Vivere di cultura? Il mondo lo fa da sempre, e oggi più ieri. E’ questa l’ardita “provocazione” che Bruno Arpaia e Pietro Greco lanciano con il loro libro “La cultura si mangia!”: un ricco e complesso racconto traboccante di dati e riferimenti fattuali, che ci mostra come il motore dello sviluppo sia la cultura e non, come vorrebbero farci credere, la finanza. Certo, non è facile smontare cumuli ideologici che hanno consolidato, specialmente in Italia, un nuovo senso comune, profondamente avverso alla cultura, e ancora più ostile ad essa a fronte di una crisi che impone prima di tutto di pensare a come mettere insieme il pranzo con la cena.
Già, ma cosa si intende per cultura? Gli autori sono consapevoli che quando si parla di cultura è facile scivolare nella vaghezza, offrendo così il destro a più di un attacco teso a dimostrarne l’inconsistenza. E proprio per fugare ogni possibile ambiguità essi richiamano un ideale “triangolo della cultura”, mutuato da una replica di Umberto Eco a Tremonti, che sentenziava che “con la cultura non si mangia”. I pilastri della cultura sono rappresentati dalla “creatività” nel senso più esteso possibile, dalla formazione, e dalla ricerca scientifica. Si tratta in definitiva delle fondamentali declinazioni del “sistema della conoscenza” dal quale nessuna prospettiva di sviluppo può prescindere. Nell’ultimo trentennio la storia ci mette di fronte a l’incessante avanzare di una “economia della conoscenza” che risponde ai bisogni dello sviluppo con sempre più cultura. L’aspetto per così dire più tangibile emerge dalla straordinaria crescita registrata dalla produzione di beni high-tech in tutta l’economia mondiale, iniziando dai paesi di vecchia industrializzazione, per arrivare ai nuovi colossi industriali, come Cina, India e Brasile. E il mistero è presto spiegato: Arpaia e Greco ci ricordano che dal 1990 al 2012 “non solo la spesa mondiale in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico è quasi quadruplicata in assoluto passando da meno di 400 miliardi di dollari l’anno a oltre 1400 miliardi (1469, per la precisione). Ma è aumentata anche l’intensità di ricerca (gli investimenti in R&S rispetto al Pil).” Insomma, siamo di fronte ad un vero e proprio tornante storico poiché “mai tanti paesi hanno contribuito così tanto allo sviluppo della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico. E poiché i flussi di conoscenze, di ricercatori, di investimenti tra tutti questi poli distribuiti per il pianeta sono sempre più intensi, è possibile affermare che mai il mondo della scienza è stato così vasto ed integrato.” Ma il fatto che tutta questa trasformazione coinvolga più immediatamente la realtà economica, non deve trarre in inganno, portando a pensare che quando si parla di creatività (e quindi di arte, architettura, letteratura, solo per citare alcune delle tematiche più “incriminate” dai detrattori della cultura) ci si collochi al di fuori di questa autentica rivoluzione. Ed è presto detto: non solo perché esiste anche un’industria della cultura in senso stretto, ma perché di creatività si nutre continuamente la progettazione degli spazi umani, con un impatto sistemico sui valori dello sviluppo che va ben oltre la redditività economica (pur non escludendola). E va da sé, naturalmente, che un substrato culturalmente ricco deve essere continuamente nutrito: la cultura ha bisogno di formazione adeguata, e per gli standard sempre più elevati che si stanno traguardando è necessario come minimo iniziare a considerare normale una società in cui il numero dei laureati sia consistente.
A ben vedere, la proposizione del “triangolo della cultura” lascia pur sempre trasparire una giusta ansia di giustificazione, che il martellamento ideologico contro la cultura quasi impone. Ma la trattazione di Arpaia e Greco sottende un’idea di cultura assai più globale, com’è quella che efficacemente propone il famoso genetista e antropologo Luigi Luca Cavalli Sforza nel saggio “L’evoluzione della cultura”, in cui si afferma che “La parola cultura ha molti significati. Vogliamo usare quello più generale: l’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro gruppo sociale, che influenza e cambia continuamente la nostra vita.” Cavalli Sforza chiarisce quindi che “L’evoluzione culturale, nel suo insieme, è determinata dalla somma delle innovazioni e delle scelte o più, più esattamente, dall’accettazione o meno di queste innovazioni da parte della società e da quali innovazioni vengono accettate […] La storia della cultura è quindi la storia delle innovazioni: quali sono state proposte, quali hanno avuto fortuna e perché.”
Cultura, innovazione ed evoluzione del genere umano sono dunque questioni inestricabilmente collegate.
Ma c’è di più. Arpaia e Greco non si accontentano di spiegarci il valore fondamentale della cultura, e sollevano il velo dietro cui si sta consumando la crisi italiana. Una crisi che, al di là dell’aggravio che il quadro di depressione europea produce, ha anche una sua specificità che è figlia legittima dello “sviluppo senza ricerca”, una chimera che il nostro Paese insegue da anni accumulando un sempre maggiore ritardo di crescita rispetto ai maggiori Paesi europei (confermato peraltro anche dai dati sul Pil nell’attuale fase di recessione). Per questo motivo l’Italia ha perso e continua a perdere competitività, scende nelle classifiche dell’istruzione, mentre lascia a spasso i laureati (perché il low profile del suo sistema produttivo non li contempla) e accumula debiti commerciali nei prodotti high-tech (togliendo così spazio allo sviluppo del Pil). La crisi europea, ancorché grave, sta così fungendo da formidabile alibi per occultare la voragine dentro la quale l’Italia sembra destinata a infilarsi, a meno di cambiamenti di rotta. Anche nel quadro di risorse più razionate Paesi come Francia e Germania hanno fatto diversamente. Ma all’Italia ormai non “è rimasto più molto tempo”, concludono gli autori. E noi speriamo che il loro messaggio si diffonda quanto più possibile, in primo luogo per la ricostruzione di un senso comune che renda stridente e inaccettabile il perdurare di politiche insensate.