fbpx C’è vita fuori l’università | Scienza in rete

C’è vita fuori l’università

Primary tabs

Read time: 6 mins

Quando non è un scienziato uno scienziato? Questa è la provocazione lanciata la scorsa settimana dalle colonne della rivista Nature.
Per molte persone, chiunque in possesso di un dottorato di ricerca in genetica molecolare o fisica nucleare può fregiarsi di questo appellativo. Ma per altri la scienza è qualcosa che si “fa”, non solo qualcosa che si è studiato. Secondo i sostenitori della “linea dura” coloro che, dopo una formazione post-laurea, lasciano il laboratorio per lavorare altrove hanno smarrito la strada, sono stati sedotti insomma dal lato oscuro.
In quest’ottica le opportunità di lavoro per i post-doc al di fuori della ricerca sono spesso etichettate come carriere “alternative”.
Ma è giusto ritenere questi ex-scienziati dei falliti? La risposta si trova leggendo ogni giorno riviste come Nature: se non fosse per gli scienziati che vi pubblicano non esisterebbero. Ma l'esistenza di queste riviste si basa anche su ex ricercatori che stanno percorrendo carriere alternative. Chi lascia il mondo accademico per altri percorsi perché lo fa? Ecco, l’editoriale della rivista britannica serve per fare delle riflessioni sulla “fabbrica dei dottorati” e sulle possibilità lavorative per un post-doc.

Nelle aree scientifiche il numero dei dottorati assegnati ogni anno è cresciuto di quasi il 40% tra il 1998 e il 2008, arrivando a circa 34.000, nei paesi che sono membri dell'OCSE. Questa crescita ha reso però il sistema meno d’élite, un sistema guidato dai finanziamenti per la ricerca e non dalla domanda del mercato del lavoro.

Nel 1973, il 55% dei dottorati in scienze biologiche made USA otteneva un posto da ricercatore entro sei anni dal completamento del loro corso. Dal 2006, solo il 15% riesce ad avere una cattedra sei anni dopo il dottorato.
Ancora più crudo il dato della American Society for Cell Biology che sottolinea come meno del 10% dei 86.000 studenti dei corsi di dottorato in biologia in corso negli Stati Uniti diventeranno docenti universitari. “Il mercato del lavoro accademico è crollato nel 1970, ma le università non hanno adeguato le loro politiche di ammissione, perché hanno bisogno di studenti laureati per lavorare nei laboratori. Una volta che gli studenti finiscono il loro percorso di studio, non troveranno lavori accademici”, spiega Mark Taylor della Columbia University. I numeri sono chiari: ci sono molti più dottorati di quanto il sistema universitario possa assorbire.
Ma allora perché non intraprendere subito una carriere alternativa una volta terminato il proprio PhD?
Molti giovani ricercatori trovano frustante e quasi fallimentare dopo anni spesi a studiare e fare ricerca accademica cercare un lavoro diverso e preferiscono accettare piccole borse di studio all’interno dei propri atenei.
Ma è vero anche il contrario. In Italia, per esempio, il titolo di dottore di ricerca, che certifica conoscenze e abilità riconosciute dallo Stato, non è tenuto in considerazione dalle aziende italiane, dove è ai più sconosciuto. Il problema è che nel mercato del lavoro si conosce poco o nulla di cosa si fa in università, e così il ricercatore anziché essere considerato una risorsa preziosa, viene trattato alla stregua di un giovane che inizia a lavorare con tre anni di ritardo. Non va meglio nel settore pubblico: basti pensare che, in un normalissimo concorso, il titolo di dottore di ricerca non dà più diritto a un punteggio maggiore rispetto agli altri candidati, ma viene valutato a discrezione della commissione.

Ma un altro aspetto da non trascurare sta nel fatto che molti programmi di dottorato non sono adeguati per entrare nel mondo del lavoro. Troppo spesso i corsi di dottorato sono troppo specializzati, la ricerca si svolge in ambiti “ristretti” che non aiutano i ricercatori a essere appetibili sul mercato del lavoro. In molti casi, il possesso di un titolo di dottorato finisce per rivelarsi non un vantaggio ma un handicap: perché chi lo ottiene si preclude altre possibilità d’impiego; o perché le competenze e le conoscenze che ha acquisito non sono spendibili se non nella ricerca e nell’insegnamento universitario. “La maggior parte dei programmi di dottorato sono conformi a un modello definito nelle università europee durante il Medioevo, in cui l'educazione è un processo di clonazione che forma gli studenti a fare quello che fanno loro mentori. I cloni ora sono di gran lunga più numerosi dei loro mentori”, sottolinea Taylor. Sono in tanti a sostenere dei cambiamenti nei corsi di dottorato con programmi più in linea nell’acquisire competenze utili per essere competitivi al di là dell’accademia. Piuttosto che essere un primo gradino di una scala che termina con posto accademico, i corsi di dottorato dovrebbero essere come un sentiero che attraverso una serie di percorsi diversi porta in maniera ottimale nel mondo del lavoro. L’università non deve più preparare i giovani a essere “soltanto” dei bravi studiosi ma li deve mettere nelle condizioni di approfittare di altre opportunità che possono aprirsi nel mercato del lavoro.

Esiste un mondo fuori le università e pieno di possibilità. Un esempio è la storia di Renata Sarno che dopo otto anni di fisica teorica ha cambiato completamente strada riuscendo a fare fortuna con il business online. “Era una studentessa molto brillante”, ricorda il suo supervisore Giorgio Parisi, fisico teorico presso l'Università di Roma. Sarno era arrivata nel laboratorio di Parisi per finire la tesi di laurea in fisica nel 1987, e ha continuato a lavorare con lui attraverso una posizione di dottorato e postdoc. Ha aiutato a costruire un supercomputer usato poi per modellare le particelle subatomiche chiamate fermioni. Un futuro nell’università come prospettiva ma le cose sono andate diversamente. Nel 1994 i finanziamenti postdoc della Sarno terminarono. “Mi sono trovata senza uno stipendio e ho deciso di prendere una nuova strada”, ricorda la Sarno.

Non ha però perso tempo e con tre amici e con 10.000 euro ha lanciato una serie di siti web, tra cui un sito di viaggi chiamata Venere che è stato uno dei primi a offrire la prenotazione di hotel e altri servizi. “All’epoca Internet aveva scarsi contenuti. Solo l’anno dopo fu lanciato il primo motore di ricerca. La nostra idea era un portale per la prenotazione alberghiera. Con quello, potevamo offrire un servizio senza dover materialmente spedire nulla, quindi senza problemi di logistica e magazzino. L’obiettivo iniziale era vendere all’estero qualcosa che avevamo in Italia: l’ampia offerta di hotel”, spiega Sarno.
Fondamentali per il successo dell’impresa, Venere è stata venduta nel 2008 per 200 milioni di dollari, sono state le conoscenze di calcolo e di problem solving acquisite durante gli anni di dottorato. “Parisi era dispiaciuto nel vedere uno dei suoi allievi abbandonare la ricerca ma orgoglioso per il mio successo”. Sarno non ha lasciato completamente  la ricerca. Dopo aver venduto Venere, ha fondato una fondazione per sostenere la ricerca per il monochromatismo dei coni blu, a malattia genetica rara della retina che si trasmette tramite il cromosoma X e colpisce da 1 a 50 persone su 100.000.
La storia di Renata Sarno è sola una delle tante di chi dopo aver conseguito un dottorato ha deciso di intraprendere, con successo, una strada diversa da quella accademica.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

La COP sei tu, economia

Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.

La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo ed emergenti che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. Qualche decina di paesi, fra i quali le piccole isole, saranno inabitabili se non definitivamente sott’acqua se non si rimetteranno i limiti posti dall’Accordo di Parigi del 2015, cioè fermare il riscaldamento “ben sotto i 2°C, possibilmente. 1,5°C”, obiettivo possibile uscendo il più rapidamente possibile dalle fonti fossili.