Ricercatori
statunitensi hanno messo a punto una innovativa tecnica di terapia genica che
corregge l’aritmia nei maiali, un approccio che un giorno potrebbe offrire
un'alternativa ai pacemaker elettronici.
Nello studio appena pubblicato sulla
rivista Science Translational Medicine, il team guidato da Eduardo
Marban del Cedars-Sinai Heart Istitute è riuscito a trasformare
delle cellule cardiache in “cellule pacemaker”, iniettando il gene TBX18.
Le disfunzioni del
pacemaker cardiaco, il nodo senoatriale, e del tessuto di conduzione possono
dare origine ad aritmie pericolose per la vita. Queste patologie spesso
richiedono, come unico intervento possibile, l’impianto di un pacemaker
elettronico. I pacemaker elettronici presentano tuttavia alcuni limiti dati dal
bisogno di manutenzione, dal pericolo di infezioni e dall’interazione con campi
elettromagnetici.
La
terapia genica ha trasformato alcuni dei miliardi di normali cellule del
muscolo cardiaco degli animali in cellule specializzate, molto più rare, la cui
funzione è quella di mantenere il battito cardiaco.
Le cellule modificate, grandi quanto un granello di pepe, hanno funzionato come
un convenzionale peacemaker per circa due settimane.
"Siamo stati in
grado, per la prima volta, di creare un pacemaker biologico con metodi minimamente
invasivi", afferma Marban.
"Questo sviluppo apre una nuova era per la terapia genica in cui i geni
non sono più utilizzati solo per correggere una carenza, ma per mutare una
cellula e curare una malattia”.
Ma quali sono le possibili applicazioni? Oltre alla possibile sostituzione dei
dispositivi elettronici, il pacemaker biologico potrebbe essere fondamentale
per risolvere problemi cardiaci che vengono riscontrati, per esempio, nei feti.
“I
bambini ancora nel grembo materno non possono avere un pacemaker, ma speriamo
di lavorare con gli specialisti di medicina fetale per creare un trattamento
salva-vita per i bambini con una diagnosi di blocco cardiaco congenito”, ha
spiegato Eugenio Cingolani coautore
dello studio.
Prospettive, come sottolinea la British
Heart Foundation: le applicazioni pratiche della ricerca sono ancora molto
lontane.