La psicologia di Internet, venti anni dopo. Già, perché è dopo quasi vent’anni che Patricia Wallace, psicologa americana in forze alla Graduate School del Maryland University College, ritorna sulla scena del delitto, il mondo digitale, e ripropone un’analisi dei comportamenti che gli umani assumono in questa nuova dimensione. La psicologia di Internet (pagg. 521; euro 32,00) appena pubblicata da Raffaello Cortina non è una nuova edizione di La psicologia di Internet pubblicato nel 2000. È un libro completamente diverso. Perché completamente diverso è il mondo digitale che, in poco più di tre lustri, si è venuto determinando.
Tra apologeti e catastrofisti
Patricia Wallace affronta il tema a trecentosessanta gradi, con grande libertà intellettuale, evitando di cadere nelle due trappole ideologiche speculari, quella degli apologeti e quella dei catastrofisti, che puntualmente vengono approntate ogni qual volta spunta una nuova tecnologia significativa. Non aveva, forse, il grande Platone insinuato che, con l’invenzione dell’alfabeto, l’uomo avrebbe potuto smarrire la memoria? E non aveva, forse, il non meno grande Leibniz proposto che viviamo nel migliore dei mondi possibili? Non avevano, forse, i positivisti riproposto la tecnologia come intrinseco fattore di progresso per il genere umano? E non aveva, forse, Leopardi irriso l’ingenuità dei fautori delle “magnifiche sorti e progressive”? La storica americana Elizabeth Eisenstein ha magistralmente raccontato come la percezione del libro, tra Cinquecento e Seicento, fosse più quella di veicolo di una letteratura trash e blasfema che di nuove conoscenze.
Ebbene, queste stesse pericolose oscillazioni si stanno verificando oggi a proposito di Internet, della comunicazione per via digitale, dei social network, degli iPhone… insomma dei nuovi media. Patricia Wallace analizza, in profondità, un po’ tutti gli aspetti della “psicologia di Internet” – dall’amore all’altruismo, dalle dinamiche di gruppo all’aggressività, dallo sviluppo infantile alla dipendenza – alla luce degli studi scientifici più aggiornati.
Vivere sempre connessi
Non è possibile analizzare ciascun capitolo del libro, sebbene ciascun capitolo lo meriterebbe. Ma a mo’ di esempio prendiamo l’undicesimo, che ha per titolo: “Internet fa perdere tempo?”. E per argomento: l’invadenza dei nuovi media che induce, talvolta, alla dipendenza. L’autrice individua la grande novità di questo insieme di nuove tecnologie: siamo tutti sempre connessi, in ogni ora del giorno e della notte. Questa caratteristica di Internet (dei nuovi media) ha molti vantaggi: posso lavorare in treno o posso avere notizie in tempo reale di carattere privato e di carattere generale. Ho sempre a disposizione una biblioteca sterminata e comunicare le mie emozioni su Facebook a centinaia di “amici”. Ma è anche vero che questa perenne connessione prosciuga il nostro tempo, rompe – dice Patricia Wallace – l’equilibrio vita/lavoro. Siamo sempre connessi, appunto, con il nostro capoufficio o con il nostro cliente: 24 ore su 24; 7 giorni su 7 in ciascuna delle 52 settimane dell’anno.
Dipendenti da Internet?
Ci sono poi alcune caratteristiche della rete delle reti che creano dipendenza, su cui molto si discute, soprattutto nel caso dei giovani, i cosiddetti “nativi digitali”. Molto spesso ci si riferisce ai giovani come una generazione di persone che passano l’intera loro vita nella dimensione virtuale. Ma, avverte Patricia Wallace, molto spesso queste problematiche vengono artificiosamente ingigantite. Tanto è vero che l’espressione “dipendenza da Internet” è stata utilizzata per la prima volta da uno psichiatra, Ivan Goldberg, per segnalare l’esatto opposto del significato che ha assunto oggi: la falsa idea che i giovani (e i meno giovani) sono patologicamente catturati dalla rete. Goldberg intendeva ironizzare sulla tendenza, che egli avvertiva come reale, a trasformare in nuova patologia qualsiasi nuovo modo di comportarsi.
Il fenomeno della dipendenza esiste, ma non è totalizzante. Uno studio tra gli studenti delle scuole medie superiori condotto in Italia e pubblicato nel 2012, ricorda Wallace, ha classificato come “gravemente dipendente” da Internet l’1% e “moderatamente dipendente” il 5% di quei giovani. Più o meno la stessa percentuale registrata tra gli adulti in Norvegia. Si tratta di numeri certamente significativi, ma non tali da giustificare l’idea che i nativi digitali (e gli adulti nell’era di Internet) siano definitivamente perduti nella rete.
Patricia Wallace registra anche una difficoltà a confrontare gli studi su scala internazionale. Le percentuali di cui sopra salgono vertiginosamente quando si tratta di paesi asiatici, per esempio. A Hong Kong la dipendenza riguarderebbe il 26% degli adolescenti e in Iran il 22% degli adulti.
Ma le attrazioni del mondo digitale sono irresistibili quanto una mano di poker per un giocatore d’azzardo o una vendita straordinaria da Bloomingdale o un tiro di coca per un cocainomane oppure hanno qualcosa di peculiare? Difficile dirlo. Certo, continua Wallace, è abbastanza provato che in tutto il mondo ci sono soggetti più a rischio (per esempio gli adolescenti di sesso maschile) e ambienti che più facilmente creano dipendenza (giochi on line, social network, aste on line; siti dediti alla pornografia). Queste dipendenze determinano anche modificazioni nel cervello, per esempio nelle aree implicate nell’elaborazione delle emozioni e delle ricompense, oppure nella sostanza bianca, con erosioni che sembrano denunciare deficit cognitivi.
Sono modificazioni nuove e gravi? Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) classifica il gioco d’azzardo patologico nella sezione “disturbi da dipendenza e correlati all’uso di sostanze”, mentre classifica il disturbo da gioco su Internet nella sezione 3, che raccoglie le condizioni che necessitano di ulteriore ricerca. Insomma ci sono dipendenze conclamate che nulla hanno a che fare con Internet, mentre su quelle che con Internet hanno a che fare ne sappiamo ancora poco. Vigilanza, dunque, ma niente allarmismi sugli aspetti psicologici correlati ai nuovi media.
Il nuovo "ambiente" digitale
E, tuttavia, la completa lettura del libro ci restituisce un senso più generale, che potremmo tentare di riassumere in questo modo: quello digitale è un nuovo ambiente nel quale l’uomo è immerso. E come ogni nuovo ambiente interagisce con la mente che vi è immersa. La mente (ri)costruisce l’ambiente, ma l’ambiente modifica la mente. In questo caso la reciproca influenza è tale da determinare un’accelerazione evolutiva: qualcuno già parla di Homo sapiens digitalis.
Per usare un’altra metafora e le parole di Paolo Ferri, che ha curato la prefazione, Internet è una sorta di nuova protesi: un’estensione del Sé, anzi, un accrescimento del Sé. Il Sé digitale non annulla il Sé reale, ma appunto lo amplia. In quest’ottica i vantaggi che offre Internet sono decisamente superiore ai rischi, che – come in ogni ambiente – vi si annidano.
Il Sé digitale
Il Sé digitale non ha più bisogno di intermediari per esporsi al mondo. Ma lo fa (lo può fare) direttamente. Con innegabili vantaggi in termini di libertà, ma anche, appunto, con tutti i rischi, cui abbiamo già accennato, di una relazione senza mediazioni.
Ancora. Internet è una nuova tecnologia che interviene nella sfera cognitiva dell’uomo. Un’invenzione come lo sono state quella della scrittura e quella della stampa: capace di rompere antichi e consolidati equilibri, ma potenzialmente in grado di generarne di nuovi e a un livello più alto.
Il grande problema aperto è, ancora una volta, quello segnalato da Ferri: nella nuova dimensione “la conversazione e il dialogo intersoggettivo” tra le persone reali sono compromesse, come sostiene con non celato pessimismo Sherry Turkle, oppure abbiamo la possibilità di svolgere un ruolo attivo nella rete – di costruirla collettivamente – solo che ci ricordiamo di essere “esseri umani” che, per mezzo della rete, interagiscono con altri “esseri umani”, come sostiene con indubbio ottimismo Patricia Wallace?
Il futuro "aperto" di Internet
Non lo sappiamo. Non lo sappiamo ancora, almeno. E non solo perché gli studi sono ancora insufficienti, ma perché la transizione è in atto. Per parafrasare Karl Popper, potremmo dire che il futuro di Internet e della “psicologia di Internet” è aperto. Sta a noi indirizzarla verso un futuro desiderabile. Sta a noi ricordare, appunto, che internet (con la minuscola, come saggiamente propone Stefano Moriggi nella sua post-fazione) è un’invenzione, per quanto potente come quella della scrittura e della stampa, che consente a “esseri umani” di interagire, ancorché con altre e largamente inesplorate modalità, con altri ”esseri umani”.