Il vocabolario Treccani, alla voce curiosità, recita: “desiderio di vedere, di sapere, a fine di
pettegolezzo o anche per amore del conoscere, come stimolo intellettuale”.
Wikipedia ignora l’aspetto frivolo del pettegolezzo, e definisce la curiosità come una qualità collegata a
una attività cognitiva – esplorare, studiare, imparare – un comportamento che
è alla base del desidero e dell’emozione della conoscenza. La curiosità, provocata
dal desiderio di sapere qualcosa,
induce un comportamento positivo; stimola l’acquisizione di nuove informazioni
e conoscenze ed
è il carburante della scienza e dello studio. E' una nostra caratteristica
innata: il bisogno di sapere è un bisogno primario, come il cibo, il sonno e la
necessità di riprodursi. Siamo curiosi rispetto a quanto ci circonda, vogliamo
sapere, vogliamo conoscere, anche perché l’ignoto incute disagio, se non paura.
La curiosità porta dunque all’esplorazione, alle scoperte,
alla conoscenza. Il termine “curiosity driven” è spesso usato per indicare la
ricerca di base, quella che si occupa della conoscenza per il gusto del sapere
e lascia che le sue importanti applicazioni – su cui continuamente costruiamo
il nostro benessere – seguano nel tempo, spesso a opera di altri. E così,
inevitabilmente, quando non troviamo risposta ai quesiti che più ci intrigano e
non riusciamo quindi a soddisfare la nostra curiosità – nonostante il tempo e
gli sforzi dedicati – subentra un senso di frustrazione.
Credo sia quello che
sta succedendo a chi si sta occupando di capire cosa sia veramente la materia
oscura e soprattutto sta cercando di trovarne evidenze sperimentali.
Con il passare del tempo, il lato “oscuro” dell’Universo si fa sempre più imbarazzante e le domande sulla sua natura più pressanti. Da molti decenni ormai conviviamo con la materia oscura e ci siamo convinti, a seguito di molteplici e diverse osservazioni astronomiche, che essa sia presente nell’Universo in quantità di gran lunga maggiore della materia visibile. L’abbiamo ripetutamente misurata: dai dati ottenuti dal satellite Planck, giusto per utilizzare i più recenti, abbiamo ricavato che essa costituisce il 26,8% dell’Universo che conosciamo e che ammonta a 5,5 volte la materia ordinaria (quella della tavola periodica degli elementi, per intenderci). Ciò nonostante non sappiamo ancora cosa essa sia, e neppure se sia “calda” o “fredda”, “leggera” o “pesante”. L’abbiamo localizzata intorno alle galassie e negli ammassi di galassie ma non ne abbiamo trovato traccia sulla Terra o nel nostro sistema solare. In compenso ci siamo sbizzarriti a immaginare che possa essere costituita da particelle dalle proprietà e dai nomi esotici; tra gli altri: axioni, axini, neutralini, gravitini, WIMPSs e forsanche monopoli magnetici. Ma allora, cosa sappiamo sulla materia oscura?
Zwicky, negli
anni trenta del secolo scorso, studiando gli ammassi di galassie, si rese conto
che in essi le singole galassie si muovevano con una velocità tale che gli
ammassi stessi avrebbero dovuto essere strutture instabili e dunque dissolversi
col tempo. Le osservazioni ci mostravano invece agglomerati di centinaia o
migliaia di galassie persistenti su tempi cosmologici. Applicò il teorema del
viriale (che lega energia cinetica e potenziale in un sistema chiuso di N
particelle) all’ammasso di Coma e ricavò che era necessaria una massa circa 400
volte maggiore di quella che si manifestava in galassie per riuscire a tenerle
legate gravitazionalmente tra di loro.
Da quel conto e da quelle osservazioni nasceva
il problema della “massa mancante”, o “massa oscura” come Zwicky stesso la
chiamò, anche se ci vollero molti anni, decenni – e altre osservazioni per
convincere definitivamente la comunità astronomica.
Al proposito, fondamentali e decisive furono
gli studi di Vera Rubin sulle curve di rotazione delle galassie a spirale. Rubin
misurava come variava la velocità con cui le stelle ruotavano intorno al nucleo
della loro galassia, man mano che ci si spostava dal nucleo verso la periferia.
Dai dati che accumulava, diventava sempre più evidente che vi era una notevole
discrepanza tra le velocità osservate e quelle previste dai modelli di
rotazione differenziale basati sulla distribuzione della massa che veniva attribuita
alle galassie.
Le zone periferiche delle galassie ruotavano troppo in fretta e
avrebbero dovuto conseguentemente disintegrarsi. A meno che .…, a meno che le
galassie non fossero circondate da un enorme (sia per quantità che per
estensione) alone di materia buia. In questo caso le stelle che si credevano
periferiche sarebbero state invece ben più “centrali” (rispetto alla
distribuzione di materia) e dunque non ancora nella zona in cui la velocità
rotazione era attesa diminuire. Anche nelle galassie, e non solo negli ammassi
di galassie, mancava quindi all’appello una notevole quantità di materia che
spiegasse la dinamica osservata. Materia che sfuggiva alle osservazioni: dunque
materia “oscura”.
Altre evidenze per l’esistenza della materia oscura si sono poi andate
accumulando negli anni, dagli effetti dovuti alla deflessione della luce
proveniente da galassie distanti per effetto delle “lenti gravitazionali” allo
studio della distribuzione delle anisotropie nel fondo di radiazione cosmica. Se oggi la ricerca dell’evidenza sperimentale
della materia oscura si concentra sulla fisica delle particelle (e
sub-particelle) nucleari, come dimostrano i molti e diversi esperimenti
attualmente in corso in vari laboratori, sia a terra che nello spazio, in passato, si sono prese in considerazione ipotesi più
squisitamente astronomiche. Ogni volta che nuove osservazioni portavano
all’attenzione della comunità astronomica una classe di oggetti più o meno
nuova che aveva sino ad allora eluso l’attenzione o che era stata sottovalutata,
venivano fatti rapidi calcoli per capire se questa potesse render conto della
“massa mancante”.
Ma né l’idrogeno neutro, né i buchi neri super massicci, né le nane brune o i
pianeti extrasolari sono in grado di render conto della quantità di massa
necessaria a far tornare i conti. E neppure i neutrini, una volta assodato che
sono caratterizzati da massa non nulla.
La ricerca della spiegazione non si è
orientata unicamente nel tentativo di trovare oggetti che potessero risolvere
il problema riconducendo la massa oscura a massa barionica (come ad esempio i
MACHOs: oggetti compatti massivi nell’alone della nostra galassia), o nuove paricelle
“supersimmetriche”, araldi di una nuova fisica, ma anche nel rivedere quella
dinamica che sembrava essere messa in crisi dalle osservazioni e richiedeva –
appunto – più massa di quanta ne fosse
disponibile.
Nel 1983 fu proposta una teoria per spiegare le curve di rotazione
delle galassie: MoND, che sta per Modified
Newtonian Dynamics, che assume che per valori estremamente bassi
dell’accelerazione, questa smette di essere linearmente proporzionale alla
forza di gravità. Pur raccogliendo alcuni
notabili consensi e simpatie (dalla stessa Vera Rubin ad esempio), la MoND (e
successive generalizzazioni relativistiche) non ha mai veramente convinto la
comunità scientifica come capace di risolvere nella sua interezza il problema
della massa mancante.
In questi ultimi anni gli sforzi per risolvere il problema della materia oscura si sono concentrati nella ricerca di particelle subnucleari, neutre, dotate di massa, ma interagenti in maniera estremamente debole con la materia ordinaria. Mentre gli astronomi continuano ad accumulare evidenze della presenza di materia oscura e ne misurano con sempre maggior precisione l’ammontare e la distribuzione, i fisici conducono esperimenti a terra (o più precisamente sottoterra, dove è più semplice schermare la radiazione indesiderata) e sulla Stazione Spaziale Internazionale, nel tentativo di raccogliere qualche prova della sua esistenza. Di tanto in tanto nella letteratura scientifica compare un hint, un “suggerimento” cioè, che qualcosa riconducibile alla materia oscura possa essere passato per un rilevatore, ma non abbiamo mai letto di una conferma o di un risultato statisticamente significativo (per esempio v. “le Stelle” n. 65, pp. 40-43).
Trovo dunque un po’ (parecchio!) frustrante l’aver passato
tutta la mia vita scientifica chiedendomi: “ma cosa diavolo è la materia
oscura?” e rischiare di non riuscire a saperlo,
rimanendo col dubbio che la soluzione possa essere banale o piuttosto
potrebbe scombussolare l’attuale costrutto della fisica e quindi del mondo; o
semplicemente non avendone proprio idea. Non mi dispiacerebbe quindi, e penso di essere
in buona compagnia, incontrare un giorno Mefistofele e negoziare con lui un
patto ragionevole. Qualcosa glielo concederei volentieri per soddisfare questa
mia curiosità, e magari anche altre.
Come tanti miei colleghi più o meno coetanei, mi rendo conto,
infatti, che un sempre maggior numero di progetti cui ho dedicato interesse o
attenzione, è destinato a realizzarsi in un futuro che certamente non mi vedrà
più attore e probabilmente nemmeno testimone. Il lancio di Athena+ (il prossimo grande osservatorio per astronomia X che
l’Agenzia Spaziale Europea ha allo studio), ad esempio, è previsto per il 2028
e dunque – se tutto andrà bene – avverrà più probabilmente nei dintorni del
2033, visti i tipici ritardi che hanno sempre caratterizzano la realizzazione
di questi grandi progetti. L’evoluzione di Lisa/NGO
(l’osservatorio spaziale per le onde gravitazionali) seguirà alcuni anni dopo.
Cosa scopriranno? Senz’altro qualcosa di nuovo e di eclatante! Viene tuttavia in mente il ritornello di quella bella canzone di Guccini (o erano i Nomadi?): “… ma noi non ci saremo, no noi non ci saremo”. Rimane la curiosità.
Tratto da Le Stelle n° 127