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Quei fiori sulle macerie del muro di Berlino

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Il crollo del muro di Berlino, il 9 novembre 1989, ha aperto un varco tra mondi fino ad allora incomunicanti: tra l’Est e l’Ovest del pianeta. Tra il blocco sovietico e il blocco occidentale. Tra le democrazie liberali a economia di mercato e le cosiddette “democrazie popolari” (in realtà insopportabili dittature) a economia centralmente pianificata.
E, anche, tra la grande comunità scientifica dei paesi liberi e la comunità scientifica dei paesi comunisti.
Quest’ultima non era certo meno grande. Non per numero di ricercatori. E neppure per qualità, almeno in alcuni ambiti. Il buco aperto nel muro di Berlino, un quarto di secolo fa, spalancò a un nuovo mondo. E segnò la fine di quei due blocchi contrapposti su cui si era costruito l’ordine (apparente) del mondo dopo il secondo conflitto planetario. Qualcuno disse – sbagliando – che quella breccia aperta segnava “la fine della storia”. Certamente segnò la crisi della scienza (ormai ex) sovietica.
Molti (anzi, moltissimi) tra gli scienziati più bravi dell’Est si spostarono in Occidente. Centinaia di migliaia di ricercatori meno bravi o, semplicemente, meno conosciuti restarono al loro posti, ma poveri in canna e con una seria difficoltà a mettere insieme il pranzo con la cena. Molte istituzioni scientifiche nell’Europa orientale, in Russia e nelle altre repubbliche ex sovietiche semplicemente collassarono. Un grande patrimonio di conoscenze andò disperso. Quanta e di che qualità fu la perdita è compito degli storici – un compito non ancora assolto – definirlo. Noi, che siamo semplici cronisti, possiamo chiederci, come ha fatto di recente la rivista Nature, qual è lo stato attuale della scienza nella nuova Europa (2). O, almeno, nei paesi dell’Est che sono entrati nell’Unione Europea.
Come abbiamo cercato di dimostrare in un recente articolo gli 11 paesi (Polonia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Slovenia e Croazia) del vecchio mondo comunista che sono entrati nell’Unione rappresentano in dei quattro vertici del quadrilatero scientifico dell’Europa. L’area più scientificamente (e non solo) più povera. Ma anche l’area più dinamica. Un’area che cresce più velocemente del resto dell’Unione,  che potrebbe presto colmare il suo gap e che con questo sua dinamismo potrebbe contribuire in maniera significativa a rilanciare il “progetto Delors” per cercare di fare dell’Europa se non l’area leader del mondo nell’era della conoscenza, almeno un’area che non si attarda.

L’Europa ha fatto molto per recuperare questo il gap tra l’Est e l’Ovest. Nel periodo dell’ultimo programma quadro, FP7, ha investito nel complesso 170 miliardi di euro nei progetti di coesione e sviluppo regionale negli 11 paesi dell’Est e almeno 20 di questi miliardi sono serviti per finanziare progetti e infrastrutture scientifiche.
In questi paesi la conoscenza è considerata – forse più che altrove – un’occasione di sviluppo civile ed economico. E, infatti, ormai più di un quarto (oltre 5 milioni) dei 20 milioni di studenti universitari dell’Europa sono nati nei paesi dell’Est.
Tuttavia il ritardo che si è evidenziato dopo la caduta del muro di Berlino non è stato ancora colmato. Molto c’è ancora da fare. Ma per capire cosa, occorre prendere atto che i paesi dell’Est dell’Unione non formano un unicum omogeneo e compatto. Al contrario, ci sono grandi differenze tra loro. Alcuni  hanno già raggiunto o stanno raggiungendo le miglior performance dei paesi dell’Ovest. Per altri non c’è convergenza, ma al contrario stanno subendo un’accelerazione del processo di divergenza.

Vediamo un po’ più nel dettaglio.
Nei paesi ex comunisti vive poco meno del 21% della popolazione dell’Unione (Tabella 1). Ma l’area produce e si divide meno del 13% della ricchezza totale dell’Europa. Una persona che abita in uno degli 11 paesi dell’Est ha un reddito medio (calcolato a parità di potere d’acquisto della moneta) appena superiore a 19.000 dollari l’anno: quasi il 40% in meno rispetto alla media dei cittadini dell’Unione.
In questi paesi la bilancia economica dei pagamenti nei settori hi-tech, i più avanzati, registrava un passivo, nel 2010, pari a 16,3 miliardi di dollari, pari a più del 45% del deficit dell’Unione. È, questo, un indice dell’arretratezza relativa del loro sistema produttivo. C’è, tuttavia, da rilevare che le esportazioni di prodotti ad alto contenuto di conoscenza non è affatto marginale. Rappresenta il 18% delle esportazioni dell’Unione. Inoltre l’export di prodotti hi-tech rappresenta il 3,6% del Pil dei paesi dell’Est, contro il 2,5% della media dell’Unione.
Ma proprio i valori dell’export e della bilancia dei pagamenti hi-tech mostrano quanto marcate siano le differenze tra i paesi dell’Unione che un quarto di secolo fa erano ancora comunisti. La Repubblica Ceca, la piccola Estonia e, soprattutto, l’Ungheria mostrano di puntare molto sull’hi-tech. La Romania, la Bulgaria, la Croazia, ma anche la Polonia mostrano una vocazione decisamente minore.

Tabella 1 (Fonte: elaborazione propria da dati Eurostat, OECD e Banca Mondiale)

i paesi ex-comunisti investono nell’università più dell’Italia

Per quanti riguarda gli indici più specifici della formazione e della ricerca, le differenze con l’Ovest e tra gli stessi paesi dell’Est non sono meno marcate. Nel complesso, come abbiamo detto, nel campo della formazione l’Est non si discosta molto dall’Ovest dell’Europa, anche in virtù di una tradizione antica che, evidentemente, non è andata perduta. Per esempio, i paesi ex-comunisti investono nell’università l’1,2% del Pil, più dell’Italia (1,0%) e poco meno della media dell’Unione (1,5%).
Un po’ diversa è la situazione nell’ambito della ricerca scientifica. I paesi dell’est hanno investito nel 2011 in R&S complessivamente 13,4 miliardi di dollari: appena il 4% del totale dell’Unione. E, infatti, la spesa media in R&S in rapporto al Pil da parte dei paesi dell’Est non va oltre un misero 0,9%, meno della metà dell’intensità di spesa dell’Unione (2,0%).
L’indicatore ci dice che c’è ancora poca scienza nei paesi dell’Est: infatti la produttività (976 articoli scientifici per milione di abitante) è la metà esatta di quella media dell’Unione (1.822 articoli scientifici per milione di abitanti) e il numero di brevetti (11 per milione di abitanti) ha un’intensità pari addirittura a un decimo della media dell’Unione (107 per milione di abitanti).
La qualità e/o l’organizzazione della ricerca all’Est è lontana dagli standard medi dell’Unione. Infatti gli 11 paesi hanno nel complesso vinto solo 74 degli oltre 3.000 grants messi a disposizione dall’ERC (European Research Council): appena il 2,4% del totale.
Tuttavia negli ultimi 18 ani, dal 1996 al 2103, la produzione scientifica (numero di articoli pubblicati) è aumentata di 3,3 volte nei paesi dell’Est, contro un aumento medio nell’Unione di 2,4 volte. Ciò significa che nel complesso la velocit di crescita nei paesi dell’est è superiore a quella dell’Unione e che, di conseguenza, il gap tende a ridursi.
Inoltre proprio i dati relativi agli investimenti e alla produttività scientifica fanno registrare il massimo di differenza interna ai paesi dell’Est e ci mostrano che l’area è tutt’altro che omogenea. Ci sono alcuni paesi – come la Repubblica Ceca, la Slovenia e l’Estonia – che hanno ormai assunto il passo della Germania e dei paesi che ruotano intorno alla Germania, con alti investimenti ed elevata produzione scientifica. Ce ne sono altri, come la Romania e la Bulgaria, che invece sono molto distanti.

Tabella 2 (Fonte: elaborazione propria da dati Scimago, Eurostat, OECD e Banca Mondiale)

Un discorso particolare meritano la Polonia e l’Ungheria. Il primo è il più grande dei paesi ex comunisti entrati nell’Unione Europea. I numeri assoluti ci dicono che la Polonia è ancora molte distante dalle performance medie dell’Unione. Ma gli stessi dati – e la cronaca – ci dicono che il paese vuole e sta recuperando.
Al contrario l’Ungheria mostra di aver rinnovato la sua tradizione scientifica – non a caso ha sono ungheresi 39 vincitori di grants ERC sui complessi 74 vincitori dell’Est – tuttavia le sue performance stanno peggiorando.
Sia il miglioramento della Polonia che il peggioramento dell’Ungheria sono direttamente riconducibili a precise e recenti scelte politiche. A dimostrazione che la politica della ricerca di un paese ha un ruolo decisivo nel suo sviluppo scientifico e tecnologico.
E a dimostrazione che, ormai, non è più possibile parlare in maniera generica di paesi ex comunisti entrati nell’Unione Europea. Il loro grado di integrazione, anche scientifica, è ormai troppo differente per considerarli come il residuo di un blocco, quello sovietico, che non c’è più.
Molti fiori sono nati sulle macerie del muro di Berlino. Alcuni colorati e odorosi. Altri meno. Ma una cosa è certa. Da loro dipenderà una parte non piccola del futuro dell’Europa.

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