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La scienza nell’Italia Unita

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L’Osservatorio Vesuviano è, in ordine di tempo (ma non solo), il primo centro di ricerca vulcanologica al mondo. Fu inaugurato nel 1845, nel corso della settima “Riunione degli Scienziati Italiani”, che portò nella capitale borbonica oltre 1.600 uomini di scienza provenienti da tutta Italia. Il suo fondatore e primo direttore fu Macedonio Melloni, uno dei più grandi fisici italiani dell’Ottocento. Era stato destituito dall’insegnamento a Parma dopo che, nel 1830, aveva parlato in termini entusiastici della rivolta di Parigi ai suoi studenti. Voleva l’Italia unita e aveva trovato riparo a Napoli.

Speculare è la storia del siciliano Stanislao Cannizzaro, il più grande chimico italiano del XIX secolo insieme al piemontese Amedeo Avogadro. Cannizzaro partecipò ai moti siciliani del 1848 e dovette riparare in Francia, inseguito da una condanna a morte da parte del Borbone. Si trasferì poi a Genova, dove nel 1858 scrisse il Sunto di un corso di filosofia chimica. Era così bravo e influente che all’inizio del mese di settembre dell’anno 1860 a Karlsruhe, in Germania, riuscì a far accettare alla comunità mondiale dei chimici quell’idea di netta distinzione tra atomo e molecola che è alla base della moderna teoria atomica e molecolare e che il piemontese Amedeo Avogadro, conte di Quaregna e Cerreto, aveva proposto, inascoltato, oltre mezzo secolo prima. Quello di Cannizzaro a Karlsruhe costituisce forse il più grande successo di ogni tempo della chimica italiana. E forse non è un caso che si consumi pochi mesi prima che un paese chiamato Italia assuma la sua esistenza in vita.

Il settentrionale Macedonio Melloni e il meridionale Stanislao Cannizzaro sono esempi luminosi, ma non sono un’eccezione. Molti uomini di scienza hanno partecipato in maniera attiva e da protagonisti assoluti al Risorgimento italiano. Prendendo spesso le armi: esisteva, per esempio, un battaglione degli studenti pisani che ha partecipato alle battaglie di Curtatone e Montanara.

E hanno partecipato in maniera altrettanto attiva alla costruzione dell’Italia appena unita: il fisico forlivese Carlo Matteucci, per esempio, fu Ministro dell’Istruzione del Regno d’Italia nel 1862; il chimico calabrese Raffaele Piria fu Ministro dell’Istruzione del governo Garibaldi a Napoli nel 1860, dopo la liberazione dai Borboni.

Hanno ragione Lucio Russo ed Emanuale Santoni, autori dei Ingegni minuti, la prima storia completa della scienza italiana – dal XIII secolo ai nostri giorni – e dei suoi limiti: quella del Risorgimento e dell’Italia post-unitaria è semplicemente una storia monca se non tiene conto del ruolo che vi hanno avuto gli scienziati e la scienza. Per svariati motivi.

Perché la scienza è stato uno dei grandi collanti culturali che hanno creato uno “spirito nazionale”. La prima “Riunione degli Scienziati Italiani” si tenne a Pisa nel 1839. E fu riconvocata fino al 1948 ogni anno in una città diversa, mentre l’Italia non esisteva – era ancora una costellazione di stati – e spesso sfidando i governi locali. Gli scienziati italiani hanno fatto parte integrante – una vera e propria ossatura, in quanto comunità – del novero degli intellettuali italiani che si percepivano come membri di uno stesso popolo e di una medesima nazione. In queste loro riunioni, infatti, gli scienziati della penisola non solo si propongono di costruire una comunità scientifica italiana, ma iniziano a porre in maniera esplicita l’idea stessa di un’unità politica del paese. «L’Italia ha avuto nel corrente anno la maggior crisi, e speriamo che questa sortirà la sua indipendenza», scriveva nel 1848 il chimico Gianalessandro Majocchi, fondatore degli Annali di Fisica, Chimica e Matematica, riparato dalla Lombardia in Piemonte per le sue attività da patriota.

La tensione unitaria prosegue e, semmai, si rafforza anche dopo la repressione del 1848. «È proprio indispensabile che teniamo un congresso chimico, Piria, tu e io, perché vi sia unità nell’insegnamento della chimica italiana», scrive il chimico toscano Cesare Bertagnini, protagonista delle guerre d’Indipendenza, veterano della battaglia di Curtatone e Montanara, all’amico, patriota e collega Stanislao Cannizzaro il 18 aprile 1856.

Perché in quegli anni la scienza non era e non era vista come separata dalla politica. Né era visto come un ruscelletto minore che scorre in parallelo al grande fiume della storia. Ma, al contrario, era chiaro a molti che la cultura scientifica ne era componente essenziale.

Camillo Benso, Conte di Cavour, scriveva insieme ad Alessandro Volta sugli Annali universali di statistica, una rivista fondata nel 1824 e a lungo diretta da Gian Domenico Romagnosi, giurista e fisico dilettante.

Carlo Cattaneo, il padre del (serio) pensiero federalista, collaborò alla rivista, prima di fondare a sua volta Il Politecnico nel 1839, perché i cittadini tutti avessero cognizione che la Scienza è il modo migliore per fecondare il campo della Pratica e accrescere «la prosperità comune e la convivenza civile». Cattaneo non ha un interesse generico per la scienza. Ma si occupa in profondità di questioni specifiche, come quella della nomenclatura chimica.

Giuseppe Garibaldi ha mostrato, a più riprese, un forte interesse per la scienza e la tecnologia. Non solo perché strinse amicizia con Antonio Meucci, lo sfortunato inventore del telefono: i due mettono su, tra il 1850 e il 1853, una fabbrica di candele a New York. Ma anche perché l’”eroe dei due mondi” era un appassionato lettore di scienza: nella sua biblioteca ci sono appunti e manuali di astronomia, di matematica, di idraulica. Garibaldi credeva nella scienza come fattore di progresso culturale, sociale ed economico. Non a caso chiamò il chimico Raffaele Piria a gestire il Ministero dell’Istruzione nella Napoli liberata.

Più in generale la scienza ha, in tutti gli anni del Risorgimento, una profonda influenza sul resto della cultura italiana. Ne sono intrisi e consapevoli poeti e scrittori: primo fra tutti Giacomo Leopardi. Ma anche, come documenta Marco Ciardi – nel suo libro, Reazioni pericolose, dedicato al ruolo avuto dai chimici nel Risorgimento – lo scrittore e patriota Silvio Pellico e il savoiardo Xavier de Maistre, che diventerà generale dell’esercito russo durante le guerre napoleoniche e sarà ricercatore in prima persona.

Ma poi di tutto questo ce ne siamo dimenticati. Anche oggi, mentre festeggiamo (con qualche difficoltà, per la verità) il centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia, la parola scienza non ricorre quasi mai nei programmi celebrativi. E pochi si ricordano del ruolo degli scienziati nel Risorgimento. Qual è la causa della damnatio memoria della scienza e degli scienziati che ricorre spesso nella vicenda italiana? Cosa portava ieri Cavour, Cattaneo o Garibaldi a immaginare un futuro dell’Italia fondato sulla scienza e cosa porta oggi i nostri ministri ad affermare che “la cultura non si mangia”?

Rispondere a queste domande non è semplice. Le fortune della scienza italiana sono sempre state ondivaghe. La storia della scienza italiana fin dalle origini, che risalgono al 1202, quando Leonardo Pisano detto il Fibonacci scrive il suo Liber Abaci e si afferma come il primo matematico e scienziato nella storia europea, è una storia che – da Galileo Galilei ad Amedeo Avogadro, da Francesco Redi a Enrico Fermi – ha avuto punte di valore assoluto. Nel corso di questa lunga storia, la scienza si è sia incontrata (nel Rinascimento, per esempio) che scontrata (con Benedetto Croce e Giovanni Gentile, per esempio) con gli intellettuali di diversa matrice culturale.

Ma nella storia della scienza italiana c’è, una costante. Non ha mai incontrato un sistema produttivo che ha creduto nella ricerca scientifica e sulla ricerca scientifica ha fondato il suo sviluppo. Ed è questa incapacità, a ben vedere, il tema dominante della storia d’Italia. Prima dell’Unità. Ma anche dopo.

Certo ci sono state delle eccezioni, in cui il tessuto produttivo italiano è stato informato dalla scienza: nel Rinascimento, nella stagione risorgimentale (appunto), appena dopo la seconda guerra mondiale. Ma si è trattato di episodi, alcuni luminosissimi. Tutti rapidamente conclusi. Non dell’espressione di una cultura dalla radici profonde.

Se c’è una damnatio memoriae della ricerca e dei ricercatori italiani nel Risorgimento, se viene proposta una storia monda della costruzione dell’Unità d’Italia, dunque, è perché il ruolo della scienza è disconosciuto nell’Italia di oggi. Pochi si rendono conto che il modello di «sviluppo senza ricerca» perseguito da alcuni decenni – non da sempre, non da tutti – nel nostro paese ci sta rapidamente portando a un «declino senza ricerca». Molti preferiscono dimenticare un grande passato, per giustificare un mediocre presente.

Ma la damnatio memoriae è, a sua volta, l’epifenomeno di qualcosa di molto più profondo: l’incapacità del sistema produttivo italiano di avere un rapporto critico ma stabile con la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica. Sulle cause di questa storica incapacità – di questa costante della storia italiana – occorrerebbe indagare. Ma i suoi effetti sono chiari. Questa incapacità è, in buona parte, la causa della “crisi perenne” del paese. Il suo costante aggirarsi intorno al baratro. E, di tanto in tanto, cadervi.

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Saggio scritto per il centro CIREM di Napoli

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