Sarebbe dunque la ricerca di questa “grazia” a incoraggiare percorsi creativi, “così come l’artista sceglie, fra i lineamenti del suo modello, quelli che completano il ritratto e danno vita e carattere”. E non bisogna temere che questa preoccupazione istintiva e inconfessata possa sviare lo scienziato dalla ricerca della verità. Piuttosto, è meglio lasciare che la creatività - come racconta Helena al nipote a conclusione del celebre Fanny e Alexander di Ingmar Bergman - “fili e tessa nuovi disegni”.

Appunti di scienziati e bozze di artisti confessano un “pensiero visivo” comune, caro non solo alle arti figurative. Così Arthur Miller, Jaques Hadamard, Rudolf Arnehim, per citarne solo alcuni, si occuparono di dimostrare che l’immaginazione non impiega formalismi, bensì figure. Soprattutto dopo che la relatività e la meccanica quantistica avevano rotto quella continuità tra visualizzabilità e visualizzazione che sembrava insuperabile nella fisica newtoniana. L’epistemologo americano Gerald Holton ha mostrato che molti scienziati elaborano le proprie teorie, servendosi non solo del rigore logico, ma addirittura di ben tre forme di immaginazione: icononica, metaforica, e tematica. Il “pensiero visivo” non si limita ad assistere il lavoro degli artisti, ma avrebbe sorretto anche diversi esperimenti. La mente, con una figura, si sbarazza dei connettivi logici di cui si serve nell’abitudine sperimentale che, in alcuni casi, sono veri e propri ostacoli. Con questo non solo rompe la rigidità legata alla formulazione linguistica ma, lasciando pascolare le idee nelle “foreste di simboli”, raccoglie quei collegamenti straordinari, invisibili all’operazione convenzionale, spesso necessari per lanciare una corda tra un paradigma e l’altro. È come se, nella scienza e nell’arte, fosse rischiesto di scivolare in una sorta di sogno che indebolisca il pensiero finalistico e, attraverso l’astrazione dell’immagine, suggerisca il passaggio sfuggente. Forse non è un caso che Cartesio e Kekulè, si dice, avessero avuto alcune delle lore idee più importanti proprio mentre erano a letto.

Se ora mettessimo un punto, verrebbe nascosto l’aspetto più umano del pensiero creativo. Anzi, sarebbe stato privato di un’appendice che lo rende meno metafisico e più rigoroso di quanto appaia nei dizionari. “E in effetto ciò ch’è nell’universo per essenza, frequenza o immaginazione, il pittore lo ha prima nella mente e poi nelle mani”. La mente, e poi le mani. Leonardo da Vinci ci svela la discesa del fiume. La creatività non è un parto immaginativo, che balena e si chiude in un tappeto di neuroni.

Ha una vita in quella che Jean-Pierre Changeux chiama la “dimensione operativa della creatività”, e che rende la scienza, come l’arte, umili come l’uomo. Umile deriva da humus, terra. Il pensiero creativo, infatti, non ha la presunzione di costituirsi come fatto sancito. Ha il temperamento del compromesso. Scende nella mani, che si abbassano fino a toccare la terra, e qui incontra un’altra crescita, dove si evolve sotto la pressione della realtà. “Ogni creazione è evoluzione”, scrive Changeux; ogni creazione è corteggiata da possibilità e realtà. Il pittore, come lo scienziato, sviluppano dinamicamente il proprio pensiero creativo secondo un processo di “schema e correzione” descritto dallo storico dell’arte austriaco Ernst Gombrich.

Il pittore ha all’inizio un’intenzione creativa, uno schema all’interno del quale organizza la propria idea. Poi, attraverso il tocco, la discute nuovamente, perchè la misura con la tela. C’è un continuo scambio fra l’opera che si costituisce, i successivi accidenti, e le rappresentazioni mentali interne nel cervello. Per Gombrich, la realizzazione di un dipinto, è una specie di “esperimento scientifico”: il risultato di uno sviluppo complesso nel tempo, di un’evoluzione o piuttosto di un intreccio di evoluzioni, del pittore che dialoga con la sua tela. La creatività continuerebbe così ad adattarsi, ad aggiustarsi, a sfidare tempo e spazio. È più instancabile di quanto appaia stretta in una scheggia di illuminazione.  E la sua spinta evolutiva è il confronto con il limite. La Toccata e fuga in Re minore di J. S. Bach incomincia con raddoppi di ottava unici nella sua produzione organistica, utilizzati per sopperire alla mancanza di un registro di 16 piedi al manuale dell’organo di Arnstald. Eppure sono un’invenzione decisamente creativa per produrre l’effetto del plenum nordeuropeo.

Questa celebre composizione ci racconta allora che l’atto creativo è un paradosso: nasce da un limite con cui l’uomo si cimenta, e dal quale trae la strutturazione di una scoperta. Forse perderà l’incanto di un atto scomposto, di una scintilla disordinata e provocatoria, ma rende onore alla scienza che c’è in ogni arte. Il ritocco, la correzione, la pausa, sono citazioni di una creatività disciplinata, paziente, umile, che fonda l’incontro tra arte e scienza. Così, quando la natura le guarda silenziosa, quasi assente, impenetrabile nei suoi segreti, ma esigendo una risposta, scienza e arte rispondono con un bacio. Perchè toccano entrambe qualcosa che è dell’una e dell’altra, che ha un unico sapore; per poi fuggire per strade diverse.

La creatività, allora, è una grande bozza in trasformazione. In cui la legge ponderale di Lavoisier è assolutamente rispettata. 

di Martina Zilioli


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