Pietro Zinni ha 37 anni ed è un neurobiologo. La sua carriera di ricercatore volge al capolinea quando gli viene negato il finanziamento ad un progetto, che gli avrebbe consentito di sopravvivere garantendogli 500 euro al mese. Comincia così la storia raccontata nel film “Smetto quando voglio”, primo lungometraggio del regista salernitano trentaduenne Sidney Sibilia.
Pietro Zinni è il protagonista di questo film, ma è
anche il portavoce della generazione dei ricercatori “under 40”, ancora giovani
ma non più giovanissimi, che ogni giorno sfidano i rischi di una vita precaria
pur di coltivare la propria passione per la ricerca, di mandare avanti gli
ingranaggi di un sistema barcollante e di sperare che prima o poi il nostro
Paese si risvegli ed operi un’inversione di marcia. Nella finzione
cinematografica, in realtà, l’inversione di marcia avviene, sebbene assuma delle
forme paradossali che si rappresentano efficacemente nel sottotitolo del film “Meglio
ricercati che ricercatori”!
Zinni diventa il capobanda di un gruppo di menti
eccellenti, suoi ex colleghi universitari: un chimico, un economista, un
archeologo, due latinisti e un antropologo. Tutti accomunati da una carriera
impietosamente stroncata dalle logiche dell’Accademia ed impegnati in attività
tutt’altro che intellettuali per sbarcare il lunario. La banda elabora un colto
piano strategico: utilizzare il proprio know-how
per produrre droghe leggere la cui composizione è ai limiti della legalità. In
un primo momento l’idea si rivela vincente e remunerativa, soddisfacendo la
domanda di migliaia di giovanissimi e professionisti altolocati disposti a
spendere qualunque cifra pur di trascorrere serate all’insegna dello sballo. Poi
l’ingranaggio inevitabilmente si inceppa, si scontra con la dura realtà della
malavita e tutto ritorna come prima se non peggio di prima.
Questo film nasce come una commedia ed effettivamente ci fà divertire, ma ci concede soprattutto l’opportunità di una riflessione a tutto tondo: sulla “precarietà culturale” a cui l’Italia si sta abbandonando e sul correlato disorientamento dei giovani che si manifesta a varie età e livelli e in diverse forme. “L’Italia non è un Paese per giovani. Noi giovani siamo come fantasmi” recita disincantata l’attrice Tea Falco nell’ultimo film di Carlo Verdone.
Vorremmo
che fosse solo il ricordo di un film, eppure…Negli ultimi decenni il mondo è
cambiato in maniera drastica e l’Italia in particolare sembra offrire sempre
meno possibilità ai suoi cittadini giovani, costretti ad emigrare all’estero per
realizzarsi professionalmente o, in molti casi, a rinunciare alle proprie
aspirazioni in cambio di un lavoro sicuro. Non c’è altro tempo da perdere. Non
possiamo permetterci di essere spettatori impassibili del declino del nostro
Paese. Non possiamo esimerci dal sostenere concretamente lo sviluppo di un modello
economico trainato dalla ricerca di base, dalla cultura creativa e dalla
curiosità intellettuale, vero motore dell’innovazione nel medio e nel lungo
periodo.
Ne “La cultura si mangia, gli autori Pietro Greco e Bruno Arpaia
insistono su un concetto fondamentale: la cultura deve ripartire da noi, che
abbiamo il dovere di promuoverne il valore intrinseco, di valorizzare chi la
produce e di creare un habitat favorevole allo sviluppo della società della
conoscenza. “Se vogliamo una società democratica della conoscenza” diceva Paul
Krugman, premio Nobel per l’economia, “che produce più benessere -e quindi,
anche più lavoro- occorre che noi questa società la costruiamo”. In che modo? Dando
voce e spazio alle idee e a chi detiene il sapere, che gratuito e
disinteressato può sfidare da solo le leggi del mercato e indirizzare l’umanità
nella direzione di una crescita civile, culturale ed economica.
È nelle pieghe di quelle attività che non
producono un profitto immediato, considerate superflue e più inutili che si
nascondono le grandi scoperte che hanno cambiato e cambieranno il mondo.
Ed è
sempre nelle stesse pieghe che dobbiamo trovare il coraggio e allo stesso tempo
lo stimolo a pensare un mondo migliore in cui la conoscenza, il dialogo e la
formazione diventino gli strumenti attraverso cui riemergere dalla crisi
e porre le fondamenta di un’epoca nuova.