Il Premio Nobel per la Chimica 2016 è andato a tre ricercatori – il francese Jean-Pierre Sauvage dell’università di Strasburgo, lo scozzese trapiantato in America Fraser Stoddart in forze alla Northwestern University di Evanston e all’olandese Bernard L. Feringa dell’università di Groningen - per i loro lavori su «progettazione e sintesi di macchine molecolari».
Le macchine molecolari sono una parte importante della chimica supramolecolare che ha avuto nel francese Jean-Marie Lehn, Premio Nobel per la Chimica nel 1987, uno dei suoi pionieri. L’italiano Vincenzo Balzani, dell’università di Bologna, membro del Gruppo 2003, ha lavorato con Lehn ed è stato tra i pionieri degli studi sulle macchine molecolari.
Molti pensano che avrebbe meritato il premio assegnato dall’Accademia svedese delle scienze almeno quanto i tre vincitori. E, infatti, è stato, per così dire, il “primo dei non eletti”. Pensiamo che tocchi ai chimici entrare nel merito e dire se nei confronti di Vincenzo Balzani si è consumata un’ingiustizia. Noi qui ci limitiamo a raccontare il suo impegno nel campo delle macchine molecolari.
Vincenzo Balzani, pioniere della chimica supramolecolare
Vincenzo Balzani è nato a Forlimpopoli, in provincia di Forlì, il 15 novembre 1936. Tra poco, dunque, compirà 80 anni. Terminata la scuola media si è iscritto a chimica presso l’istituto fondato a Bologna da Giacomo Ciamician, a sua volta pioniere della fotochimica. Divenuto ricercatore, Vincenzo Balzani ha rilanciato il progetto di Ciamician: imparare a fare come le piante e mettere a punto un’efficiente “fotosintesi artificiale”.
Così, nel 1977, Balzani diventa direttore del nuovo Istituto di Fotochimica e Radiazioni d'Alta Energia che il CNR ha fondato a Bologna. In questa veste ha nuove opportunità per estendere la sua rete di collaborazioni internazionali. Nel 1972 Balzani era già stato a Vancouver, in Canada, visiting professor presso la University of British Columbia, e poi aveva lavorato per un periodo in Israele presso l’Energy Research Center della Hebrew University of Jerusalem. Ora attiva una collaborazione strategica con Jean-Marie Lehn, un chimico francese che lavora all’università di Strasburgo ed è il pioniere della sintesi e dello studio dei criptandi, molecole che hanno un’architettura così complessa da inaugurare la stagione di una nuova disciplina chimica, quella della chimica supramolecolare.
Si tratta di una chimica che, come dice il nome, va oltre la molecola – considerata l’unità fondamentale del mondo chimico – e che, come preferisce definirla lo stesso Lehn, ha per oggetto strutture formate da diverse unità molecolari tenute insieme da legami intermolecolari.
Progettare queste molecole, non è facile. Perché da un lato richiede una capacità di intuizione fuori dall’ordinario e dall’altro una capacità di “cucina” in laboratorio – ovvero di sintesi – non meno straordinaria. È come costruire case e ponti e città, ma alla nanoscala. Non a caso la chimica supramolecolare è parte fondante delle nuove nanotecnologie. Nel 1987, come abbiamo detto, a Jean-Marie Lehn viene assegnato il Premio Nobel: la motivazione rimanda proprio agli studi sui criptandi. È il riconoscimento che la chimica supramolecolare avrà un futuro. Di questo futuro è parte Vincenzo Balzani.
Sia perché, insieme a Lehn, è impegnato in una serie di studi sulla luminescenza dei complessi che i criptandi formano con ioni di elementi lantanidi come l’europio III e il terbio III. Questi complessi hanno la capacità di catturare l’energia solare e possono essere considerati a tutti gli effetti “antenne” luminose. Le prime antenne artificiali.
Sia perché Balzani è tra i primi, con Franco Scandola, a interessarsi di fotochimica supramolecolare. In pratica si tratta di riuscire a costruire complicate architetture molecolari finalizzate al miglioramento del trasferimento di energia elettronica e di elettroni. Quelle che Balzani inizia a immaginare sono vere e proprie “macchine molecolari”.
Chimico di genio e pacifista
Se ne inizia a parlare subito, già nel convegno che Vincenzo Balzani organizza e presiede nel 1987 a Capri su “Separazione di carica fotoindotta e migrazione di energia in sistemi supramolecolari”. Nel congresso emerge tutto Balzani: il chimico di genio e lo scienziato attento ai rapporti con la società che, per le sue idee, non teme di mettere in gioco il suo prestigio.
Il chimico di genio propone per la prima volta l’idea delle “macchine molecolari”. Lo scienziato attento al sociale, che con un gruppo di pacifisti a Bologna già pratica l'obiezione fiscale alle spese militari, propone ai partecipanti al congresso di prendere posizione contro l'escalation degli armamenti e la politica della NATO. Il bello è che il convegno è un ARW (Advanced Research Workshop) finanziato dalla NATO e che tra i partecipanti ci sono molti scienziati americani niente affatto contenti della proposta. La raccolta delle firme su un documento scritto da Balzani è magra e la vis polemica, al contrario, grassa. Insomma, il workshop si rivela un successo dal punto di vista scientifico, ma certo non dal punto di vista politico. Balzani però è ugualmente contento di aver portato, per la prima volta, chimici di tante nazioni a discutere sul problema della pace.
Il successo scientifico consiste, sostanzialmente, nel battesimo di una sottodisciplina della nuova chimica di Lehn: la fotochimica supramolecolare. Vincenzo Balzani e Franco Scandola ne sono i pionieri. Come dimostrano nel 1991 pubblicando il primo libro sull’argomento, Supramolecular Photochemistry.
Collaborazioni internazionali e “macchine molecolari”
«Dopo di che – ricorda Balzani – la nostra ricerca si è volta a sistemi ancor più complessi, fino a realizzare le prime “macchine molecolari”». Ma prima di descrivere, anche se brevemente, di cosa si tratta occorre ricordare che, intanto, il chimico bolognese ha ancora ampliato il gruppo (ne fanno parte Luca Prodi, che poi costituirà un suo gruppo, e Luisa De Cola, che più avanti andrà all'estero) e ha stretto altre collaborazioni strategiche: col francese Jean-Pierre Sauvage, allievo di Lehn, col gruppo di Gianfranco Denti (università di Pisa), con Sebastiano Campagna (università di Messina) che passa lunghi periodi a Bologna, con il portoghese Fernando Pina, con lo scozzese James Fraser Stoddart, con il tedesco Fritz Vögtle.
Jean-Pierre Sauvage e James Fraser Stoddart, lo ricordiamo, sono due dei tre vincitori del Nobel per la Chimica 2016. La collaborazione del gruppo bolognese con questi scienziati si basa, come al solito, sulla complementarietà delle competenze. «Stoddart, per esempio, faceva sintesi di molecole complesse “non naturali” – ricorda Balzani – diversamente da quanto succede per la maggior parte dei chimici organici che si dedicano alla sintesi di molecole complesse che già si trovano in natura. Invitammo Stoddart per un seminario e così nacque una collaborazione andata avanti per una quindicina d'anni in modo molto proficuo poiché noi sapevamo tutto su fotochimica, fotofisica ed elettrochimica e lui, con uno stuolo di studenti e di dottorandi, era in grado di sintetizzare le molecole complesse necessarie per i nostri studi. Anche quando Stoddart si trasferì da Birmingham a Los Angeles la collaborazione continuò con grande intensità. Ci vedevamo almeno due volte l’anno per discutere. Noi presentavamo proposte per nuovi sistemi supramolecolari, lui li sintetizzava e noi poi li facevamo "funzionare"».
Con Stoddart, a partire dal 1989, Vincenzo Balzani ha firmato oltre 70 articoli scientifici. Con Sauvage, a partire dal 1991, gli articoli firmati insieme sono stati 26.
Con l'aiuto di tutti questi laboratori il gruppo di Balzani, dunque, dimostra che i concetti macroscopici di "dispositivo" e di "macchina" possono essere estesi a livello molecolare, cioè nanometrico.
I rotassani e i catenani
Prendiamo il caso dei rotassani, che hanno meritato il premio a Stoddart. Sono l’aggregazione di due molecole: una lineare e l’altra ciclica. Simulano, rispettivamente, un filo e un anello. L’anello circonda il filo. E poiché il filo ha due blocchi, in testa e in coda, non si può sfilare: può andare solo avanti e indietro lungo il filo. Si tratta di un dispositivo nanoscopico che compie un movimento meccanico del tipo di quello che si ha in un pallottoliere.
I catenani sono invece aggregati di molecole cicliche infilate l’una nell’altra. E, dunque, sono l’analogo nanoscopico degli anelli di una catena (da cui il nome).
Questi e altri sistemi supramolecolari, se opportunamente progettati, possono diventare vere e proprie “macchine molecolari” capaci di compiere movimenti di tipo meccanico e anche di effettuare un “lavoro utile” in maniera reversibile se sottoposti a un’opportuna stimolazione esterna (in particolare con la luce).
L’ingegneria molecolare
«Per capire il significato di congegno o macchina a livello molecolare – spiega Balzani - e anche la logica che i chimici devono seguire per costruirli, possiamo ricorrere a un’analogia molto semplice. Se nel mondo macroscopico un ingegnere vuole mettere a punto un’apparecchiatura come, a esempio, un asciugacapelli, prima costruisce i componenti – l’interruttore, il ventilatore, la resistenza – ciascuno dei quali è in grado di svolgere un'azione specifica e poi li assembla in modo opportuno: nell’asciugacapelli, per esempio, la resistenza va messa davanti al ventilatore, non dietro. Infine l’ingegnere collega i componenti secondo uno schema appropriato e si ottiene un'apparecchiatura che, alimentata da energia, compie una funzione utile. Il chimico procede allo stesso modo, con una complicazione. Deve lavorare non con componenti macroscopici, ma a livello molecolare, cioè nanometrico. Prima di tutto deve costruire molecole capaci di svolgere compiti specifici e poi deve assemblarle in strutture supramolecolari organizzate, in modo che l'insieme coordinato delle loro azioni possa dar luogo ad una funzione utile. Si tratta di una vera e propria ingegneria a livello molecolare».
Per almeno quindici anni Balzani e il suo gruppo agiscono come ingegneri molecolari. E costruiscono “dispositivi" e "macchine" molecolari in grado di svolgere “funzioni utili”. I principi di queste ricerche ed i risultati ottenuti dal gruppo di Bologna e da altri gruppi che successivamente sono entrati in questo campo sono discussi in un libro, Molecular Devices and Machines - A Journey in the Nano World (Congegni e macchine molecolari – un viaggio nel nano mondo) che Vincenzo Balzani, con Alberto Credi e Margherita Venturi, pubblica nel 2003. Il libro ha un grande successo nella comunità scientifica. Infatti è molto citato ed è stato tradotto in giapponese e in cinese.
Di Molecular Devices and Machines, su richiesta della casa editrice, nel 2008 ne è uscita, sempre in inglese, una nuova edizione aggiornata, anch'essa prontamente tradotta in cinese.
L’ascensore molecolare
Uno degli esempi più notevoli di questo lavoro sulle macchine molecolari può essere considerato la messa a punto del “molecular elevator” (ascensore molecolare), poi ribattezzato “nanospider”, descritto in un articolo pubblicato dai gruppi di Balzani e di Stoddart su Science il 19 marzo 2004. Il “molecular elevator” è stato citato nelle motivazioni del Nobel 2016. Si tratta di una vera e propria nanomacchina. L’ascensore, che strutturalmente è un tri-rotassano, ha infatti un diametro di 3,5 nanometri (nm) e un’altezza di 2,5 nm. È costituito da due componenti molecolari legati meccanicamente fra loro come le parti di un ingranaggio.
Il primo componente – ci spiega Balzani – è una specie di telaio a tre rami (in grigio, azzurro e verde nella figura) costituito da atomi di carbonio, idrogeno e azoto: lungo ogni ramo ci sono due "stazioni" diverse, quella verde e quella azzurra. Il secondo componente (in rosso) è una piattaforma costituita da tre anelli fusi fra loro, anch'essi composti da atomi di carbonio, idrogeno e ossigeno. «Per muovere la piattaforma lungo il telaio a tre rami – spiega Balzani – occorrono degli input chimici. Sui tre rami c’è un sito (stazione verde) con un’ammina che può essere protonata (legata a un protone, H+). Agli anelli “piace” stare vicino agli H+. Se rendi acida la soluzione, cioè aggiungi H+, la piattaforma porta i suoi tre anelli attorno ai siti amminici protonati, se rendi basica la soluzione e, quindi, sottrai ioni H+, la piattaforma scende perché i tre anelli preferiscono disporsi attorno all'altra stazione (azzurra), costituita da ioni dipiridinio. Quindi, cambiando l’acidità della soluzione, la piattaforma si muove, rispetto al telaio, in “giù“ e in “su”, cioè da una stazione all'altra, proprio come avviene in un ascensore, coprendo una distanza di 0,7 nanometri.
Questa macchina molecolare può sviluppare una forza di circa 200 piconewton (pN). Il newton (N) è un’unità di misura della forza ed è definito come la forza necessaria ad accelerare una massa di un chilogrammo di un metro al secondo quadrato. Il piconewton è pari a 10-12 N: ovvero a un millesimo di miliardesimo di newton. Un valore che non è piccolo, alla nanoscala. Tanto che, sostiene Balzani, « si tratta di una forza superiore non solo a quella generata da precedenti prototipi di macchine molecolari artificiali, ma anche dai motori molecolari del mondo biologico basati su proteine».
Il guaio è che alla lunga il processo si "sporca", perché si creano dei prodotti (che potremmo chiamare "di scarto") che si accumulano nel contenitore. «Per avere qualcosa che funzioni senza fermarsi occorre eliminare questi prodotti di scarto, proprio come succede con i motori a scoppio. Se la macchina molecolare è alimentata con energia chimica (acidi e basi) è inevitabile la formazione di prodotti di scarto, che in un sistema del genere non si riesce ad eliminare. Abbiamo pensato, allora di usare come energia la luce, poiché certe reazioni fotochimiche sono completamente reversibili e non producono scarti».
Il nanomotore a luce solare
L’idea è stata realizzata con un altro rotassano, a lungo progettato e poi sintetizzato e sperimentato. Come dimostra l’articolo Autonomous artificial nanomotor powered by sunlight (Un nanomotore autonomo artificiale alimentato dalla luce solare) pubblicato nel 2006 dai gruppi di Balzani e Stoddart su PNAS, i Proceedings della National Academy of Science degli Stati Uniti d’America. L’articolo realizza una parte importante del sogno di Ciamician: dimostra infatti che è possibile “fare come le piante” e costruire macchine capaci di svolgere funzioni utili alimentate con l’energia pulita e rinnovabile che viene dal Sole. «Possiamo infatti mandare avanti e indietro un anello lungo un filo solo con la luce». Ma Balzani ammette che non tutti i problemi sono risolti. «Nel sistema ci sono reazioni competitive, che rallentano i movimenti e abbassano la resa quantica».
Insomma, questi dispositivi e queste macchine molecolari funzionano. Ma vanno perfezionate. Ora sono Margherita Venturi, Alberto Credi e Paola Ceroni che continuano il lavoro, con la messa a punto di sistemi sempre più complessi.
Grazie a queste ricerche stiamo non solo passando dalla scienza e dalla tecnologia a microscala (milionesimi di metro) a quelle a nanoscala (miliardesimo di metro), «ma anche dall’elettronica alla fotonica e alla chemionica: «perché abbiamo dimostrato che la luce e gli impulsi chimici sono mezzi molto convenienti sia per “far muovere” le molecole sia per scambiare informazioni a livello molecolare», rileva Balzani. «D’altra parte il nostro approccio bottom-up, di costruzione dal basso di nanosistemi in soluzione, sta spostando l'interesse di molti scienziati dalla “solid matter”, cioè dallo studio della materia allo stato solido, alla solution and soft-matter, allo studio della materia in soluzione o allo stato colloidale».
I nano-strumenti del futuro
E in futuro? «In prospettiva c’è il lavoro interdisciplinare per la costruzione di nanostrumenti in cui discipline diverse come fotonica, chemionica, elettronica e meccanica saranno integrate. Anzi, ci saranno veri e propri gradienti di integrazione tra queste discipline in funzione dei sistemi da mettere a punto. Avremo nuovi congegni e, c’è da scommettere, anche nuovi acronimi. Avremo dispositivi (devices) nanoelettronici (NED), nanofotonici (NPD), nanochimici (NCD), nanofotoelettronici (NPED); avremo sistemi nanoelettromeccanici (NEMS) e nanofotoelettromeccanici (NPEMS).
Cosicché i dispositivi e le macchine molecolari promettono di trovare pratica applicazione in molti settori. Per esempio nei processi di trasferimento, conservazione e rivelazione dell’informazione, tanto che si ipotizza la realizzazione di “computer chimici” a base molecolare. O nello sviluppo dei nanorobot.
Ma non bisogna dimenticare che le macchine molecolari che funzionano con la luce solare sono la prima e fondamentale parte del sogno di Ciamician. Anche se, per “fare come le piante” e ottenere con processi artificiali sia energia sia prodotti chimici, c'è ancora molto lavoro da fare.
Vincenzo Balzani, in odore di Nobel
Intanto, però, possiamo dare uno sguardo riassuntivo al lavoro fatto. Vincenzo Balzani ha dato importanti contributi allo sviluppo della Fotochimica inorganica, della Chimica supramolecolare e, da ultimo, alle Nanotecnologie molecolari. Ha progettato e studiato una serie enorme di oggetti a scala molecolare tra cui sistemi che processano informazione e sistemi che interconvertono le tre forme di energia, chimica, elettrica e luminosa. Ha pubblicato oltre 550 lavori, sulle più importanti riviste di settore oltre che su riviste generaliste come Science e PNAS. È stato invitato a tenere oltre 350 conferenze a convegni e congressi scientifici. Ha vinto numerosi premi e riconoscimenti, sia nazionali che internazionali. È uno dei cento chimici più citati al mondo e, nel medesimo tempo, uno degli scienziati italiani più citati nella letteratura internazionale. Per questo fa parte del Gruppo 2003. È Accademico dei Lincei.
Ebbene, tutto questo non lo ha ancora appagato. Al contrario, lo ha proiettato verso nuove dimensioni.
Ora fa notizia il fatto che abbia collaborato strettamente, come abbiamo visto, con due dei tre vincitori del Premio Nobel per la Chimica 2016. D’altra parte per anni è stato, come si dice, in odore di Nobel e quest’anno il Nobel lo ha sfiorato. Ci dicano i chimici se non lo avesse meritato. Noi ricordiamo che con molta signorilità ha dichiarato che la mancata assegnazione del Nobel non gli è dispiaciuta. Gli è dispiaciuta la mancata opportunità (una nuova mancata opportunità, dicono alcuni, dopo il Nobel inspiegabilmente negato negli anni scorsi ai fisici Nicola Cabibbo e Giovanni Jona-Lasinio) per l’Italia e la scienza italiana.