Fra errori e imprecisioni, un breve articolo riesce a trovare una storia positiva in una “tragedia climatica di cui nessuno sembra curarsi” - Climalteranti, 5 novembre 2012
Già in altri post (qui, qui e qui) abbiamo avuto modo di notare il ritardo della cultura italiana e degli “opinion leader” nel capire la portata della crisi climatica, la gravità della situazione nella sua prospettiva storica, le sue cause profonde, le implicazioni per le future generazioni. È frequente la sottovalutazione del problema, o all’opposto la sua spettacolarizzazione scandalistica, la citazione di dati sbagliati o imprecisi, l’incapacità di cogliere l’aspetto “sistemico” delle modifiche al clima e le loro conseguenze a lungo termine. Un esempio recente è l’articolo di Loretta Napoleoni sul Venerdì di Repubblica del 12 ottobre, intitolato “In Groenlandia l’effetto serra è una manna”.
“Mentre uno stuolo di avvocati si contende lo sfruttamento del Circolo Polare Artico a nome delle cosiddette potenze “artiche”, è in Groenlandia che si intravedono i primi germogli dell’economia prodotta dal surriscaldamento della Terra. Negli ultimi 15 anni la temperatura in quest’isola nordica è salita di ben 4,5 gradi centigradi, troppo per l’industria ittica locale. Tanti, troppi pesci hanno preso la strada per il nord, tra cui i famosi gamberetti che davano da vivere ad intere comunità.”
L’aumento di temperatura i Groenlandia di 4,5 gradi in soli 15 anni è un dato sbalorditivo; è vero che la zona artica si è scaldata notevolmente e più velocemente del resto del pianeta per effetto del “amplificazione polare” del riscaldamento globale (qui i dettagli), ma un riscaldamento di 4,5 gradi in 15 anni è un dato sbagliato. L’autrice ha basato il suo breve articolo su un altro più approfondito scritto da Elisabeth Rosenthal, pubblicato sul New York Times del 23 Settembre 2012 con il titolo “A Melting Greenland Weighs Perils Against Potential”, ma se si legge l’originale si scopre il motivo dell’errore. Scrive Rosenthal “In northeastern Greenland, average yearly temperatures have risen 4.5 degrees in the past 15 years, and scientists predict the area could warm by 14 to 21 degrees by the end of the century.” L’aumento di temperature riguarda quindi solo una parte della Groenlandia, e sono gradi Fahrenheit, non gradi centigradi. L’aumento di temperatura registrato in gradi centigradi è quindi poco più della metà (5/9) di quello in gradi Fahrenheit. Non che questo cambi la gravità della situazione del riscaldamento globale in Groenlandia, ma l’incremento dell’intera Groenlandia è molto inferiore a quanto descritto. Dopo aver citato i danni del riscaldamento globale sull’industria ittica locale
“La Groenlandia, va detto, è una nazione povera, dove la popolazione fino ad oggi ha vissuto principalmente di pesca e caccia, e che ogni anno riceve dall’ex potere coloniale, la Danimarca, sussidi pari a mezzo miliardo di dollari. Questa è anche una delle nazioni con la più alta percentuale di suicidi pro-capite, specialmente tra i giovani”.
l’articolo di Napoleoni si conclude nel modo seguente:
“Ebbene, tra vent’anni quest’immagine tetra potrebbe dileguarsi totalmente. La scomparsa del ghiaccio ha infatti reso possibili lo sfruttamento di grossi giacimenti di metalli strategici, quali l’uranio; metalli rari, utilizzati dalla telefonia mobile e nella produzione di energie rinnovabili, e metalli preziosi, dall’oro allo zinco al ferro. Sfruttare tutto questo ben di dio non sarà semplice: già si discute delle quote sull’emigrazione e delle concessioni di sfruttamento a società straniere, ma almeno in questa tragedia climatica, che affligge tutti e di cui nessuno sembra curarsi, una storia positiva c’è”.
La conclusione è davvero bizzarra: prima si parla della “tragedia climatica”, poi la possibilità di sfruttamento delle miniere in Groenlandia viene definita senza incertezze “una storia positiva”. L’articolo originale di Elisabeth Rosenthal è molto più misurato nel descrivere la situazione e gli sviluppi futuri: parla di come il riscaldamento globale ha cambiato la vita degli abitanti della città di Narsaq, cita la dichiarazione di un albergatore locale “Of course the mine will help the local economy and will help Greenland, but I’m not so sure if it will be good for us, we are worried about the loss of nature” e conclude con la dichiarazione del Sindaco della zona, che cita i timori dei residenti della zona per problemi legati alla radioattività di alcuni elementi che contaminano i metalli delle miniere. Tutto questo nella sintesi di Napoleoni non viene riportato, il quadro viene descritto solo come positivo. Così, mentre il titolo del New York Times parla di pericoli che si confrontano con potenzialità, il titolista del Venerdì può permettersi il più ottimista “In Groenlandia l’effetto serra è una manna”.
Il problema è che la fusione dei ghiacci della Groenlandia è in fase di accelerazione (si perdono più di 200 miliardi di tonnellate di ghiaccio l’anno) e se si fondessero tutti il livello medio dei mari aumenterebbe di 7 metri. Perdere il 30% di quel ghiaccio significa due metri di aumento, sufficiente per sconvolgere molte zone costiere, centinaia di milioni di persone sarebbero costrette a lasciare le terre in cui vivono. Non occorrono conti dettagliati per capire che questi impatti devastanti, che si verificheranno nei prossimi decenni e secoli, non possono essere dimenticati solo in virtù di benefici economici portati, ad alcune persone e alcune aziende, dall’escavazione per pochi anni di qualche metallo raro. Inoltre, lo sfruttamento dell’artico non porta solo benefici economici, ma anche rischi ambientali e sociali, come raccontato ad esempio dall’Economist nel luglio scorso. Se davvero c’è una “tragedia climatica, che affligge tutti e di cui nessuno sembra curarsi”, si dovrebbe essere più cauti nel trovare una “storia positiva” non appena si intravvede qualche nuovo business.
E riflettere se proprio la causa del problema non stia proprio nel considerare “manna dal cielo” lo sfruttamento a qualunque costo delle risorse del pianeta.
Fonte: Climalteranti, Testo di Stefano Caserini con il contributo di Sylvie Coyaud