Democrazia. Si fa presto a invocare il diritto di tutti di parlare. In effetti, l’isegoria, il diritto di parlare, è una delle caratteristiche della democrazia fin dalla sua nascita nell’Atene del IV sec. A.C. Tuttavia, allora sapevano bene, cosa oggi apparentemente dimenticata, che isegoria non è parrhesia: il diritto di parlare a vanvera. Democrazia non è il diritto di tutti di parlare senza sapere e senza ragionare. Certo, il dolore di una madre e di un padre per lo stato di una figlia sofferente e malata deve essere rispettato; come deve essere rispettato il loro diritto a tentare ogni strada. Solo il silenzio e lo stringersi loro per conforto è dato. Ma questo non ha a che fare con le procedure democratiche, quanto piuttosto con il nostro essere loro solidali in quanto uomini. Eppure si urla di democrazia, di scienza, del diritto di parlare, ma quanti tacciono per non incorrere nella parrhesia, nel parlare senza sapere, nel parlare senza ragionare, nel parlare solo perché si vuole apparire?
A distanza di qualche giorno dalla manifestazione nazionale tenutasi a Roma il 23 di marzo a favore del metodo Stamina e in prossimità di due nuove manifestazioni (previste per il 31 di marzo e l'11 di aprile a San Pietro e davanti al Senato), il dibattito sui trattamenti proposti dalla fondazione di cui è presidente Davide Vannoni assume proporzioni internazionali con la pubblicazione, su Nature News, di un articolo che riporta quanto accaduto. Renato Balduzzi, Ministro della Salute, si è sentito in dovere di replicare tramite un comunicato stampa, precisando che il decreto legge, sia nella sua forma originale, che così come riformulato, non riconosce alcuno statuto ufficiale al metodo Stamina e che la “decisione del Governo di autorizzare la prosecuzione e il completamento delle terapie “ordinate” dai magistrati si è resa necessaria solo per ovviare ad una discriminazione, frutto di autonomi pronunciamenti dei giudici”. Gli aspetti scientifici ed etici della questione sono già stati enucleati da contributi puntuali ospitati su questa e altre riviste. Ha parlato in passato del caso Carrer Alessandro Blasimme. Invece proprio sulla controversia circa il trattamento di Sofia, hanno espresso il loro parere Giuseppe Remuzzi, Alberto Mantovani a nome del gruppo 2003, nonché 13 studiosi italiani che hanno scritto una lettera aperta al Ministro Balduzzi.
Tenuto conto di ciò, non ci sembra opportuno precisare oltre le considerazioni di natura etica e scientifica, né dettagliare la cronaca che ha punteggiato il dibattito. Vogliamo però rimarcare un importante aspetto della questione che forse è stato ingiustamente sottovalutato. Il confronto tra Ministero, pazienti (e loro sostenitori) e comunità scientifica è avvenuto sino a qui con modalità improprie e in luoghi (istituzionali e non) eterodossi o inappropriati. Questa scarsa osservanza delle buone procedure democratiche ha favorito un’impostazione emotiva e ideologica della questione, che ha minato e mina prima di tutto la legittimità delle risoluzioni adottate dai massimi organi della rappresentanza politica. Per società pluraliste, come quella italiana, la possibilità che decisioni politiche silenzino il disaccordo morale ed etico, risolvendolo, è remota. In Democracy and Knowledge, Josiah Ober descrive due modelli alternativi di regolamentazione democratica del progresso tecno-scientifico. Da un lato, il coinvolgimento diretto del cittadino in un trasparente processo decisionale. Dall’altro, l’imposizione del risultato di un processo opaco di consultazione tutta interna all’istituzione riassunta nel motto: “Gather the Experts. Close the Door. Design a Policy. Roll It Out. Reject Criticism.”
Il Ministero della Salute sembra aver scelto di seguire fin da principio la falsariga di questo secondo modello, convocando, nel novembre del 2012, un “board di saggi” affinché indicasse linee guida da integrare nel decreto legge circa la governance dei trattamenti con cellule staminali, e dirimesse direttamente la questione Stamina. Senza entrare nel merito della definizione dei criteri di reclutamento del “board dei saggi”, ci sembra fondamentale sottolineare come questa strategia di policy-making—che solo ironicamente è possibile considerare aperta alla partecipazione della cittadinanza—abbia creato essa stessa lo spazio per interventi che hanno fatto uso di luoghi istituzionali non pertinenti (e.g. i tribunali) e di strumenti retorici inadeguati alla delicatezza della materia. A questo proposito, per quanto non dovrebbe servire rimarcarlo, facciamo notare come una trasmissione televisiva quale "Le Iene" non sia né il luogo istituzionale appropriato per avanzare istanze di diritto, anche qualora fossero legittime, né lo strumento retorico più appropriato ad affrontare un dibattito pacato, costruttivo e non gridato sulla vita umana. La scelta esclusiva del Ministero si è rivelata ancora più sfortunata dal momento che, alla stessa, non ha fatto seguito nemmeno il sordo rigetto delle critiche. La dimostrazione di cedevolezza rispetto alle richieste delle frange più emotivamente agguerrite ha gettato ulteriore benzina sul fuoco. È così esploso uno pseudo-dibattito disperso e inconcludente che minaccia gravemente la legittimità delle istituzioni, quale sede di risoluzione ponderata e non emotiva di conflitti, e della comunità scientifica, quale luogo di sapere intersoggettivamente controllato e controllabile.
Sentiamo, soprattutto in questo momento, di non poterci astenere dal rilievo, anche banale, che tanto la natura delle questioni etiche in merito al progresso tecno-scientifico in generale e più specificamente biomedico, quanto i cambiamenti più recenti dell’assetto del corpo sociale, impongono un radicale ripensamento, in senso di reale e non gridata apertura al cittadino, dell’architettura degli organi istituzionali deputati alla compilazione e all’implementazione di policies relative alle scienze della vita. Non basta invocare la democrazia, bisogna realizzarla attraverso una partecipazione del cittadino non gridata, non su base emotiva, non gestita da capipopolo che con il sapere necessario hanno poco a che fare. Non abbiamo più bisogno di parrhesiasti, di persone che parlano a vanvera.