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Il folle volo di Hess (Victor, però)

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Coloro di noi che nell’ultimo anno del liceo sono arrivati ad addentrarsi nello studio della Seconda Guerra Mondiale, hanno probabilmente una qualche reminiscenza di un episodio più o meno oscuro e senz’altro molto controverso: il volo di Hess (Rudolf Hess), nel maggio del 1941, dalla Germania al Regno Unito, da solo, a bordo del suo Messerschmitt. La storia di quel volo è raccontata in un libro, Il folle volo di Hess, pubblicato ormai molti anni orsono e prima della sua morte, avvenuta nel 1987, a 93 anni, nel carcere di Spandau in circostante poco chiare. Un numero ancor più esiguo di noi avrà avuto occasione di sentir parlare di un altro “folle volo di Hess”, questa volta in mongolfiera, avvenuto diversi anni prima, nel 1912, ad opera di un altro Hess, Victor questa volta, e di apprezzarne le implicazioni e i risultati. È argomento di studio in alcuni dei corsi di astronomia, astrofisica o fisica cosmica. Con quel volo, di cui quest’anno ricorre il primo centenario, Hess accertò l’esistenza dei raggi cosmici e si guadagnò il premio Nobel per la fisica del 1936 (insieme con Carl Anderson, che lo vinse per la scoperta sperimentale del positrone, l’antiparticella dell’elettrone).

Già Coulomb, negli ultimi anni del XVIII secolo, aveva notato che una sfera metallica, elettricamente carica e isolata, con il tempo perdeva gradualmente la sua carica. Ulteriori studi quantitativi del processo di scarica, condotti con l’ausilio di elettroscopi sempre più sensibili e precisi nel secolo successivo – quello delle scoperte dell’elettrone, dei raggi X, della radioattività naturale – portarono a concludere che nell’atmosfera era presente una radiazione ionizzante. Inizialmente fu suggerito che questa fosse costituita da raggi gamma prodotti dal decadimento naturale di elementi radioattivi presenti nella crosta terrestre. Secondo questa ipotesi, la radiazione dovrebbe decrescere d’intensità man mano che ci s’innalza al di sopra della superficie terrestre ed era quindi possibile calcolare la curva di decrescita. Non restava che ottenere le misure necessarie per verificare l’ipotesi. Nel 1910 un elettroscopio fu portato in cima alla Torre Eiffel per misurare, a circa 300 metri dal suolo, il livello di ionizzazione atmosferica. Il risultato, pur mostrando una leggera decrescita rispetto alla misura fatta a terra, indicava un tasso di ionizzazione significativamente superiore a quanto previsto nell’ipotesi che la radiazione fosse dovuta alla radioattività terrestre naturale. Cominciò così a prendere piede l’idea che vi fosse un’altra sorgente di radiazione ionizzante. In questo contesto, molti furono gli esperimenti realizzati portando vari tipi di elettroscopi a bordo di palloni aerostatici e a diverse altitudini. Decisivo però fu il volo con cui Hess, il 7 agosto del 1912, superò i 5000 metri di altitudine e misurò non una diminuzione ma un aumento di un fattore quattro nell’intensità della radiazione ionizzante. Hess concluse che la radiazione non era dovuta alla radioattività naturale, ma entrava nell’atmosfera dall’esterno. Questo risultato fu confermato successivamente da Werner Kolhöster, che eseguì misure fino a 9000 metri di altitudine. Fu poi Millikan, una volta convintosi dell’origine extraterrestre di questa radiazione, a coniare nel 1920 l’espressione “raggi cosmici”. Inizialmente la comunità scientifica pensava che i raggi cosmici fossero radiazione elettromagnetica, raggi gamma appunto. 

Studi successivi tuttavia dimostrarono che essi risentivano del campo magnetico terrestre e che pertanto, almeno in parte, dovevano essere costituiti da particelle cariche. Poco per volta si comprese che vi sono raggi cosmici primari (quelli che incidono dall’esterno sull’atmosfera e sono quindi di origine extraterrestre) e raggi cosmici secondari (prodotti dalle interazioni tra i primari e l’atmosfera medesima), e che i primari sono costituiti prevalentemente da protoni caratterizzati da energie che arrivano sino a 1020 eV o poco oltre. È poi presente una piccola quantità di particelle alfa (nuclei di elio) e di nuclei di elementi più pesanti. I forti campi magnetici che caratterizzano pulsar, stelle di neutroni e buchi neri e i violenti shock prodotti nelle esplosioni delle supernovae sono in grado di accelerare le particelle cariche sino a queste altissime energie e sono quindi i principali responsabili della produzione di raggi cosmici.

I raggi cosmici, che costituivano una sorgente naturale di particelle di alta energia di cui si poteva studiare l’interazione con la materia, furono di grande importanza per la fisica delle particelle elementari fino alla costruzione e all’utilizzo sistematico, verso la metà del secolo scorso, di acceleratori di particelle sufficientemente potenti. Il positrone, i muoni, i pioni e altre particelle ancora, furono tutti scoperti grazie allo studio dei raggi cosmici (secondari). Attualmente, e da oltre cinquant’anni, la fisica utilizza, per lo studio delle particelle elementari e delle reazioni nucleari, gli acceleratori, strumenti in grado di fornire – a comando – flussi enormemente superiori di particelle accelerate. L’interesse per i raggi cosmici e per le loro proprietà è quindi diventato esclusivamente di carattere astrofisico. Numerosi scienziati italiani hanno dato contributi di rilievo allo sviluppo di questa disciplina, a partire da Domenico Pacini che, più o meno contemporaneamente a Hess, in seguito a misure dell’intensità della radiazione ionizzante eseguite a di-verse profondità marine, giunse alle stesse conclusioni sulla sua natura (v. “le Stelle” n. 101, pp. 36-43). I risultati di Pacini rimasero all’epoca ignoti ai più, forse anche perché pubblicati in italiano e non adeguatamente pubblicizzati in convegni internazionali, ma vennero successivamente riconosciuti proprio da Hess. E poi Bruno Rossi, che sviluppò i circuiti elettronici per la tecnica di “coincidenza” tra rivelatori diversi, permettendo la costruzione di “telescopi” per raggi cosmici e l’ottimizzazione (ad opera di Occhialini) dell’uso delle camere a nebbia per il loro studio. Rossi previde inoltre l’effetto “est-ovest”, spiegabile se i raggi cosmici erano carichi positivamente. Giuseppe “Beppo” Occhialini fu indubbiamente un altro grande protagonista della fisica dei raggi cosmici: contribuì alla scoperta e allo studio dei pioni e alla conferma della scoperta del positrone. E ancora Conversi, Pancini e Piccioni, che dimostrarono come il “mesotrone”, il mesone scoperto nei raggi cosmici, non fosse il mediatore delle forze nucleari previsto da Yukawa.

Oggi, a cent’anni dalla loro scoperta e in attesa della rivelazione delle onde gravitazionali, i raggi cosmici costituiscono l’unica finestra non elettromagnetica aperta sull’Universo e il loro studio fa parte, a pieno titolo, di quella big science che implica grandi collaborazioni internazionali e una costosa e complessa strumentazione. Le domande cui dare risposta rimangono molte e fondamentali; tra tutte, quelle sull’origine delle particelle di più alta energia e sui meccanismi che ne provocano l’accelerazione. Anche l’esistenza di un limite superiore all’energia dei raggi cosmici rimane da verificare. L’Osservatorio Auger, nella pampa argentina, è da qualche anno a caccia degli eventi più energetici, le interazioni tra i raggi cosmici di energia pari o superiore a 1020 eV e i nuclei degli elementi che compongono la nostra atmosfera, interazioni che producono intensi sciami estesi di particel-le e radiazione che poi giungono a terra, sparpagliati su di un’area di più chilometri quadrati. Questi eventi sono talmente rari (se ne attende circa uno all’anno ogni cen-to chilometri quadrati) che l’Osservatorio Auger, per poter accumulare abbastanza statistica, si estende con i suoi rivelatori su di una superficie leggermente superiore a quella del Lussemburgo! È possibile avventurarsi in un tour dell’Osservatorio utilizzando un apposito plug-in preparato per Google Earth. Obiettivo principale dell’esperimento (e di altri sparsi per il mondo, quali ad esempio il Telescope Array Project o WALTA) è la comprensione dei meccanismi di accelerazione estremi in grado di trasferire enormi energie alle particelle cariche.

Ma le domande nel campo della fisica dei raggi cosmici non si limitano ai meccanismi di accelerazione: riguardano anche la composizione della materia nell’Universo. Nello spazio, i rivelatori di PAMELA (v. “le Stelle” n. 73, pp. 34-41) e di AMS (v. “le Stelle” n. 89, p. 61) cercano di chiarire la natura della materia oscura e della man-canza di antimateria, mentre IceCube, in Antartide, e ANTARES, nel Mar Mediterraneo, sono alla caccia della componente neutra dei raggi cosmici, quella costituita dai neutrini. A cent’anni dalla nascita, la fisica dei raggi cosmici sembra dunque godere di buona salute e di interessanti prospettive, e ben si integra con le altre branche dell’astrofisica nel contribuire ad affrontare le domande fondamentali sulla natura dell’Universo.

Tratto da: Le Stelle n.108, Luglio 2012


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