E’ passato circa un anno da quando la NASA ha annunciato che la sonda Voyager 1 è “uscita” dal Sistema Solare e naviga nello spazio interstellare (v. “le Stelle n. 124, pp 12-13). Nel sito dedicato alla missione si possono trovare interessanti notizie su questa sonda dei record, che lanciata nel 1977 alla volta di Giove e Saturno, ha poi superato anche le orbite di Urano e Nettuno e si trova ora a poco meno di 20 miliardi (!) di chilometri dal Sole, circa 130 unità astronomiche (A.U.). La distanza è tale che un comando inviato al Voyager 1 fa vedere i suoi effetti circa 35 ore dopo. Tale è il tempo necessario per un viaggio di andata e ritorno dalla Terra al Voyager 1 alla velocità della luce. Ma quanto è grande il Sistema Solare?
Fino agli ultimi anni del 18esimo secolo il Sistema Solare
finiva dalle parti di Saturno, il più lontano pianeta allora conosciuto. Mercurio,
Venere, Marte, Giove e Saturno sono sempre stati ben visibili a occhio nudo, in
particolar modo quando i cieli erano ovunque molto più bui di quanto lo siano oggi.
La loro luce stabile e soprattutto il loro movimento regolare rispetto alle
stelle “fisse” permisero di classificarli come “pianeti” (stelle erranti) fin
dall’antichità, classificazione che originariamente includeva anche la Luna e
il Sole. E questo, per millenni, è stato appunto tutto il Sistema Solare
conosciuto, geocentrico o eliocentrico che fosse, ben noto ancor prima che
fossero calcolate correttamente le distanze che separavano i pianeti tra di
loro e dal Sole. Avrebbe potuto, tuttavia, essere più grande, includendo anche
Urano – che pure è visibile a occhio nudo – ma ciò non avvenne. In effetti
Urano, con una magnitudine apparente di circa 5,5 (varia da 5,3 a 5,9), appena
al di sopra del limite di visibilità dell’occhio umano, è difficilmente
visibile e il suo movimento apparente è ben più lento di quello degli altri
pianeti a noi più vicini. Questo spiega perché si sia dovuto attendere lo
sviluppo dei telescopi per classificarlo correttamente. Neppure Galileo, il
primo a guardare il cielo con un cannocchiale, e dunque in maniera potenziata, riuscì
ad allargare i confini del nostro sistema solare.
Ci permise però di
arricchirlo, con la scoperta dei quattro principali satelliti di Giove: Io,
Europa, Ganimede e Callisto, e della strana forma di Saturno che a lui sembrava
allungato, come se avesse due maniglie (il primo a descrivere Saturno come
dotato di anelli fu Huygens nel 1655; Galileo era morto da tredici anni). Avrebbe
potuto farlo però, addirittura con la scoperta di Nettuno, e sarebbe stato un
colpaccio! Fu la sfortuna a impedirglielo ma c’è chi sostiene (David Jamieson
dell’Università di Melbourne, http://www.ph.unimelb.edu.au/~dnj/AP-June-2009-Galileo-Neptune.pdf)
che ci sia andato molto vicino.
Il 28 Dicembre 1612, Galileo osservò due volte la
zona di cielo ove si trovavano Giove e i suoi satelliti e registrò, nei disegni che ci ha lasciato, la
presenza di altro astro: era Nettuno. Ma proprio in quel giorno il pianeta
iniziava il suo moto apparente retrogado e si muoveva dunque molto lentamente,
troppo per essere notato con il piccolo cannocchiale che Galileo si era
costruito. Vi è poi un’ulteriore registrazione di una osservazione di Nettuno
da parte di Galileo, fatta nel Gennaio del 1923 e documentata nei suoi disegni,
e una possibile annotazione di una variazione di posizione. Dunque Jamieson
sostiene la possibilità che l’astronomo toscano avesse realizzato che non si
trattava di una stella ma di un pianeta, ma questa interpretazione è
controversa.
Il primo “allargamento” del Sistema Solare avviene dunque
solo nel 1781 con la scoperta, da parte di Herschel (William), di Urano.
Dapprima Herschel, notandone il moto rispetto alle stelle fisse, pensò di aver
scoperto una cometa ma successive misure dell’orbita di questo oggetto celeste
ne mostrarono la quasi circolarità, tipica degli altri pianeti, e non la
marcata eccentricità che si sarebbe invece attesa nel caso di una cometa.
Herschel, richiesto di battezzare con un nome questo nuovo pianeta del sistema
solare, esterno all’orbita di Saturno, suggerì – non senza un certa attenzione agli
interessi personali – di chiamarlo Georgium
Sidus, in onore del Re Giorgio III. E infatti Re Giorgio, in riconoscimento
dell’importante scoperta scientifica, assegnò a William Herschel uno stipendio
annuo di 200 sterline a condizione che egli si trasferisse con il suo
telescopio a Windsor così che la famiglia reale potesse di tanto in tanto dilettarsi
a guardare gli astri del cielo.
Il nome Georgium
Sidus tuttavia non attecchì e l’astronomo tedesco Johann Bode propose di
chiamare il nuovo pianeta Urano (padre di Saturno) per continuità genealogica con
i due pianeti precedenti (Saturno era il padre di Giove). Il nome Urano a quel
tempo doveva piacere assai, tanto che fu adottato anche come nome per il
92esimo elemento della tavola periodica scoperto da Klaproth nel 1789, l’uranio
appunto.
Ci volle un po’ di tempo affinchè il nome Urano fosse universalmente
usato, ma così fu a partire dal 1850, pochi anni dopo la scoperta di Nettuno
avvenuta nel 1846.
Con l’aggiunta di un nuovo pianeta esterno a quelli noti, e
in considerazione del fatto che Urano orbita a 20 unità astronomiche dal Sole –
Saturno a 10 – le dimensioni (lineari) del Sistema solare raddoppiano e
aumenteranno ancora con la scoperta di Nettuno situato ancor più lontano, a 30 A.U.
dal Sole. La scoperta di Nettuno può essere considerata uno dei trionfi della
meccanica celeste newtoniana. La sua esistenza fu prevista sulla base delle
perturbazioni dell’orbita di Urano ripetutamente osservate e studiate. In
particolare Urbain Le Verrier, astronomo
francese, confrontando le posizioni attese per Urano con quelle osservate, si
convinse dell’esistenza di un ulteriore pianeta situato oltre l’orbita di
Urano, che, con la sua attrazione gravitazionale ne alterava l’orbita. Le Verrier
calcolò la posizione prevista per questo pianeta sconosciuto e la spedì a Johann
Galle, astronomo all’osservatorio di Berlino, sollecitandolo a condurre
osservazioni della regione di cielo in cui era convinto si dovesse trovare
l’ottavo pianeta del sistema solare. Paragonando un’immagine ottenuta il 23
settembre 1846 con quanto registrato in precedenza, Galle fu in grado di
identificare Nettuno come quel debole segnale luminoso che si era spostato –
dunque un pianeta – rispetto alla posizione delle stelle fisse. Il Sistema
Solare aumentava ulteriormente le sue dimensioni.
Ma non era finita: presto fu
il turno di Plutone, cercato a lungo (sempre per via delle perturbazioni dell’orbita
di Urano che da un’analisi più accurata risultarono non completamente spiegate
dalla presenza di Nettuno) e scoperto nel 1930. Inizialmente considerato come il
nono pianeta del sistema solare, Plutone fu poi riclassificato nel 2006,
dall’assemblea dell’Unione Astronomica Internazionale, non senza polemiche,
come pianeta nano insieme ad altri corpi del sistema solare, simili e scoperti
successivamente (Eris, Sedna, Quaoar e altri ancora).
L’idea che il Sistema Solare finisse dalle parti di Plutone non
è durata a lungo. Plutone, che peraltro ha un’orbita ben più ellittica degli
altri pianeti (il perielio è a 30 A.U., l’afelio quasi a 50), altro non è che l’avamposto di
una miriade di corpi minori del Sistema Solare (il secondo per dimensioni) e di
asteroidi che costituiscono la “cintura” di Kuiper, scoperta nel 1992.
Ma quanto è grande allora il nostro Sistema
Solare? Se lo definiamo come quella zona dello spazio dove si percepiscono
ancora gli effetti del vento solare, un flusso di plasma – soprattutto
elettroni e protoni – emesso dalla parte superiore dell’atmosfera del Sole, allora
abbiamo buone ragioni per sostenere che sia limitato a circa 120-130 unità
astronomiche. Dunque oltre 10 volte più esteso, linearmente, di quanto si
credeva quando Saturno era l’ultimo pianeta conosciuto. Come facciamo a
saperlo? Ce l’ha detto la sonda Voyager 1 che si trova ora oltre questa
distanza e che ha permesso agli scienziati che ancora ricevono e analizzano i
dati che registra e ci invia, di stabilire che è da poco entrata nello spazio
interstellare “uscendo” appunto dal nostro Sistema Solare. Se invece definiamo
il Sistema Solare come il volume che contiene oggetti legati gravitazionalmente
al Sole (in orbita, cioè, intorno al Sole), allora potremmo avere grosse
sorprese.
A molte migliaia di unità astronomiche, e possibilmente estesa fino a
50mila A.U. e oltre, si trova con molta probabilità la nube di Oort, una nube
di molti miliardi di corpi, composti di ghiacci di acqua, metano, monossido di
carbonio e altro ancora, che costituiscono probabilmente quanto rimane del disco
protoplanetario da cui ha avuto origine il sistema solare. Questi sono i nuclei
delle comete a periodo lungo (maggiore di 200 anni) che quando, per effetto di
qualche perturbazione gravitazionale, vengono scagliati all’interno del Sistema
Solare, avvicinandosi al Sole si “accendono”, mostrando la coda. Ha molto
probabilmente avuto origine nella nube di Oort, ad esempio, la cometa Hale-Bopp, una delle più luminose degli ultimi
decenni. Ecco dunque che il nostro Sistema Solare, che originariamente credevamo
contenesse solo una manciata di pianeti confinati entro l’orbita di Saturno e
disposti lungo un disco relativamente sottile, ha continuato a “ingrandirsi” diventando,
nel corso degli ultimi tre secoli,
incommensurabilmente più grande, e rivelandosi esteso nelle tre dimensioni.
Arrivati alla nube di Oort, infatti, abbiamo percorso 50mila unità astronomiche
(equivalenti a 7,5 x 1015 metri), dunque poco meno di un anno luce
(9,5 x 1015 metri), un buon tratto della distanza che ci separa
dalla stella a noi più vicina – Proxima Centauri – che si trova a 4,2 anni luce
dal Sole.
Tratto da Le Stelle n° 134, settembre 2014