«Aiutami, Marcel, sennò
divento pazzo!». È il 10 agosto 1912 quando Albert Einstein spalanca la porta
del suo grande amico Marcel Grossmann
– un matematico da poco divenuto rettore del Politecnico di Zurigo, a soli 34 anni
– e implora il suo soccorso. Di anni, Einstein, ne ha uno in meno: il fisico
tedesco è infatti nato nel 1879 a Ulm,
una piccola città del Baden-Württemberg. Ma di fama ne ha già molta di più.
Soprattutto da quando la sua teoria della relatività ristretta, elaborata nel
1905, è stata accreditata dal fisico più autorevole di quei tempi, Max Planck.
Con quella teoria un giovane e sconosciuto impiegato dell’Ufficio Brevetti di
Berna, Albert Einstein appunto, aveva mandato in soffitta i concetti di spazio
e di tempo assoluto e aveva dimostrato che energia e materia sono due facce di
una medesima medaglia. In poche settimane di lavoro quel ragazzo di appena 26 anni aveva abbattuto alcuni dei
pilastri su cui, da un paio di millenni, si reggeva la filosofia occidentale e
su cui, da un paio di secoli almeno, si reggeva la fisica di Isaac Newton.
Eppure è solo due anni dopo,
nel 1907, che nella mente di Albert Einstein si accende la lampadina più
luminosa e il giovane fisico matura quella che lui stesso definisce «l’idea più
felice della mia vita».
Einstein, un fisico che crea mediante l'intuizione
È un’idea in apparenza banale. Un’immagine. Ma, si sa,
i geni sono tali perché fanno molto con molto poco. Eccola, come la racconta
Einstein medesimo nella sua Autobiografia: «Stavo seduto in una poltrona nell’Ufficio Brevetti
di Berna, quando all’improvviso mi ritrovai a pensare: se una persona cade
liberamente, non avverte il proprio peso. Rimasi stupefatto. Questo pensiero
così semplice mi colpì profondamente e ne venni sospinto verso una teoria della
gravitazione».
Facciamo
un esempio, per capire cosa colpisce Einstein. Mentre il vostro modesto cronista sta
scrivendo questo articolo è seduto a un tavolo in una stanza chiusa e senza
finestre. Ebbene, senza riferimenti esterni, né il vostro cronista né alcun
altro ha una qualche possibilità – buon senso a parte – di sapere se è in
quiete nel campo gravitazionale della Terra o se la sua stanza è stata sequestrata
da una civiltà aliena e viaggia con un’accelerazione pari a 9,8 m/s2 nello spazio vuoto verso un’altra
galassia. Le due condizioni – la quiete in un campo gravitazionale o
l’accelerazione nello spazio vuoto – sono del tutto indistinguibili dal punto
di vista fisico. Se mi scappa di mano una penna, in entrambi i casi questa
finisce sul pavimento con la medesima velocità. Mentre il palloncino di mio
figlio vola tranquillo verso il
soffitto. Le due condizioni devono essere considerate – e, anzi, sono – del
tutto equivalenti. Il pensiero più felice della vita di Einstein è il
“principio di equivalenza” tra massa inerziale (quella che si oppone a
un’accelerazione) e massa gravitazionale (quella dovuta all’attrazione della
Terra e di ogni altro corpo materiale).
Sulla base di questo principio, già nel 1907,
Einstein sente di poter elaborare una teoria della relatività più generale di
quella formulata nel 1905, perché in grado di spiegare anche il comportamento
dei corpi soggetti alla forza di gravità. Detta in altri termini, Einstein
comprende di poter elaborare una nuova teoria della gravitazione universale in
grado di spiegare, a differenza di quella di Isaac Newton, anche il
comportamento dei corpi che viaggiano a velocità prossime a quelle della luce.
Ben presto si rende conto che nell’ambito di questa nuova teoria la materia,
una massa gravitazionale, per esempio quella del Sole, è in grado di “curvare”
lo spazio, anzi, lo spaziotempo: ovvero la rete quadridimensionale che unifica
spazio e tempo nella relatività ristretta.
Un studio matto per tradurre in una formula l’idea più felice della sua vita
Ma torniamo al Politecnico di Zurigo e allo
scoramento con cui Albert Einstein implora l’amico Marcel Grossmann. Perché questo
scoramento? Il motivo è semplice: a cinque anni dall’idea più felice della sua
vita il giovane fisico non è riuscito ancora a scrivere l’articolo in cui
annuncia al mondo la sua nuova teoria della relatività generale.
Einstein non è un fisico analitico. Non
procede per deduzione matematica da un assunto. Lui è un fisico che crea
mediante l’intuizione. Come lui stesso dirà, la sua mente prima produce
l’immagine fisica e poi formalizza la teoria (riducendola a una formula
matematica, appunto). Così ha fatto nel 1905 con la relatività ristretta. E
così sta facendo ora con la relatività generale.
Il fatto è, però, che nel 1905 sono passate
pochi giorni, forse poche ore o pochi minuti tra l’intuizione per immagine e la
formalizzazione. Ora sono passati cinque anni e lui non è ancora riuscita a
tradurre l’immagine – la più felice della sua vita – in una formula matematica.
Come mai? Anche a questa domanda si può rispondere abbastanza facilmente. Nel caso della relatività
ristretta, la matematica necessaria a formalizzare l’idea fisica era semplice.
Alla portata di un giovane fisico. Nel caso della relatività generale, Einstein
se ne rende conto, c’è bisogno di “nuova matematica”. E lui non è un matematico
creativo: non sa crearla quella nuova matematica. Ecco perché, quel 10 agosto
1912, ritornando al Politecnico di Zurigo dopo un anno trascorso presso
l’università di Praga, spalanca la porta dell’ufficio di Grossmann e grida,
disperato: «Aiutami, sennò divento pazzo!».
Marcel Grossmann è un matematico. Un
matematico creativo. Ma neppure lui sa come creare la matematica specifica di
cui ha bisogno Einstein. Ma, conoscendo la sua materia, sa dove cercarla,
quella matematica difficile e astrusa. E così indirizza l’amico verso due
matematici italiani: Tullio Levi Civita e il suo maestro, Gregorio Ricci
Curbastro. Il secondo, Ricci Curbastro, ha già inventato la “nuova matematica”
di cui ha bisogno Einstein: è il calcolo differenziale assoluto. Con il
discepolo, Levi Civita, l’ha poi sviluppata.
Grato, Albert Einstein studia il calcolo
differenziale assoluto di Ricci ed entra in contatto – un lungo contatto
epistolare – con Tullio Levi Civita. Ma non è facile tradurre la banale idea
dell’uomo in caduta libera che non sente più il suo peso in una formula matematica
che contenga una nuova teoria della gravitazione universale. Non è facile
neppure con l’aiuto di Grossmann e di Levi Civita.
Occorre ancora molto fatica. Molto studio
matto, anche se non più disperato. In soldoni, occorrono altri tre anni e tre
mesi prima che Albert Einstein riesca a tradurre in una formula l’idea più
felice della sua vita. Finalmente nel 1915, cento anni fa, il fisico tedesco,
ormai trasferitosi a Berlino, elabora in maniera formale la teoria della
relatività generale e con un’equazione riesca a descrivere come la materia (col
suo campo gravitazionale) curva lo spaziotempo.
La teoria alla prova
L’equazione – che tra l’altro contiene un
operatore matematico che, in onore a Ricci Curbastro, si chiama “tensore di
Ricci” – costituisce una delle conquiste più alte mai effettuate dalla ragione
umana. Ma reca con sé due difetti: 1) non ha (ancora)
alcuna verifica empirica; 2) non soddisfa Einstein (non completamente almeno).
Il primo difetto verrà superato nel giro di
quattro anni. Nel 1919, infatti, un astronomo inglese, Arthur Eddington, grazie
a un’eclisse, verifica che la luce di una stella lontana è deviata dal campo
gravitazionale del Sole proprio dell’angolo previsto dalla relatività generale
del tedesco Albert Einstein e non dell’angolo previsto dalla teoria della
gravitazione universale dell’inglese Isaac Newton. Il 7 novembre il Times di
Londra, non senza rammarico, riconosce in prima pagina: Rivoluzione nella
scienza. Nuova teoria dell’universo. Demolita la concezione di Newton.
Quello stesso giorno Einstein diventa il fisico di gran lunga più famoso del
pianeta. Un mito, che ancora oggi risulta del tutto inossidabile.
Il secondo difetto è indicato allo stesso
Einstein. La mia equazione, dirà, è fatta per metà di marmo pregiato e per metà
di legno scadente. La prima è la componente dell’equazione che descrive la
gravitazione come un campo. Un campo continuo. La seconda è invece la
componente che descrive la materia come entità discreta e, quindi, discontinua.
In realtà la teoria delle relatività generale
reca con sé anche altri punti critici. Nel senso che tuttora restano problemi
irrisolti, su cui i fisici teorici stanno lavorando da decenni.
Partiamo dal punto che indicava
l’inglese Stephen Hawking quando sosteneva
che la teoria contiene in sé il germe della sua autodistruzione. Ma solo nel
senso che contiene in sé i presupposti per il proprio superamento a opera di
una teoria più generale.
Il punto è questo: la
relatività generale può infatti essere applicata all’universo intero, come fece
Einstein nel 1917 formulando le cosiddette “equazioni cosmologiche” (con cui,
sia detto per inciso, il tedesco ha inaugurato la moderna cosmologia
scientifica). Ebbene oggi sappiamo che da 13,7 miliardi di anni il nostro universo,
rispettando la relatività generale, si espande. Creando continuamente nuovo
spazio, anzi nuovo spaziotempo. Ma se riavvolgiamo il film della storia cosmica
lo vedremmo contrarsi, il nostro universo, ripiegare su se stesso e
concentrarsi nella “singolarità iniziale”. In un punto piccolissimo, densissimo
e caldissimo dove tutti i parametri fisici assumono un valore infinito. Ma per
i fisici i parametri con valore infinito sono ingestibili e, dunque, indigeribili:
un assurdo. Ecco perché, sostiene Hawking, la relatività generale contiene in
sé il messaggio che occorre superare la relatività generale. In soldoni: occorre
una nuova teoria, più generale, che eviti la “singolarità iniziale”. Che eviti
l’assurdo.
"Marmo pregiato" e "legno scadente". la ricerca dell'unità in fisica
C’è poi la stessa autocritica
di Einstein. Il problema posto dal fisico tedesco quando descrive la duplice
natura della sua formula può essere riassunto in questo modo. C’è una parte
dell’equazione (che Einstein definisce marmo pregiato) che descrive il campo
gravitazionale: un’entità diffusa nello spazio in modo continuo. L’altra parte
dell’equazione (il legno scadente) è la massa, ovvero l’insieme di quelle unità
discrete, le particelle, il cui comportamento viene descritto, con grande
precisione, dalla meccanica quantistica e dalle teorie quantistiche di campo a
essa correlate. Einstein, con la sua spiegazione nel 1905 dell’effetto
fotoelettrico e la scoperta dei “quanti di luce” (i fotoni) e della loro
ambigua dualità (si comportano sia da onde che da corpuscoli), è stato uno dei
padri fondatori della fisica quantistica. La teoria dei quanti è stata
formalizzata nella seconda parte degli anni ‘20 del secolo scorso. Da quel
momento la fisica poggia su due pilastri: la relatività generale e la meccanica
quantistica. E tuttavia le due grandi teorie non risultano, a tutt’oggi,
conciliabili.
Molti fisici teorici, ancora
oggi, pensano che occorre rimetterli in fase, quei due pilastri divergenti, se
si vuole evitare che l’intero e maestoso edificio della fisica crolli su se
stesso (come diceva amaramente Einstein pochi mesi prima di morire, nell’ultima
lettera scritta all’amico di penna, l’ingegnere triestino Michele Besso). Il
che significa che l’una o l’altra o entrambe le teorie (la relatività generale
e la meccanica quantistica) sono incomplete e, dunque, da modificare.
Ebbene, per quarant’anni lo
stesso Einstein si è impegnato in questo tentativo e ha cercato una teoria
unitaria – una teoria unitaria di campo continuo – che trasformasse il legno
scadente in marmo pregiato. Non c’è riuscito. Ma ancora oggi quello della
conciliazione tra le due teorie è il più grande problema aperto della fisica.
Certo, a differenza di Einstein, oggi la
gran parte dei teorici sembra più propenso a “sacrificare” il continuo e a
“salvare” il discreto. Ovvero a trasformare il marmo pregiato in un altro
materiale simile a quello che Einstein considerava legno scadente. In ogni caso
c’è chi giura che risolvendolo il problema della compatibilità tra relatività
generale e meccanica dei quanti si darebbe soddisfazione anche al problema
della “singolarità iniziale” posto da Hawking (e da tanti altri).
Non c’è modo migliore, per
festeggiare i cento anni della relatività generale, che verificare come essa
non sia affatto una teoria superata, ma una teoria viva. Che entra nel merito
delle questioni aperte.
Perché poi Einstein consideri marmo pregiato
la descrizione del campo continuo e legno scadente la descrizione della materia
discreta è tema troppo complessa per raccontarlo in poche righe. Per ora
diciamo solo che, malgrado Einstein abbia piena percezione di aver tagliato il
traguardo più alto nella storia della fisica e, forse, dell’intera cultura
umana, resta lucido. E umile. Riconosce i meriti, ma anche i limiti della sua teoria.
Come abbiamo detto, questa lucida analisi lo
porterà a cercare per il resto della sua vita, con la stessa determinazione che
lo aveva portato a spalancare la porta dell’ufficio dell’amico Marcel e a
chiedere aiuto, una teoria ancora più generale della relatività generale. Una nuova
teoria dello spazio e del tempo fatta tutta di marmo pregiato. Una teoria del
tutto di campo continuo, in grado di unificare in maniera completa e organica
tutte le forze conosciute dell’universo. Non ci riuscirà.
Ne siamo certi: non gli sarebbe affatto di
consolazione sapere che in questa ricerca, anche dopo la sua morte –
sopravvenuta il 18 aprile 1955 – si sono impegnati schiere di fisici teorici,
tra i più bravi e geniali. E, a tutt’oggi, nessuno c’è riuscito.
Gli sarebbe, probabilmente, di consolazione
la sua intima convinzione che ciò che appaga il fisico non è il possesso della
verità, ma la sua ricerca.