Il prossimo febbraio, probabilmente il 24, andremo a votare. In queste ore si stanno formando le liste e gli schieramenti. Ma, al di là del problema finanziario e del rapporto con il resto dell’Europa, ancora non si intravede tra le varie liste e i vari schieramenti che si vanno formando un’idea davvero forte per il programma economico e sociale. Partecipare alle elezioni, ma per fare cosa? Ogni idea dovrebbe partire da un’analisi dei fatti. Fondata sulle grandi tendenze economiche e sociali. Ma anche su quello che “sentono” i cittadini. Sulla percezione pubblica dell’economia e del vivere sociale. Questi vari elementi sembrano, una volta tanto, suggerirci la medesima, univoca interpretazione. Il paese è in declino. Si tratta di una crisi grave – strutturale, si diceva un tempo – che nasce dalla finanza (i conti pubblici da mettere a posto) e dalla cosiddetta economia reale (la recessione). Ma la crisi non è solo economica: è anche culturale e sociale. I cittadini italiani “sentono” il declino.
Qual è la causa di questo declino? L’analisi che propongono coloro che hanno firmato l’appello “Rilanciamo il dibattito per rafforzare la ricerca in Italia” è piuttosto netta. La causa profonda del declino italiano consiste nel fatto che la specializzazione produttiva del sistema paese non è più competitiva. Abbiamo scelto, in un periodo preciso (l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso), con persone precise (di cui alcuni storici, come a esempio, Gianni Paoloni sono in grado di fare, documenti alla mano, nomi e cognomi), di seguire una strada di sviluppo diversa da ogni altro paese industriale. Per alcuni questa strada ha costituito un vero e proprio modello alternativo a quella degli altri paesi industriali: un «modello di sviluppo senza ricerca». In pratica, l’Italia è diventata un grande paese industriale (secondo, in Europa, solo alla Germania), ritagliandosi una nicchia isolata nell’ambito dei prodotti a bassa innovazione tecnologica. Nella scelta di questo peculiare modello l’Italia ha puntato essenzialmente su due fattori: il basso costo del lavoro rispetto a quello degli altri paesi industriali e la periodica svalutazione, cosiddetta competitiva, della sua moneta, la lira.
Per due o tre decenni – quando eravamo “i più poveri tra i ricchi” – il modello ha funzionato. L’Italia poteva vantare la maggiore crescita economica al mondo, dopo quella del Giappone. Ma negli anni ’80 il modello ha iniziato a mostrare i suoi limiti. Ma dagli anni ’90 l’Italia non può più possibile utilizzare nessuno delle due antiche leve. Paesi poveri, che una volta si chiamavano “in via di sviluppo”, perché sostanzialmente fuori dal sistema industriale e commerciale mondiale, hanno fatto irruzione sulla scena (la cosiddetta nuova globalizzazione), con un costo del lavoro decisamente inferiore italiano. Nel medesimo tempo l’Italia è entrata prima nel sistema di cambi fissi dell’Unione Europea e poi nel sistema monetario fondato su una moneta forte e non svalutabile a piacere, l’euro. Da venti anni almeno, dunque, abbiamo perso le due antiche leve: il costo del lavoro italiano è di gran lunga più elevato rispetto a quello dei nuovi paesi competitori a economia emergente (inclusi Cina, India, molti altri paesi del Sud-est asiatico, ma anche Brasile, Sud Africa e altri paesi sia latino-americani che africani); non abbiamo più la “liretta” da svalutare, ma al contrario un moneta, l’euro, forte e (tutto sommato) solida. In questi venti anni non abbiamo preso atto che il “mondo è cambiato”. Che le due antiche leve che garantivano il successo al «modello di sviluppo senza ricerca» non potevano essere più utilizzate. Che la nuova situazione lasciava aperta la porta a due sole possibilità: o un declino sempre più profondo o un’impresa titanica, al limite della velleità: il rapido cambiamento della specializzazione produttiva. Il sistema Italia deve iniziare a produrre altri beni, diversi da quelli prodotti nell’ultimo mezzo secolo.
Gli unici beni che un paese con un’economia sviluppata e una società avanzata possono oggi produrre in maniera competitiva sono quelli ad alto valore tecnologico aggiunto. Anzi, ad alto “tasso di conoscenza” aggiunto. Per produrre questi beni ad alto valore tecnologico aggiunto, dunque, abbiamo bisogno di luoghi ove si produce la “conoscenza”; di luoghi ove questa conoscenza viene trasformato in prodotti hi-tech e, ultimo ma non ultimo, abbiamo bisogno di superare l’antica ritrosia del sistema produttivo italiano a misurarsi coi migliori sulla scena internazionale, senza cercare furbe scorciatoie o nicchie isolate. Quali siano i luoghi della “conoscenza” è cosa ben nota: sono i centri pubblici e privati di ricerca scientifica. In questi settori l’Italia ha altrettanti gap da recuperare: uno enorme, l’altro abissale. Quello enorme riguarda la ricerca pubblica: in questo settore il nostro paese spende, in media, almeno un terzo degli altri paesi a economia e società sviluppate. Quello abissale riguarda la ricerca privata: l’industria italiana investe in ricerca una quota di Pil (prodotto interno lordo) che raggiunge persino l’80% in meno rispetto a quella degli altri paesi avanzati.
Perché questo gap? Ci sono motivi culturali: il nostro paese non ama né la scienza né l’innovazione: e spesso lo dimostra. Ma ci sono anche motivi strutturali. Come ha mostrato più volte Sergio Ferrari, ex direttore generale dell’Enea e studioso attento della competitività del sistema Italia, non è che i nostri industriali siano peggiori (o migliori) degli altri. A parità di grandezza dell’azienda e di specializzazione produttiva, investono in ricerca esattamente quanto gli altri. Il problema è, dunque, proprio nella grandezza media delle aziende italiane e, soprattutto, nella loro specializzazione produttiva. Ritorniamo, dunque, al problema di partenza: il sistema Italia realizza prodotti che non richiedono nuova conoscenza scientifica. Ciò ha un imponente riflesso sugli investimenti industriali nella ricerca. E un meno imponente, ma pur sempre grave, riflesso sugli investimenti pubblici. Cosicché per curare i nostri mali (economici, sociali e culturali) non abbiamo alcun altra scelta che quella, urgentissima, di intraprendere un cambiamento di specializzazione produttiva. Per banalizzare: non più (solo) scarpe e sedie, ma anche e soprattutto prodotti hi-tech.
Già, ma come tradurre questa necessità strutturale in un programma di governo? Non è semplice modificare la “vocazione profonda” di un sistema paese. È ancor più difficile, al limite dell’impossibile, nel caso in cui il paese si ritrovi, come l’Italia, con una drammatica situazione di bilancio. In un paese che non ha soldi. In queste condizioni, per non precipitare, occorre affidarsi agli unici appigli disponibili. E questi appigli sono tre: il sistema di ricerca pubblico del paese; gli investimenti dello Stato; le forze produttive (industriali e lavoratori) che riconoscono l’urgenza del cambiamento e sono disponibili a realizzarlo.
Certo, nessuno di questi tre appigli è solidissimo. Ma sono i soli che abbiamo. E non abbiamo altra scelta che cercare di afferrali.
Il primo è il sistema di ricerca pubblica. Certo, il sistema non è privo di pecche e di lacune. Ma è già culturalmente attrezzato per realizzare la grande trasformazione: perché è uno dei pochi in Italia che si confronta, sistematicamente, con i migliori del mondo. E pur dovendo scontare, come abbiamo detto, un gap di risorse rispetto ai colleghi di altri paesi avanzati, risulta – malgrado i luoghi comuni che circolano in troppi ambienti politici e culturali – in grado di competere: la produttività scientifica dei ricercatori italiani non è affatto inferiore a quella media europea e nord-americana.
Lo Stato non ha molte risorse. Ma è l’unico che, credibilmente, può racimolare nei primi cento giorni di attività di governo uno o due miliardi di euro da investire nel cambiamento della specializzazione produttiva del paese. Inoltre lo Stato è l’unico che può indicare i due o tre assi strategici (non più) intorno a cui avviarlo, questo urgente e titanico sforzo di cambiamento.
Infine i produttori: gli industriali e i lavoratori. I primi non hanno molte risorse da investire. Mentre hanno da modificare la loro “cultura produttiva”. Non è uno sforzo da poco. Né è uno sforzo scontato. I lavoratori possono, forse, più facilmente riuscirci. Il sindacato italiano si è spesso fatto carico in passato degli interessi generali del paese (basti pensare alla lotta contro il terrorismo negli anni ’70). Ebbene deve riprendere quella antica attitudine. Meno agevole sarà ottenere almeno la propensione al cambiamento degli imprenditori. Occorrerebbe una rivoluzione generazionale che portasse alla guida delle imprese piccole, medie e grandi imprenditori e manager culturalmente attrezzati a fronteggiare le sfide dell’«economia della conoscenza». La domanda è: come far emergere e diventare egemone una classe dirigente che faccia proprio un percorso di «sviluppo attraverso la ricerca» e realizzi il necessario cambiamento della specializzazione produttiva del paese.
Eccolo, dunque, il programma del prossimo esecutivo: dare, nei primi cento giorni, segnali chiari a tutti gli attori protagonisti di una storica inversione di tendenza della “cultura produttiva” del paese. Ai ricercatori pubblici il nuovo governo deve garantire un miglioramento delle condizioni di lavoro, la piena autonomia di ricerca in laboratorio, ma anche la scelta chiara di obiettivi di interesse nazionale da raggiungere. A se stesso lo Stato deve chiedere una lucidità programmatica e una flessibilità burocratica tale da aumentare considerevolmente la probabilità di raggiungere gli obiettivi strategici che si pone. Obiettivi che vanno qualificati in sede politica. Per esempio, il nuovo tipo di sviluppo proposto dovrà essere necessariamente sostenibile, e quindi i progetti vanno elaborati tenendo conto della risorsa ambiente, che in Italia è tra le risorse principali. Agli industriali che si metteranno in gioco il governo deve garantire buone norme e grandi stimoli. Ai lavoratori che parteciperanno al programma di ristrutturazione della specializzazione produttiva il governo deve fornire garanzie accettabili.
Riuscirà il nuovo governo a cementare l’alleanza tra ricerca, Stato e industria e a costruire il blocco sociale che dovrà rivoltare come un calzino il sistema produttivo italiano? Ce lo auguriamo. Ma, naturalmente, non possiamo saperlo in anticipo. Ciò che possiamo – e dobbiamo – sapere subito è se i vari candidati, liste e schieramenti che si presenteranno alle elezioni di febbraio sono consapevoli della necessità di accettare la sfida e dell’urgenza di costruire questo blocco.