fbpx Una o più specie all’inizio della storia del genere Homo? | Scienza in rete

Una o più specie all’inizio della storia del genere Homo?

Primary tabs

Tempo di lettura: 5 mins

Un nuovo fossile ominino è stato descritto sul numero di Science del 18 ottobre 2013 e immediato si è riaperto un dibattito tra gli antropologi che pur se ha conosciuto periodi anche lunghi di quiete in realtà non si è mai sopito, perché impossibile da risolvere. E il perché lo chiariremo alla fine dell’articolo. Si tratta del problema che già aveva sollevato Charles Darwin e cioè che se una data variabilità biologica è suddivisa tra più specie si accetta l’ipotesi che il livello di variazione intra-specifica sia modesto, mentre se la stessa variabilità è assegnata a una sola specie si deve ammettere che essa sia molto variabile.

Nel corso degli ultimi due decenni, il sito archeologico di Dmanisi in Georgia ha restituito i resti fossili di almeno cinque individui risalenti a 1,8 milioni di anni fa. Quindi, l’umanità più antica conosciuta fuori dall’Africa e che è uscita da quel continente per colonizzare l’Asia pochissimo tempo dopo che il genere Homo era apparso: circa 2,5 milioni di anni fa in Africa. E quell’umanità utilizzava per macellare altri animali i medesimi utensili litici, decisamente primitivi, che sono stati rinvenuti associati ai primi fossili di Homo africani.

Nel 2000 David Lordkipanidze ha rinvenuto una mandibola piuttosto massiccia e nel 2005 il cranio che si univa perfettamente a essa. Si trattava del cranio fossile numero cinque della serie di Dmanisi, il più completo e dall’anatomo-morfologia più complessa da decifrare. La capacità cranica dell’ominino era di appena 546 centimetri cubici, la sua faccia era larga e prognata, la sua ossatura era robusta e la sua statura e il suo peso, ricavati da resti scheletrici post-craniali trovati nel sito, raggiungevano 146-166 centimetri e 47-50 chili. Il cervello degli altri quattro crani di Dmanisi variava tra circa 600 e più di 700 centimetri cubici, mentre quello dell’Homo habilis tra 509 e 687.
Il cranio numero cinque pertanto si colloca nella parte bassa dell’intervallo di quest’ultimo ominino. E anche l’architettura cranica, il prognatismo facciale e la robustezza delle ossa sembrano porsi all’interno dell’intervallo di variazione delle prime forme del genere Homo: H. rudolfensis, H. habilis e H. ergaster.
Una volta descritto il fossile dal punto di vista anatomo-morfologico, il gruppo di ricerca di Lordkipanidze doveva decidere dove inserirlo nella tassonomia ominina.
E collocarlo nella medesima specie degli altri fossili di Dmanisi, l’Homo georgicus, voleva dire accettare che la specie fosse stata al suo interno molto variabile.
Ma come il gruppo ha fatto notare, quello stesso grado di variabilità anatomo-morfologica è suddiviso in Africa tra le prime tre specie del nostro genere Homo, che abbiamo ricordato appena sopra. Pertanto, si poteva ritenere che se il fossile fosse stato scoperto in Africa piuttosto che a Dmanisi sarebbe stato considerato una nuova specie.

Lordkipanidze è convinto che la variabilità anatomo-morfologica che si riscontra nei fossili di Homo attorno a 2 milioni di anni fa, e quindi considera sia i primi taxa africani di Homo che quello di Dmanisi, rifletta solo la variazione tra popolazioni diverse di una sola linea evolutiva: cioè di una sola specie. E a questo proposito ha riconsiderato un’ipotesi antropologica che negli ultimi decenni era stata piuttosto accantonata: vale a dire che i primi Homo africani così come quelli migrati verso oriente apparterrebbero alla specie Homo erectus e conseguentemente H. rudolfensis, H. habilis e H. ergaster, quest’ultima ritenuta oggi la specie madre di noi umanità moderna (o Homo sapiens), non sarebbero altro che crono-sottospecie, cioè popolazioni, di H. erectus.
I primi Homo insomma sarebbero stati tutti caratterizzati dal cervello piccolo, dalla faccia larga e prognata e dall’architettura scheletrica robusta.

Come si vede, per produrre utensili litici e uscire dall’Africa non è stato necessario avere un cervello grande. Quei nostri antichi antenati sono stati capaci di invenzioni e comportamenti complessi pur con cervelli che erano la metà del nostro. Ma a questo proposito è bene rammentare che il tratto cerebrale più importante è la conformazione del cervello.

La conclusione di Lordkipanidze non è però accettata da Ian Tattersall, del Museo di Storia Naturale di New York, secondo il quale a Dmanisi potrebbero essere convissute più specie e quindi che il reperto numero cinque altro non sarebbe che una nuova specie. Mentre per Ron Clarke, dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, quel fossile dovrebbe essere inserito in Homo habilis. Il conflitto tra chi ritiene che quella fase della nostra storia evolutiva, così come altre più antiche, sia stata caratterizzata da più specie poco variabili al loro interno o da poche specie molto variabili è destinato a mantenersi in futuro, in quanto non risolvibile a livello morfologico perché solo l’analisi del DNA può stabilire con certezza se individui diversi appartengano alla stessa specie o a specie diverse. Ma da quei fossili così antichi non si può estrarre il DNA, che invece si è in grado di recuperare da reperti più recenti. E infatti grazie all’analisi del DNA antico è stato possibile risolvere il problema del rapporto filogenetico tra noi e i neandertaliani. Per lungo tempo si è pensato che loro e noi fossimo due sottospecie della stessa specie: Homo sapiens neanderthalensis loro e Homo sapiens sapiens noi. Ora invece sappiamo che siamo due specie distinte: Homo neanderthalensis e Homo sapiens.

L’analisi morfologica, e sui fossili molto antichi è l’unica che si può fare, risente non poco dell’interpretazione soggettiva del ricercatore. Ed è così che può succedere che la medesima morfologia sia valutata diversamente dagli studiosi: come appunto da Lordkipanidze e da Tattersall o da Clarke. La sequenza del DNA ricavata dallo stesso campione invece deve essere uguale qualunque sia il laboratorio che l’ha prodotta. In caso contrario si deve rifare l’analisi.

L'articolo di Science


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Ostacolare la scienza senza giovare agli animali: i divieti italiani alla sperimentazione

sagoma di macaco e cane

Divieto di usare gli animali per studi su xenotrapianti e sostanze d’abuso, divieto di allevare cani e primati per la sperimentazione. Sono norme aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla Direttiva UE per la protezione degli animali usati a fini scientifici, inserite nella legge italiana ormai dieci anni fa. La recente proposta di abolizione di questi divieti, penalizzanti per la ricerca italiana, è stata ritirata dopo le proteste degli attivisti per i diritti degli animali, lasciando in sospeso un dibattito che tocca tanto l'avanzamento scientifico quanto i principi etici e che poco sembra avere a che fare con il benessere animale.

Da dieci anni, ormai, tre divieti pesano sul mondo della ricerca scientifica italiana. Divieti che non sembrano avere ragioni scientifiche, né etiche, e che la scorsa settimana avrebbero potuto essere definitivamente eliminati. Ma così non è stato: alla vigilia della votazione dell’emendamento, inserito del decreto Salva infrazioni, che ne avrebbe determinato l’abolizione, l’emendamento stesso è stato ritirato. La ragione?