Si potrebbe iniziare a parlare della vita di Charles Darwin e di sua moglie Emma dalla sala 70 del British Museum di Londra. In questa sala si trova infatti il cosiddetto “vaso Portland”. Un meravigioso vaso etrusco nero con le decorazioni bianco-alabastrine. Quel vaso, già di proprietà dei Barberini, poi passato al terzo duca di Portland e quindi al Museo, fece da modello a una serie di “vasi Portland” realizzati nella fabbrica di ceramica Wedgwood, nelle Midlands inglesi.
Wedgwood. Il nome ci dice qualcosa, soprattutto alle signore italiane di buona famiglia che si facevano portare dai mariti in viaggio di lavoro a Londra qualche piatto o teiera Wedgwood, magari infilati nella valigia fra i calzini e i pantaloni impiegati come imballaggio.
Nel 1789, mentre a Parigi infuriava la rivoluzione e ci si preparava alla decollazione delle teste reali, nella quieta campagna dello Staffordshire Josiah I Wedgwood studiava i libri che riferivano degli scavi in centro Italia per studiare la superba oggettistica etrusca rinvenuta da archeologi e tombaroli. Uomo di grande erudizione umanistica e scientifica, Josiah I aveva lanciato la ceramica Wedgwood diventando ceramista reale (aveva realizzato uno straordinario servizio da the per il re Giorgio III e la moglie Charlotte, e un'ancora più incredibile servizio di 952 pezzi – il Green Frog Service - tutti diversi e raffiguranti paesaggi ed edifici reali d'Inghilterra, per l'imperatrice Caterina II di Russia).
Un individuo straordinario, questo Josiah, grande innovatore della tecnica della ceramica, sperimentatore accanito che mise a punto uno fra i primi pirometri capaci di misurare con precisione la temperatura dei forni per la cottura dell'argilla. La cottura era tutto, per ottenere pezzi resistenti e perfetti. Ma le ceramiche Wedgwood innovavano anche perché, a differenza delle altre, spesso non necessitavano di smaltatura ma nascevano già colorate per uno speciale impasto delle argille – quella scura detta basalt e quella vitrea con tonalità verdi o blu-azzurre detta jasper.
Quanta scienza in quei piatti e teiere, e quanto amore per la conoscenza in quegli uomini che, insieme a Joasiah I, si riunivano ogni domenica del mese nel periodo più prossimo alla luna piena per discettare di arti, scienza, tecnica e politica in casa di uno di loro per poi tornare in carrozza alle proprie rispettive dimore favoriti dal chiarore selenita. Lunatiks, amavano chiamarsi, e il loro gruppo Lunar Society, fra le compagini più attive nella promozione della cultura dell'innovazione e del progresso che fece da lievito alla coeva rivoluzione industriale. Non a caso fra gli amici Lunatiks figuravano personaggi come James Watts (inventore della macchina a vapore), l'orologiaio e tecnologo John Whitehurst, l'imprenditore Thomas Bentley e i medici William Small e Erasmus Darwin. Fu Erasmus che si occupò dell'amputazione della gamba dell'amico Josiah I, afflitto da tempo da un male inguaribile.
Non è strano che in casa dei coniugi Emma e Charles Darwin ci fossero ben due “vasi Portland” – vanto dell'arte ceramica britannica. Emma, infatti, era una degli 8 figli di Josiah Wedgwood II (figlio di Josiah I), mentre il cugino Charles era figlio di Robert Darwin (a sua volta figlio di Erasmus) e di Susannah Wedgwood (figlia di Joasiah I). Dei due vasi ne rimase uno solo, il più pregiato perché numerato (il 12), appartenente a Emma, mentre quello di Charles fu venduto, insieme alle cere che l'artista Flaxman realizzò per la decorazione dei vasi, per acquistare un biliardo, vera passione del grande naturalista.
Diciamolo, Charles non amava le ceramiche, preferiva ingombrare la bella casa di campagna, a 16 miglia a Sud di Londra, di pietre, fossili (in fondo era geologo) insetti e carcasse di animali che i figli lo aiutavano a spolpare per ottenere gli scheletri.
Quello fra Charles ed Emma fu un matrimonio felice e duraturo – come ci racconta con grande perizia Chiara Ceci nel libro Emma Wedgwood Darwin. Ritratto di una vita, evoluzione di un'epoca (Sironi Editore, 2013) da cui abbiamo tratto tutte queste notizie. E fecondo, nonostante i guai della consaguineità, di ben dieci figli, tre dei quali morti in giovane età. Un'unione fra due vecchi conoscenti – visto che le due famiglie si frequentavano da sempre, in un clima di libertà, vita all'aperto nella campagna inglese, educazione superiore.
Emma crebbe come doveva crescere una lady inglese dell'Ottocento: suonando il pianoforte, leggendo Jane Austen, Walter Scott e – con meno entusiasmo – Charles Dickens. Apprendendo alla perfezione il francese, l'italiano e il tedesco. Accompagnando la madre Bessy e le sorelle a fare shopping di cappellini e nastrini nella capitale. E compiendo l'inevitabile Grand Tour in Italia fra Roma, Napoli e Milano, con tanto di visita all'ultima cena e l'opera alla Scala.
I due figlioli si decisero relativamente tardi al grande passo, quando le due famiglie già disperavano di accasarli. Charles nel frattempo era partito come gentiluomo di compagnia animato da romantici ideali Humboldtiani per il giro del mondo sul brigantino Beagle, dal quale era tornato carico di reperti e una mezza idea che le specie non fossero state di volta in volta create da un indaffaratissmo Signore ma frutto di continue trasmutazioni le une nelle altre secondo leggi che ancora non comprendeva.
La tenera, compita ma disordinata Emma (per questo soprannominata dall'adorante famiglia “Little Miss Slip-Slop”) si districava fra matrimoni e funerali degli innumerevoli parenti, viaggi a Parigi e a Ginevra dagli zii Sismondi (il famoso storico ed economista elvetico) a raffinare ulteriormente idee e maniere. Religiosa per la frequentazione degli Unitariani ma non bigotta, era come se Emma aspettasse la sua occasione. Che si presentò allorquando Charles di ritorno dal giro del mondo riprese a frequentare i Wedgwood.
Siamo nel 1838, la giovanissima Vittoria diventa regina inaugurando una nuova epoca di piena modernità e industrializzazione, i treni a vapore cominciano a percorrere in lungo e in largo l'isola. Lo scapolo Charles si chiede finalmente cosa debba fare della sua vita. Si domanda fra l'altro se mai riuscirà a “catturare” un esemplare del “più interessante fra gli animali vertebrati” e se sarà in grado di “nutrirla”. Sposarsi o non sposarsi, questo è il dilemma, che Charles affronta con piglio scientifico, compilando su un foglietto i pro e i contro del matrimonio (“Marry/Not marry. This is the question”). Da scapolo avrebbe potuto continuare a viaggiare, imparare le lingue, con la svagata libertà da farfallone del fratello Erasmus. Da ammogliato avrebbe avuto certo grane e impegni, ma anche qualcuno “da amare e con cui divertirsi; comunque sia, meglio di un cane”.
Il lungo elenco bipartito portava dunque alla conclusione, come in un teorema: “Marry, Marry, Marry, quod est demostrandum”. E sposandosi, ovviamente fare figli in fretta, in modo da poterli allevare quando si aveva ancora sufficiente elasticità e vivacità per tener loro testa e forgiarli a propria immagine. Timidamente dunque Charles si dichiara ad Emma che aderisce con inaspettato entusiasmo. Le nozze si celebrano il 29 gennaio 1839.
La biografia procede con un gustoso racconto di come, anno dopo anno, i Darwin mettono su famiglia nella campagna del Kent; lui - padre affettuoso, ma anche cronico malato più o meno immaginario che si cura a più riprese con l'idroterapia, in gran voga in quegli anni. E soprattutto indaffarato sui suoi reperti e al suo orto a sbrogliare la matassa dell'evoluzione delle specie, delineata con una certa chiarezza già in una lettera del 1844 ma che si manifesterà in pubblico solo nel 1859 sulla spinta delle analoghe riflessioni dell'amico-rivale Alfred Russel Wallace. Lei a figliare, leggere ad alta voce romanzi all'amato marito, suonare, tutto con la devozione di una donna d'altri tempi.
Ci piacerebbe proseguire nel racconto di quelle vite fino al declino e la morte prima di Charles e poi di Emma, vera roccia e faro della sterminata famiglia. Ma ci sembrerebbe di profittare eccessivamente di un racconto che vale la pena seguire direttamente dal libro di Chiara Ceci, giovane biologa ma ormai pure storica a tutti gli effetti, che ha speso più di un anno a caccia di notizie vivendo negli stessi luoghi dei Darwin, entrando in contatto con tutti i discendenti raggiungibili e approfondendo i principali aspetti dell'epoca, l'interessante storia della ceramica inglese nonché la straordinaria temperie scientifica e culturale nella quale fu possibile l'irrompere della scandalosa teoria dell'evoluzione delle specie. Uomo compreso.
Ed è proprio nel delicato passaggio dalle specie animali all'uomo (anch'esso finalmente ricompreso a tutti gli effetti nel regno animale) che Emma interviene in qualità di correttrice di bozze della postuma Autobiografia di Darwin convincendo il figlio Frank a omettere alcuni passaggi indigesti: che la moralità emergesse in toto dal mondo naturale e che le credenze religiose fossero, alla fine, riconducibili a inclinazioni ereditarie, “come la paura dei serpenti e delle scimmie”.
Perché guastare la memoria del grande naturalista, peraltro già celebrato con una statua che campeggiava all'ingresso del Museo di storia naturale di Londra e tumulato in Westminster? si disse la saggia Emma. Che il mondo continuasse ancora per un po' a temere le scimmie; non senza resistenze, la rivoluzione avviata dal suo Charles avrebbe dato i suoi frutti a tempo debito.