Lo studio di Neil Ferguson di Imperial College e colleghi, basato anche sui drammatici dati italiani e rivolto ai governi del Regno unito e degli Stati Uniti, ipotizza uno scenario di “quarantena di massa” molto esteso nel tempo per fronteggiare l’epidemia montante di COVID-19. Abbiamo riassunto lo studio e chiesto ad alcuni esperti italiani il loro parere, nello stile del Science media center britannico (1), sperando di contribuire a un dibattito approfondito su misure che potrebbero riguardare anche il nostro Paese.
Avete capito bene. Secondo uno studio, condotto su dati in UK and USA, reso noto ieri e firmato dal noto epidemiologo dell’Imperial College Neil Ferguson, per evitare il peggio la soluzione più efficace potrebbe essere quella di proseguire con un isolamento collettivo fino a luglio. Poi interromperlo per un mese. Quindi riprenderlo per due mesi. Poi interromperlo per un altro mese. Poi riprenderlo di nuovo per due mesi. E così via fino - poniamo - fine 2021. Chiamiamola fra di noi “quarantena yo-yo”.
Un scelta durissima, su cui peraltro si hanno dubbi sulla tenuta, economica e psicologica. ma che fiaccherebbe l’epidemia fino a estinguerla, con l’aiuto di un vaccino che sperabilmente potrebbe essere pronto per quella data.
La ricerca di Ferguson riguarda la situazione britannica e statunitense. Ma, come scrive nell’articolo, può valere per gli altri paesi sviluppati. La quarantena yo-yo è solo uno degli scenari che team di Ferguson ha prefigurato su dati inglesi e americani.
Il primo scenario, presentato all’inizio da Boris Johnson e dai suo consiglieri, prevede in realtà una “mitigazione”. Invece di prendere di petto l’epidemia con una serrata, proviamo a isolare i positivi, mettere in quarantena per 14 giorni i contatti, tenere a casa gli anziani, vero bersaglio del coronavirus, e nel caso chiudere scuole e università. La prima proposta inglese, insomma. Questa soluzione non vieta da subito eventi di massa (secondo loro poco di impatto per la trasmissione a causa della loro breve durata) e lascia circolare il virus, ma con protezioni attive per i più fragili e una attenzione particolare alla trasmissione che avviene soprattutto in piccoli gruppi, come le famiglie. Lo scenario mitiga appunto l’ascesa dell’epidemia, consente al sistema sanitario di preparare la risposta, comunque insufficiente in termini di posti letto ordinari e di terapia intensiva per reggere tutto l’urto, e nel frattempo induce una immunità diffusa, almeno all’inizio protettiva. Si tratta ovviamente di uno scenario molto teorico e che lo studioso non raccomanda, poiché costerebbe 260.000 morti in UK e più di un milione negli Stati Uniti, e che tiene conto anche della capacità di assorbimento delle terapie intensive alla luce dei drammatici dati lombardi descritti in un articolo su JAMA (16% degli ospedalizzati sono finiti in terapia intensiva).
Più accettabile è lo scenario il cui obiettivo non è la mitigazione ma la “soppressione” della circolazione virale: chiudere tutto come in Cina e come più blandamente in Italia. Se la soppressione ha effetto, tuttavia, una volta smesse le misure di blocco si rischia la reintroduzione della pandemia e la ripartenza dei problemi, per cui le misure andrebbero tenute fino all’arrivo di un vaccino. Teoricamente per 18 mesi. Capite anche voi che stare in casa e tenere fermo il Paese per un anno e mezzo, con tutta la buona volontà, è impossibile e suicida dal punto di vista economico. Per questo l’ulteriore ipotesi è la quarantena di massa yo-yo. Un po’ sì, un po’ no. Più precisamente, si può pensare a chiusure intermittenti messe in campo ogni volta che certi indicatori, come le ammissioni in terapia intensiva, superano la soglia. Per la situazione britannica il gruppo di Ferguson ipotizza vari scenari, il più plausibile dei quali ad esempio è di entrare in ‘quarantena di massa’ quando si superano le ammissioni di 200 persone in terapia intensiva e uscirne quando le ammissioni calano a 50. In questo modo si otterrebbe il minimo danno (comunque decine di migliaia di morti soprattutto fra fragili e anziani) e il massimo possibile di accettabilità sociale. (luca carra)
Reazioni e commenti
“Il documento è una esortazione per tutti noi. Ci forza a considerare l ‘epidemia nella sua lunga durata e ci stimola a offrire un panorama di scelte per una valutazione di tipo etico, sociale, economico, e alla fine di salute di popolazione. Si tratta di una sfida anche per l’epidemiologia, in grado di integrare le discipline necessarie (da quelle sociologiche sulle reti sociali a quelle economiche e computazionali sui rischi per l’individuo e la collettività). D’altra parte, nel nostro mestiere quante volte abbiamo fatto ad una valutazione integrata dell’impatto sanitario utilizzando le metodologie dell’Health Impact Assessment. È chiaro che lo “yo-yo” presuppone una valutazione, variabile nel tempo, dell’andamento epidemico (un sistema informativo sull’incidenza -infetti e loro contatti- e sulla prevalenza di infezione), sulla stratificazione della popolazione a rischio (a seconda del social network di quel momento), sulla disponibilità delle strutture assistenziali, e sulla incertezza relativa a tutti i parametri che entrano in gioco. Insomma, uno “yo-yo” che per essere gestito ha bisogno di una grande capacità di governo, di sistemi informativi innovativi (nell’era del big data), di una grande capacità comunicativa e di una non scontata accettabilità sociale. Sono ingredienti che occorre costruire e su cui bisogna riflettere subito. Questa epidemia ci impone un balzo in avanti nella nostra capacità di misurare, analizzare, valutare, predire, e riflettere criticamente sul nostro lavoro”.
Francesco Forastiere, CNR-Irib, Palermo e King's College, Londra.
"Per ora ci si sta occupando quasi esclusivamente dei danni diretti dell'epidemia in termini di malati, di decessi e di carico per il servizio sanitario, ma occorrerà velocemente valutare in modo strutturato l'impatto sulla cura e la prevenzione di tutte le altre malattie, infettive e non trasmissibili, sia tumorali che non. Penso che ci sia bisogno di un enorme sforzo di pianificazione per organizzare il servizio sanitario già oggi sotto stress che si avvii ad una quarantena a intermittenza di lungo periodo. In termini esemplificativi, se il rischio per il rinvio di un mese di un ago aspirato tiroideo o di una biopsia per sospetto carcinoma prostatico può essere accettabile, occorre organizzarsi perché i tempi non si protraggano sine die. Ugualmente importante sarà la capacità di risposta del servizio socio-sanitario a livello territoriale, anche sul piano psicologico, per aiutare con equità famiglie e singoli in una sfida sanitaria senza precedenti."
Fabrizio Bianchi, IFC, Consiglio nazionale delle ricerche, Pisa.
“In queste situazioni di emergenza si devono rispettare esigenze drammaticamente contrastanti: 1. Avere una cabina di regia unica sul piano decisionale (è discutibile che le Regioni assumano iniziative autonome, come sui tamponi); 2. Analizzare tempestivamente i dati man mano che giungono e correggere le decisioni sulla base di dati scientifici solidi; 3. Garantire un processo partecipativo in cui la popolazione comprende le scelte fatte. Raramente queste tre esigenze riescono a coincidere. La ricerca scientifica mira a ridurre i margini di incertezza anche sul piano decisionale, cosa che i rapporti di Ferguson cercano di fare passando dal “worst case scenario” di 2 settimane fa a scenari più articolati. Ora in Italia si avverte la necessità di un’unica cabina di regia che chiarisca come si passa dalle stime matematiche basate su modelli (che inizialmente usavano solo i dati cinesi) agli scenari e poi alla decisione politica. È importante che si coordini l’interpretazione delle analisi e anche commissionare di nuove ricerche. Per esempio, adesso è importante conoscere la sensibilità e specificità di diversi metodi per testare la popolazione (PCR o anticorpi, di cui si nizia a parlare), e sviluppare algoritmi clinici predittivi del ricorso a terapie intensive e degli esiti”.
Paolo Vineis, Imperial College, Londra.
“L’articolo di Ferguson mette finalmente sul tavolo le carte dei modellisti britannici e ci offre scenari ben diversi da quanto prospettato finora dalle Autorità britanniche. Viene introdotto per la prima volta il concetto di “soppressione” della circolazione virale, che finora non era mai stato presente nei piani pandemici, che danno per scontato che da una pandemia non si scappa e al massimo si può “mitigare”. Il lavoro dimostra che un efficace distanziamento sociale, come quello che si tenta di realizzare in Italia, è in grado di interrompere la trasmissione locale, e questo riconosce la validità della nostra scelta. Tuttavia sottolinea come tale intervento, anche drastico, non possa bloccare la reintroduzione dell’infezione. Tale rischio è elevato per Paesi come UK e USA. E allora dopo il distanziamento bisogna di nuovo prevedere interventi di “contenimento” dei casi come e anche meglio di quanto fatto all’inizio: ossia sorveglianza epidemiologica molto sensibile, identificazione e isolamento degli infetti e dei loro contatti. La proposta yo-yo è teorica e l’analisi presenta scenari senza analisi di sensibilità sui valori dei parametri utilizzati per UK e USA. Come cambiano gli scenari se si usano le matrici di contatto interpersonale italiane? L’articolo citato da Ferguson in merito, per i dati UK, contiene anche i dati italiani, raccolti a suo tempo con una ricerca collaborativa europea (tanto per ricordare che non partiamo da zero). Nel tempo che la pandemia circola, creando un gran numero di infetti, si formano gruppi di persone immuni? Come alterano il corso successivo? Il lavoro presentato è senz’altro utile alla discussione generale ed è una chiamata ad attrezzarci ad affrontare il “dopo-isolamento”, ma per descrivere scenari italiani deve essere adeguato al nostro contesto. Sarebbe utile avere dai modellisti italiani qualche indicazione e commento sulle opzioni di strade che dovremo scegliere di percorrere”.
Stefania Salmaso, già direttore Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute, Istituto superiore di sanità.
"Il lavoro di Neil Ferguson (che – così va la sorte - attualmente è positivo al Covid-19, con sintomi) serve a mettere in prospettiva due aspetti che sono in questi ultimi giorni al centro dell’attenzione sia dei tecnici che dei cittadini: il “picco” dei nuovi casi e su chi debbano essere preferenzialmente praticati i test per il Covid-19, ovviamente non illimitati in numero. Il picco, cioè il numero massimo di nuovi casi giornalieri, è rilevante per due ragioni: una materiale perché permetterà di anticipare per i giorni successivi dei numeri non più crescenti di casi da trattare e di formulare ipotesi di velocità di decrescita, probabilmente diverse, come lo stesso tempo del picco, da regione a regione . La seconda ragione, non meno importante, è psicologica: per il personale sanitario che si batte in prima linea spesso fino allo stremo delle forze come per tutti I cittadini, è un vedere la luce in fondo al tunnel, il segnale che l’epidemia può essere sconfitta. Il tunnel, però, come si evidenzia dal lavoro di Ferguson, può essere molto lungo: seguire la reazione spontanea di abbandonare dopo il picco le misure restrittive attuali, da praticare con rigore, vorrebbe dire vanificarle completamente. Programmarne la continuazione certamente fino alla fine di aprile e discuterne la possibiltà di prolungarle alla luce dell’aggiornamento dei dati e analisi epidemiologiche, economiche e sociali italiane è già da oggi imperativo. Tra i dati italiani è sicuramente necessaria la frequenza di asintomatici, il cui ruolo dominante nella propagazione del virus appare emergere da un recentissimo lavoro (R. Li et al., Science 10.1126/science.abb3221 (2020) ) condotto su dati della Cina. Se questi risultati si considerano estrapolabili, c’è una conseguenza immediata: la necessità di testare il personale sanitario e non solo perchè è già di per sé una doverosa priorità (spesso sembra non esserlo o poterlo essere nei fatti) ma per il ruolo che il personale asintomatico può avere nel propagare l’epidemia. C’è, inoltre, una conseguenza meno immediata: il monitoraggio della diffusione del virus nella popolazione richiede di esaminare con dei test la popolazione apparentemente indenne dal virus . Per questo non è necessario porsi, come è sembrato da alcune discussioni dei giorni scorsi in termini di “screening”, nell’alternativa o tutta la popolazione (irrealistico rispetto alle risorse) o nessuno salvo pazienti di diversa gravità (dannoso perché fa mancare informazioni indispensabili): è sufficiente esaminare, e se possibile riesaminare dopo un intervallo di tempo, uno o più campioni casuali (stratificati per età e sesso) della popolazione, di qualche centinaio o migliaio di persone. Il cammino per battere il virus è ancora lungo, ma cominciano a intravedersi, anche sullo sfondo della ricerca in campo terapeutico e dei vaccini, i passi di cui potrà essere costituito".
Rodolfo Saracci, già presidente, International Epidemiological Association, Lione, Francia.
Nota
1. Science media center UK: expert reaction to MRC Centre for Global Infectious Disease Analysis Report 9: Impact of non-pharmaceutical interventions (NPIs) to reduce COVID-19 mortality and healthcare demand.)