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Servirà la geoingegneria a fermare il cambiamento climatico?

Densità di CO2 nell'atmosfera. L'immagine è il risultato di una simulazione realizzata a novembre 2015 dal 'Earth science program' della NASA per studiare l'impatto che una riduzione della capacità della terra e degli oceani di assorbire una parte dell'anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili avrebbe sul livello di concentrazione atmosferica di questo gas. Credit: NASA / GSFC. Licenza: Public Domain.

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A fine ottobre, a pochi giorni dalla COP-23 che si sta svolgendo in questi giorni a Bonn, è stata pubblicata dall’Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) l'ottava edizione della relazione sull’andamento delle emissioni clima-alteranti a scala globale.

Nel 2016 le emissioni totali globali di gas a effetto serra, comprese le emissioni derivanti dall'utilizzazione del suolo, dai cambiamenti di uso del suolo e dalla silvicoltura (in gergo LULUCF), sono pari a circa 51,9 miliardi di tonnellate (Gt) di biossido di carbonio (CO2). Le emissioni globali derivanti dai combustibili fossili, la produzione di cemento e altri processi industriali rappresentano circa il 70 per cento delle emissioni globali di gas a effetto serra e nel 2016 sono state stimate in 35,8 GtCO2. Queste emissioni sono rimaste più o meno stabili negli ultimi tre anni, invertendo per la prima volta la tendenza annuale all’aumento. Ciò potrebbe indicare un disaccoppiamento a scala globale delle emissioni di CO2 connesse all'energia e all'industria dalla crescita economica di questi anni, in cui il prodotto interno lordo globale è aumentato del 2-3% annuo. I principali fattori di questa inversione di tendenza sono stati: la riduzione dell'utilizzo del carbone a partire dal 2011, soprattutto in Cina e secondariamente negli Stati Uniti; e la crescita della capacità delle energie rinnovabili, in particolare in Cina e in India, combinata con una maggiore efficienza energetica e cambiamenti strutturali nell'economia globale.

Il rapporto UNEP ci dice anche che le nazioni non stanno facendo abbastanza per piegare la curva delle emissioni così come l’Accordo di Parigi vorrebbe e che, continuando con questo ritmo, al 2030 ci troveremo con 11-13,5 GtCO2eq in più rispetto al target di 2°C. Nel gergo questo divario è definito come emissions gap, che rappresenta la differenza tra i livelli di emissione di gas-serra in linea con la possibilità di avere una probabilità sufficiente (maggiore del 66 percento) per contenere l’aumento della temperatura media globale sotto i 2°C al 2100 rispetto alla temperatura media globale dell’era pre-industriale. Se invece il target che vogliamo raggiungere è quello più ambizioso di stare sotto 1,5 °C di riscaldamento, l’emissions gap sarebbe tra 16 e 19 GtCO2eq. Un quadro fosco per il pianeta, che a fine secolo potrebbe trovarsi con un riscaldamento di 3°C, con tutti gli effetti che ne conseguono, dall’accelerazione dello scioglimento dei ghiacciai polari e alpini dell’acidificazione degli oceani all’aumento della frequenza e dell’intensità di eventi estremi, dalla riduzione della sicurezza alimentare all’aumento del numero di migranti ambientali. Se poi gli Stati Uniti d’America dovessero proseguire con la loro decisione di lasciare l’Accordo di Parigi, il quadro potrebbe diventare ancora più allarmante.

Servono azioni risolutive

Raggiungere l’obiettivo dell’Accordo di Parigi sta diventando dunque ogni giorno più difficile. Ma l’UNEP ritiene che sia ancora possibile recuperare la strada. A patto che i governi e le cosiddette non-state organisations (dalle imprese di piccole a quelle di grandi dimensioni, dalle organizzazioni non governative ai sindacati e alle associazioni di categoria, dalle organizzazioni ambientaliste e umanitarie alla comunità scientifica) agiscano in maniera risoluta verso la de-carbonizzazione delle economie e delle società, puntando su settori chiave come l'agricoltura e la silvicoltura, l’edilizia, l'energia, l'industria e i trasporti. Con un investimento inferiore a 100 dollari per tonnellata di CO2eq, potrebbe ridurre le emissioni fino a 36 GtCO2eq l'anno, che sarebbero sufficienti per colmare il gap verso gli obiettivi di Parigi.

Da qualche decennio a questa parte un piccolo ma crescente gruppo di governi e scienziati, per la maggior parte di Paesi più potenti e inquinanti del mondo, sta spingendo politicamente per far prendere in considerazione il geoengineering del clima, ossia l’alterazione deliberata del clima, su una vasta scala e su base tecnica e tecnologica. Il geoengineering, per sua natura, racchiude un alto rischio per il clima e per gli effetti avversi che saranno probabilmente distribuiti in modo iniquo e sproporzionato tra e all’interno delle nazioni. A causa di questo, il geoengineering è stato spesso presentato come un "piano B" per affrontare la crisi climatica. Ma dopo l'accordo di Parigi e la percezione crescente della difficoltà di piegare il livello delle emissioni clima-alteranti l’attenzione sulle attività di geoengineering sta crescendo.

Ma che cosa è esattamente il geoengineering e quali sono le tecniche e le tecnologie proposte? E quali sono i rischi e le implicazioni associati alle rispettive tecnologie per quanto riguarda l'integrità ecologica, la giustizia ambientale e climatica e la democrazia?

La nozione di geoingegneria del clima non è per nulla nuova. Essa ha mosso i prima passi agli inizi del secolo scorso in ambito militare con lo scopo di controllare le condizioni meteo, a vantaggio di alcune nazioni o a svantaggio di altre. Con l'affacciarsi della crisi climatica, lo spettro delle proposte di geoingegneria è aumentato e oggi il dibattito sulla geoengineering verte sulla possibilità di usare questo strumento per aggredire il cambiamento climatico piuttosto che altre nazioni. La geoingegneria comprende una vasta serie di operazioni che agiscono sul suolo, sugli oceani o sull’atmosfera e appartengono a due categorie: la gestione delle radiazioni solari (Solar Radiation Management, SRM) e la rimozione dell'anidride carbonica—o altri di gas serra—dall’atmosfera (Carbon Dioxide Removal, CDR).

Rimozione di biossido di carbonio

Carbon Dioxide Removal (CDR), o rimozione di biossido di carbonio) è l’espressione più comune per indicare tecniche e tecnologie, anche molto diverse tra loro, per la rimozione di gas serra dall'atmosfera. Semplificando, è possibile distinguere tra opzioni biologiche e ingegnerizzate. Le prime, che includono la riforestazione o la gestione del carbonio nei suoli agricoli, nei prati e nei pascoli, sono state concepite come strumento di mitigazione dell’effetto serra sin dagli inizi della Convenzione ONU sui cambiamenti climatici e possono contare ora su un vasto e lungo esercizio di ricerca e pratica. Al contrario, l'esperienza è limitata per le opzioni ingegnerizzate. Alcune risultano più difficili da implementare, come ad esempio quelle che si basano sugli oceani come risorsa territoriale comune, non all’interno dei confini nazionali, che richiederebbero un non semplice coordinamento a livello internazionale. Di seguito sono elencate alcune delle tecnologie finora proposte.

Fertilizzazione dell'oceano

La fertilizzazione degli oceani si riferisce alla distribuzione di ferro o di altri elementi (ad esempio azoto sotto forma di urea) nei mari e negli oceani, in aree con bassa produttività biologica, per stimolare la crescita del fitoplancton. In teoria, in questo modo aumenta la capacità del fitoplancton di assorbire CO2 atmosferica e di sequestrare carbonio negli abissi oceanici, dove il fitoplancton, morendo, si deposita. L'efficacia dell'Ocean Fertilisation è molto discussa, poiché gran parte del carbonio "sequestrato" sarebbe probabilmente rilasciato in tempi brevi attraverso la catena alimentare (non-permanenza delle attività). Non solo. L'OF potrebbe anche provocare la disfunzione della catena alimentare marina e l'anossia (mancanza di ossigeno) in alcuni dei livelli dell'oceano e causare indesiderate fioriture di alghe tossiche.

Risalita artificiale delle acque profonde

L’upwelling, o risalita delle acque profonde, è un fenomeno oceanografico naturale, che riguarda il movimento provocato dal vento di grandi masse di acqua fredda, densa e generalmente ricca di nutrienti, che risalgono verso la superficie dell'oceano, subentrando all'acqua superficiale più calda, pertanto meno densa e in generale ormai depauperata dei suoi nutrienti. Questa tecnica ritiene che l’upwelling causato artificialmente possa stimolare l'attività foto-sintetica del plancton. In teoria, questo avrebbe ridotto CO2 per fertilizzazione oceanica. Come per l’Ocean Fertilisation, l’efficacia dell’Artificial Upwelling è in discussione. Preoccupazioni sono sorte rispetto all’alterazione della catena alimentare marina e l'ambiente in generale e sui rischi di trasportare in superficie CO2 già sequestrata.

Cattura e stoccaggio del carbonio

Il CCS si riferisce solitamente alla cattura meccanica delle emissioni di CO2 in uscita da centrali elettriche o da altre fonti industriali. La CO2 è catturata, generalmente per mezzo di una sostanza sorbente, prima che le emissioni lascino i camini degli impianti industriali. La CO2 liquida è quindi pompata in acquiferi sotterranei per lo stoccaggio a lungo termine. Sviluppato originariamente dall'industria petrolifera per recuperare le riserve residue di petrolio, pompando gas pressurizzato in pozzi vuoti, il CCS non è al momento economicamente conveniente e i vari impianti sperimentali e operativi vivono grazie a fondamentali sussidi. Se utilizzato come tecnica di recupero di petrolio, il CCS potrebbe promuove perversamente un ulteriore sfruttamento del petrolio. La capacità delle tecnologie CCS di sequestrare in modo permanente il carbonio è ampiamente dibattuta. Il carbonio catturato potrebbe essere rilasciato in atmosfera per molte ragioni: costruzione difettosa degli impianti, terremoti o altri movimenti sotterranei. A queste concentrazioni, la CO2 è molto tossica per la vita animale e vegetale.

Cattura, Uso e Stoccaggio del Carbonio

L'idea alla base del CCUS è che la CO2 catturata, sia dai processi industriali sia direttamente dall'atmosfera, possa essere utilizzata come materia prima per la produzione industriale, in teoria stoccando la CO2 in manufatti. Un ipotetico esempio di CCUS include l’impiego di CO2 catturata per lo crescita di alghe, la cui massa biologica è impiegata poi per la produzione di biocarburanti. Un secondo esempio è il processo di mineralizzazione della CO2 per reazione con matrici contenenti metalli alcalino‐terrosi per produrre carbonati praticamente insolubili in acqua e quindi chimicamente stabili. Un siffatto processo, detto di carbonatazione, può essere realizzato impiegando sia minerali puri sia di scarto, nonché residui solidi alcalini derivanti da processi industriali di tecnologia varia.

Il CCUS ha molti dei potenziali impatti delle tecniche CCS, ma con un maggior rischio per le emissioni di CO2, nei processi e dai prodotti finali. Il CCUS può anche avere un equilibrio energetico (e di emissioni) discutibile. Qualora venga considerata l'energia totale necessaria per il trasporto e lo stesso processo, nonché le considerazioni end-of-life, ci può essere bilancio netto a favore delle emissioni di gas-serra invece che di sequestro.

Cattura diretta dell'aria

La DAC si riferisce all'estrazione di CO2 o di altri gas a effetto serra provenienti dall'atmosfera mediante mezzi chimici e meccanici, generalmente utilizzando un sorbente chimico e grandi ventole per spostare l'aria verso appositi filtri. Da qui la CO2 diventa quindi disponibile come flusso di gas per impianti CCS o per altri usi. Il DAC è una proposta commerciale che sembra avere richieste energetiche molto cospicue e, come il CCS, viene proposto per il recupero di petrolio in aree dove le fonti industriali di CO2 possono essere limitate. Gli attuali prototipi DAC recuperano CO2 atmosferica a livelli bassi. A fronte di effetti rilevanti, le tecnologie DAC possono avere un ingente impatto ambientale sul territorio e per garantire i livelli necessari di sorbente si possono avere effetti significativi in termini di tossicità. Anche in questo caso esiste il limite della mancanza di soluzioni per lo stoccaggio della CO2.

Bioenergia con cattura e stoccaggio del carbonio

La tecnologia BECCS rappresenta la cattura di CO2 derivante dalla combustione di biomassa per fini energetici, seguita dal sequestro della stessa CO2 attraverso impianti CCS o CCUS. Il principio di base è il fatto che la tecnologia BECCS è nel complesso "carbon negative", partendo dall’assunzione che la biomassa sia una fonte energetica "carbon neutral" (si veda). Questa assunzione - tutt’altro che verificata - ritiene che le piante, una volta tagliate e il legno usato per produrre energia, ricrescano per fissare il carbonio emesso dallo stesso legno. I critici della bioenergetica sottolineano che questa convinzione trascurano le emissioni legate alle trasformazioni di uso del suolo e al ciclo di vita. Secondo il quinto rapporto di valutazione dell’IPCC, per mantenere la temperatura sotto i 2 gradi con un sistema teorico efficace BECCS richiederebbe tra 500 milioni e 6 miliardi di ettari di terreno. La produzione mondiale delle colture globali copre 1,5 miliardi di ettari - l'impatto sulla terra, sull'acqua, sulla biodiversità e sulla vita, nonché sulla competizione per l’uso della terra per coltivare cibo sarebbe devastante.

Enhanced Weathering

Le tecniche EW propongono di sciogliere minerali ridotti in polvere (in particolare minerali di silicato) sul suolo o in mare per farli reagire chimicamente CO2 atmosferica e fissarla in oceani e suoli. L'enorme richiesta di minerali avrebbe gravi ripercussioni sul territorio e sulla biodiversità, estendendo gli effetti nocivi delle operazioni di estrazione mineraria. Cambiare deliberatamente la chimica generale degli oceani rischia di introdurre molte incognite e fattori imponderabili.

Biochar

Le tecniche per la produzione di biochar (carbone biologico) propongono di bruciare biomasse e rifiuti urbani organici, in assenza di ossigeno per produrre carbone. Questo carbone è quindi distribuito al suolo come ammendante, aumentando teoricamente la fertilità del suolo, poiché aumenta il contenuto di carbonio. L'approccio è ispirato (con le debite differenze) a pratiche tradizionali, diffuse tutt’ora in molte comunità rurali e indigene. La biochar industriale e su grande scala, richiederebbe grandi superfici agricole per realizzare piantagioni la cui biomassa sarebbe poi bruciate. Esiste molte preoccupazioni sugli effetti del biochar sulla vita del terreno (specialmente sulla micro e mesofauna; sulle dinamiche del carbonio, potendo il biochar anche accelerare l’ossidazione della sostanza organica del suolo e portare ad aumento delle emissioni di gas serra; sul possibile uso di biomassa con contaminanti tossici che sono poi trasferiti ai terreni. Il presunto aumento della produttività dei terreni legato alla distribuzione di biochar manca di una solida evidenza scientifica e operativa.

Gestione delle radiazioni solari

La gestione delle radiazioni solari (solar radiation management, SRM) comprende una serie di tecnologie (finora e da decenni solo allo stadio di proposta) che mirano a riflettere l’energia radiante nello spazio prima che questa penetri nell’atmosfera e riscaldi il clima della Terra. Le principali proposte SRM includono:

Iniezione di Aerosol Stratosferico (IAS)

Questa proposta si basa sullo spargimento di grandi quantità di particelle inorganiche (ad esempio anidride solforosa) nella stratosfera (lo strato superiore dell'atmosfera) per agire come barriera riflettente nei confronti dell’energia luminosa in arrivo dallo spazio. Le proposte vanno dalle particelle di tiro delle armi da artiglieria, utilizzando grandi tubi flessibili che raggiungono alte quote dell’atmosfera o di distribuire le particelle dalla parte posteriore degli aeromobili. Sono state prese in considerazione anche la progettazione di particelle auto-levitanti e l’uso di particelle di altri materiali riflettenti (ad esempio titanio, alluminio, calcite, persino polvere di diamanti). L’iniezione di aerosol stratosferico che utilizza i solfati, l'opzione più studiata, potrebbe causare la riduzione dello strato di ozono stratosferico e modificare i regimi pluviometrici e del vento nei tropici. Ciò potrebbe causare siccità in Africa e Asia e influenzare i monsoni, con gravi impatti ambientali, e mettere in pericolo la sicurezza alimentare e idrica di due miliardi di persone.

Brightening Cloud Marine 

I progetti MCB puntano ad aumentare il candore delle nuvole per riflettere più luce solare nello spazio. Come per altre proposte di SRM, la modifica delle radiazioni solari può avere un impatto sulle condizioni atmosferiche e sugli ecosistemi marini e costieri e sull'agricoltura.

Piantagioni ad alto albedo e taglio delle foreste in aree innevate

Alcuni studiosi ritengono che le piantagioni in fase di crescita che riflettono più luce (sia nuove piantagioni con genotipi geneticamente modificate sia varietà ad alto albedo di piantagioni esistenti) potrebbero raffreddare l'atmosfera riflettendo più radiazione solare nello spazio. Altri suggeriscono di tagliare le foreste in aree coperte di neve per gran parte dell'anno. La superficie innevata più liscia e luminosa che ne deriverebbe potrebbe aumentare la quantità di luce riflessa nello spazio. L'utilizzo di specie arboree geneticamente modificate per aumentare l’albedo comporta una serie di impatti sulla bio-sicurezza e l’utilizzo di queste piantagioni potrebbe aumentare l'erosione del suolo e l'uso massiccio di fertilizzanti e pesticidi. Il taglio delle foreste per creare bianchi deserti avrebbe effetti negativi sulla biodiversità e sul clima.

Diradamento dei cirri

Riducendo la densità dei cirri (nubi di alta quota, sottili e sparse), alcuni ricercatori ritengono che più calore possa essere ri-emesso nello spazio, creando un raffreddamento del clima. Questa idea potrebbe avere anche effetti opposti, poiché ci sono molte rebus sulla formazione e sulla chimica delle nubi, con effetti potenzialmente imprevedibili.

Micro-bolle e schiume di mare

Allo scopo di aumentare la riflessività della superficie degli oceani (o altri corpi d'acqua) alcuni propongono di creare micro-bolle o schiume attraverso lo spargimento di agenti schiumogeni sulla superficie dell'acqua. Oltre a ostruire il flusso di luce per la vita degli oceani, le schiume possono anche ridurre l'ossigeno negli strati superiori dell'oceano, agendo negativamente sulla biodiversità.

La manipolazione del tempo

La manipolazione del tempo (WM) si riferisce a varie tecniche – tra cui l’inseminazione delle nuvole con sali per provocare precipitazioni – per il cambiamento dei regimi meteo, senza tuttavia cambiare i regimi climatici generali. Le attività WM, dove sono state attuate, hanno spesso causato siccità e/o inondazioni di colture. Ritenendo che le attività WM abbiano solo impatti locali o regionali, esse non sono considerate tra le tecniche di geoengineering.

Il limite dell'ingegneria climatica: curare i sintomi e non le cause

La quasi totalità delle tecniche e tecnologie di geoengineering è ancora alle prime fasi di sviluppo, molto spesso allo stadio di modellizzazione o addirittura di proposta, ma ha già aperto molte sfide concrete, che riguardano prima di tutto l'etica e la governance. Con il progressivo aumento delle temperature, come ci dice il rapporto UNEP citato sopra, ci stiamo imprudentemente allontanando dalla traiettoria di decarbonizzazione disegnata dall’Accordo di Parigi. In questo scenario l’ingegneria la geoingegneria sta guadagnando credito politico, proponendosi come un’opzione decisiva in attesa di soluzioni radicali alle emissioni di gas-serra da fonti fossili di energia. Un’opportunità irrinunciabile per l'industria del fossile, in particolare di quella sua frazione incapace di produrre percorsi di ristrutturazione industriale in risposta alla crisi climatica. Da anni alla disperata ricerca di soluzioni per tutelare i circa 55 miliardi di dollari di infrastrutture installate e un dote in riserve fossili che vale almeno 20 mila miliardi di dollari, che potrebbero rimanere nelle cavità geologiche in cui sono state per milioni di anni, l’industria del fossile trova nella geoingegneria un alleato chiave per indebolire la volontà politica di mitigazione dell’effetto serra e di decarbonizzazione.

Il problema è che la geoingegneria non affronta alla radice le cause primarie del cambiamento climatico, ma punta solo a contrastarne i sintomi. I consumi delle fonti fossili di energia e di cemento e l’uso crescente delle risorse naturali, la deforestazione, l’agricoltura insostenibile e i cambiamenti di uso del suolo continueranno a non essere influenzati dalla geoingegneria.

Un’altra considerazione riguarda il fatto che il geoengineering, per definizione, mira a modificare intenzionalmente alcuni processi planetari, come il ciclo del carbonio e il ciclo dell’acqua, e ha una dimensione transfrontaliera. E poiché conosciamo ancora poco sul funzionamento dei sistemi planetari, nel suo insieme e in tutti i suoi sotto-sistemi, esiste l’eventualità che un Paese possa provocare con la geoingegneria effetti indesiderabili (anche intenzionalmente) sul clima, peggiori dei rimedi, al di fuori dei propri confini.

Di fronte a questi rischi, non è al momento chiaro chi e come potrà governare la ricerca e il potenziale dispiegamento di tecniche e tecnologie di geoengineering. La UK Royal Society, l'Unione Europea e l'Accademia Nazionale delle Scienze USA hanno riconosciuto l’occorrenza di una governance e d’un approccio strategico alle politiche di geoengineering climatica. Finora, però, i governi e le istituzioni intergovernativi hanno largamente ignorato le loro raccomandazioni. Con qualche eccezione. La questione della geoingegneria è entrata nel dibattito scientifico e negoziale della Convenzione sulla Diversità Biologica, dove sono state approvate alcune decisioni che sono servite a costruire quadri normativi per governare l'uso del geoengineering. Gli emendamenti al Protocollo di Londra (il trattato internazionale entrato in vigore nel 2006 per proteggere attraverso un sistema efficace di controlli l'ambiente marino dall'inquinamento causato dal dumping di rifiuti e altre sostanze), per esempio, hanno affrontato il geoengineering marino in un quadro di gestione dei rischi. Questi approcci possono essere costruiti e collegati ad altri processi intergovernativi rilevanti per governare queste tecnologie emergenti.

Un contesto efficace di governance globale è necessario anche per ridurre il rischio dello sviluppo unilaterale di tecniche e tecnologie geoingegneristiche da parte di un singolo Paese, o di un piccolo gruppo di Paesi, o di una singola impresa. Gli impatti reali o percepiti di diffusione potrebbero destabilizzare ulteriormente un mondo già in uno stato di crisi. La comunità internazionale sta già attraversando rapide trasformazioni e pericolose instabilità e si sta avviando verso un futuro sempre più rischioso e non è preparato ad affrontare le sfide istituzionali e di governo imposte da queste tecnologie. La geoengineering ha conseguenze globali e deve quindi essere discussa dai governi nazionali nelle istituzioni intergovernative, tra cui le Nazioni Unite. La comunità scientifica ha già affrontato e continua ad affrontare molte di queste questioni, viceversa la comunità politica globale non lo ha concretamente fatto e le società sono poco informate.

È giunto il momento che i governi di tutto il mondo valutino attentamente e concretamente il contributo della geoingegneria nel raggiungimento degli obiettivi dell'Accordo di Parigi e dei potenziali vantaggi che possono fornire ai settori economici e alle società in generale, anche in confronto ad interventi in altri ambiti.

Gli interventi di mitigazione e di adattamenti ai cambiamenti climatici basati sugli sistemi terrestri (definti a seconda dei casi e delle preferenze come ecosystem-based, o land based, o nature based, hanno un ruolo chiave nelle strategie di lotta ai cambiamenti climatici, come dimostra la valanga di evidenza scientifica e operativa delle attività di forestazione, gestione sostenibile dei suoli agricoli, di conservazione delle foreste, di restauro ambientale. Tutti interventi che, se ben fatti, hanno il vantaggio di migliorare qualità dell'acqua, la sicurezza alimentare e nutrizionale, il paesaggio, di creare nuovi posti di lavoro e contrastare l’esodo delle aree rurali.

 


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