fbpx Il caso Glaxo | Scienza in rete

Il caso Glaxo

Primary tabs

Read time: 3 mins

La questione è quella della società Glaxo, anzi GlaxoSmithKline, che è intenzionata a chiudere i laboratori di ricerca che possiede in Italia.  

La GSK è una multinazionale del settore farmaceutico – la seconda al mondo – nata e con sede in Gran Bretagna e presente in Italia sin dal 1932, attualmente con circa 3000 dipendenti dei quali circa 620 costituiscono il Centro di ricerche ubicato a Verona.

Per capire se e perché la GSk possa essere indotta a chiudere i laboratori di ricerca di Verona sarebbe necessario conoscere la reale condizione tecnologica ed economica della società, essendo quella finanziaria apparentemente del tutto solida. Centrale per una valutazione di una operazione, comunque dispendiosa, sarebbe la conoscenza della sua collocazione strategica in un settore - quello farmaceutico – tra i più dinamici se non il più dinamico sul piano dell’innovazione produttiva. Si tratta, inoltre, di un settore nel quale l’investimento nelle attività di  ricerca presenta costi e tempi di rientro molto elevati. Nello specifico le attività di ricerca condotte a Verona, nel settore delle neuroscienze, non fanno certamente eccezione.

La politica commerciale della GSK è costellata di episodi non sempre apprezzati sia in materia di concorrenza e promozione, sia nel campo della gestione delle risorse interne, ivi compreso il personale.  In linea di principio non sembrerebbe logico pensare che tra le condizioni che inducono la GSK a chiudere le attività di ricerca in Italia ci possa essere anche la questione dei ben noti vaccini prodotti l’autunno scorso, senza una reale domanda. Qualche interrogativo andrebbe sollevato, invece, a proposito di un finanziamento di attività di ricerca per oltre 24 milioni di euro erogati alla GSK dal nostro Ministero della salute nel settembre del 2008 e che non sembrerebbero tali da consentire di chiudere baracca e burattini dopo poco più di un anno. Con quali risultati? Quali erano gli accordi?

Quello che deve preoccupare è, in ogni caso, il fatto che una grande impresa riduca in Italia il suo impegno in materia di ricerca. I motivi di questa preoccupazione sono molto semplici: è unanime il riconoscimento della necessità di spostare le capacità produttive di un paese su prodotti/servizi tali da competere sul livello e la qualità tecnologica piuttosto che sul costo del lavoro.

La capacità di investire in ricerca da parte del sistema produttivo è, in genere, abbinata ad una dimensione d’impresa sufficiente e ad una specializzazione produttiva coerente con l’utilizzo del fattore ricerca. Come è noto questa capacità in Italia è minore, a confronto con gli altri paesi avanzati: la spesa in ricerca nelle nostre imprese è mediamente pari a meno del 50% di quella affrontata all’estero. Le motivazioni, ovviamente, non stanno in una “avarizia” specifica, ma appunto in una struttura dimensionale e, soprattutto, in una specializzazione produttiva che limitano obiettivamente le possibilità di investimento nella ricerca.

Se, dunque, il caso GSK dovesse essere un segnale che, anche per le grandi imprese tecnologicamente avanzate, nel nostro paese non si presentano condizioni positive per investire in ricerca, è evidente che la questione andrebbe ben al di là del caso specifico. Peraltro non sarebbero quelli della GSK i primi laboratori di ricerca chiusi in Italia da parte di qualche altra multinazionale farmaceutica.

Tra le varie conseguenze negative di eventi del genere si può così già ora rilevare come a fronte di una spesa nazionale complessiva in materia di farmaci e di elettromedicali in aumento, si  accresca, come è già successo negli anni scorsi, anche il nostro deficit commerciale negli stessi settori. La chiusura di laboratori di ricerca non appartiene contabilmente alla stessa partita ma piuttosto ad una perdita di ruolo difficilmente compatibile con un sistema produttivo tecnologicamente avanzato.  

Riflessioni per non fare del caso GSK un caso specifico e isolato, dunque, potrebbero non mancare, ma già in altre occasioni le necessità e le capacità di guardare oltre il proprio naso, sono risultati degli ostacoli insuperabili.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Generazione ansiosa perché troppo online?

bambini e bambine con smartphone in mano

La Generazione ansiosa. Come i social hanno rovinato i nostri figli (Rizzoli, 2024), di Jonathan Haidt, è un saggio dal titolo esplicativo. Dedicato alla Gen Z, la prima ad aver sperimentato pubertà e adolescenza completamente sullo smartphone, indaga su una solida base scientifica i danni che questi strumenti possono portare a ragazzi e ragazze. Ma sul tema altre voci si sono espresse con pareri discordi.

TikTok e Instagram sono sempre più popolati da persone giovanissime, questo è ormai un dato di fatto. Sebbene la legge Children’s Online Privacy Protection Act (COPPA) del 1998 stabilisca i tredici anni come età minima per accettare le condizioni delle aziende, fornire i propri dati e creare un account personale, risulta comunque molto semplice eludere questi controlli, poiché non è prevista alcuna verifica effettiva.