L’Asia è il “continente emergente” nell’economia della nuova globalizzazione. Da quasi venti anni le performance della Cina, dell’India e di una dozzina di altri stati localizzati nel sud-est sono, per intensità e continuità, senza precedenti. La crescita del sistema produttivo è stata accompagnata da uno sviluppo del sistema di ricerca e dell’alta educazione ancora più accelerata e tale da ridisegnare la “geografia della scienza”. Ormai l’Asia ospita la a maggioranza degli scienziati e degli ingegneri del pianeta e contende all’America il primato mondiale degli investimenti assoluti.
Ma la tensione allo sviluppo scientifico e culturale si è tutt’altro che esaurito. L’India, per esempio, ha in progetto di raddoppiare sia l’offerta di alta educazione sia l’intensità degli investimenti in ricerca e sviluppo entro il 2020. Per la ricerca il governo, come ha dichiarato nei giorni scorsi, vuole portare l’intensità degli investimenti dall’attuale 1% del Prodotto interno lordo (PIL) al 2%. Poiché l’economia indiana cresce a una velocità prossima al 10% annuo, significa che gli investimenti in ricerca cresceranno nei prossimi dieci anni a una velocità prossima al 20% annuo.
Nel campo dell’alta educazione il governo indiano intende passare dalle attuali 500 università e dai 26.000 college, dove può studiare solo il 12% della popolazione giovanile eleggibile, ad almeno 800 o 900 università e a 40.000/45.000 college, dove far studiare almeno un quarto della popolazione giovanile eleggibile. L’India vuole più laureati per sostenere la sua economia.
L’intenzione è recuperare il gap nei confronti di Cina e Stati Uniti: i due paesi di riferimento. Il governo, per esempio, giudica insoddisfacente il numero attuale di giovani che conseguono il PhD in un anno: 8.900. Un terzo rispetto a Usa e Cina.
Ma non è solo un problema di quantità. L’India intende aumentare anche la qualità dell’offerta educativa. Il sistema universitario di quell’immenso soffre, secondo il governo, di tre gravi problemi. Primo: sono troppi i giovani poveri che restano fuori dalle università: è un’ingiustizia sociale non più sostenibile, ma – sostengono a Nuova Delhi – è anche uno spreco di risorse umane non più tollerabile.
Secondo: sono pochi i giovani laureati in materie scientifiche che accettano di restare nelle università pubbliche per fare ricerca. La gran parte preferisce andare a lavorare nelle imprese private, attratte da stipendi molto più alti e da una domanda impetuosa: le imprese straniere che hanno aperto un centro di ricerca in India sono salite dalle 100 nel 2003 alle 750 di oggi.
Terzo: l’offerta educativa non è sempre all’altezza. Soprattutto nei piccoli college privati la qualità lascia molto a desiderare. In quei piccoli college basta pagare per conseguire un titolo che vale poco. Occorre invece creare centri che raggiungano i più alti standard internazionali di offerta e di rigore nella selezione. Bisogna imitare, dicono a Nuova Delhi, l’Indian Institute of Technology (IIT): che apre le porte dei suoi 15 campus ogni anno solo al meglio del meglio: 6.000 studenti su 300.000 che fanno richiesta. Una capacità selettiva (solo il 2%) maggiore persino di quella di Harvard (7%).
Nella stessa ottica si muove la piccola Singapore. Che nei prossimi 5 anni intende aumentare gli investimenti in ricerca e sviluppo al ritmo del 20% annuo, in modo da passare dall’attuale intensità del 2,3% sul Pil al 3,5%. Di cui almeno l’1% dovrà essere investimento pubblico. Singapore vuole entrare nel novero dei dieci paesi al mondo con la maggiore intensità di ricerca. Perché è convinto che solo così potrà risultare competitivo nell’economia globale della conoscenza. Ma anche nel piccolo stato sono convinti che ricerca e alta educazione devono andare di pari passo, anche nella ricerca dell’eccellenza. Per questo la Fondazione Nazionale della Ricerca e il Ministero dell’Educazione puntano a rendere l’Università Nazionale di Singapore (NUS) l’Università Tecnologica Nanyang due centri di valore assoluto, capace di attrarre da tutto il mondo il meglio dei docenti e dei ricercatori.
In Cina, infine. Inutile ricordare che il Dragone ha realizzato negli ultimi venti anni le più grandi performance in campo economico (crescita media del PIL del 10% annuo), scientifico (crescita media degli investimenti in R&S del 20% annuo; un numero di ricercatori che nell’ultimo decennio è passato da 0,4 a 1,4 milioni) e nell’alta educazione (nel 1998 i laureati in Cina erano stati 0,8 milioni; nel 2005 erano saliti a 3,0 milioni; dal 1998 gli studenti universitari cinesi sono cresciuti al ritmo del 30% annuo; oggi in Cina sono iscritti all’università più del 25% della popolazione giovanile eleggibile). Ma, pur confermando la crescita quantitativa – Pechino vuole raggiungere il 3,0% degli investimenti in R&S entro il 2020 – ora i Cinesi puntano anche alla qualità. Lo conferma l’inaugurazione delle attività, in questi giorni, dell’Università meridionale della scienza e della tecnologia (SUSTC), che ha una serie di obiettivi precisi: arruolare i giovani più bravi e creativi, avere una dimensione internazionale; attrarre studenti e docenti da ogni parte del mondo. Per contribuire a fare della Cina il leader al mondo nel campo dell’alta educazione.
Non sappiamo se India, Singapore e Cina riusciranno a raggiungere questi ambiziosi obiettivi. Verifichiamo però che tutti i tre paesi asiatici pensano che il loro futuro passa per la ricerca e per l’università. E agiscono di conseguenza.