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Inquinamento e Covid: due vaghi indizi non fanno una prova

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Di nuovo in questi giorni numerosi giornali e televisioni (oltre ovviamente al web) stanno dando spazio ad un comunicato della SIMA (Società Italiana di Medicina Ambientale) che annuncia importanti scoperte sul particolato e il virus, descrivendole persino come importanti per le decisioni che andranno prese nelle prossime settimane.

Dispiace di dover rilevare come, anche questa volta, le “scoperte” descritte nei comunicati sono vaghi indizi, del tutto preliminari, ad oggi non ancora soggetti alla peer-review degli esperti del settore [1]; e le conclusioni sono un mix di confusione e wishful thinking.

Il primo vago indizio e l’evidente correlazione che non esisteva 

Il primo episodio è stato quello del position paper della SIMA pubblicato sul sito web della SIMA a metà marzo [2], in cui gli autori hanno proposto l’esistenza di una relazione diretta tra “tra il numero di casi di COVID-19 e lo stato di inquinamento da PM10 dei territori”, sostenendo quindi che una elevata concentrazione di PM10 in atmosfera possa essere un “amplificatore” della diffusione del Coronavirus (e non - si badi bene - dei suoi effetti, ad esempio una maggiore mortalità). La prova sarebbe una “correlazione forte” che gli autori avrebbero trovato fra il numero dei superamenti del limite giornaliero delle concentrazioni di PM10 e il numero di contagiati [3]. Il position paper della SIMA si spinge addirittura a ipotizzare che mentre nelle regioni meridionali italiane (meno inquinate) il modello prevalente di trasmissione virale avviene per contatto fra persone, nelle regioni del Nord Italia maggiormente inquinate a questa modalità si aggiungerebbe l’infezione attraverso il contatto con il “particolato infetto”, riesumando in questo modo l’antica teoria dei miasmi, usata per spiegare la peste in epoca pre-scientifica.

Al di là della solidità fenomenologica della teoria proposta per spiegare il meccanismo di trasporto del Coronavirus da parte del particolato, la teoria non ha alcun sostegno dei dati, contrariamente a quanto affermato. E alcune scelte fatte dagli autori nella scelta dei dati utilizzati per la “correlazione” sono quantomeno molto discutibili, come illustrato in Appendice

L’ipotesi che il particolato atmosferico possa agire come substrato carrier per il trasporto del virus aumentando così il ritmo del contagio è stata contestata da 70 esperti della Società italiana di Aerosol (IAS), che in una nota [4] hanno espresso molte perplessità e ricordato come la correlazione fra condizioni di scarsa circolazione atmosferica, formazione di aerosol secondario, accumulo di PM in prossimità del suolo e diffusione del virus non deve essere scambiata per un rapporto di causa-effetto.[5] Di simile opinione il Position paper della Rete Italiana Ambiente e Salute che raccoglie istituzioni del Servizio Sanitario Nazionale e del Sistema Nazionale di Protezione Ambientale.[6] 

In conclusione: il position paper non conteneva alcuna prova, ma avanzava una teoria supportandola con elaborazioni molto discutibili. 

Il vago indizio spopola nei media 

Uno studio preliminare, non ancora pubblicato su riviste scientifiche, e non soggetto ad alcuna peer review di soggetti esterni, rimane solitamente riservato agli autori o a pochi addetti del settore. In un momento delicato come quello di un’epidemia, questa regola dovrebbe ancora di più essere rispettata. Invece gli autori hanno proposto il loro studio in decine di interviste a giornali, radio e televisioni. In queste interviste hanno spesso spiegato che si trattava di risultati preliminari, ma di fatto, come era legittimo aspettarsi, è passato molto spesso il messaggio che – pur se non ci sono tutte le prove - il particolato trasporta il virus. Gli autori si sono giustificati affermando di aver “badato bene a spiegare ai giornalisti che era uno studio preliminare” [7], per cui la colpa sarebbe dei giornalisti; tuttavia, se tutti i giornalisti travisano, significa che il modo in cui è stata comunicata la notizia era inadeguato.

Contrariamente a quanto succede con i rapporti IPCC, in cui le ipotesi di rilevanza per i decisori politici sono accuratamente ancorate a un giudizio sulla loro incertezza, con specifiche linee guida per distinguere fra “probabile”, “molto probabile” ed “estremamente probabile”, gli autori hanno scritto genericamente “Si evidenzia come la specificità della velocità di incremento dei casi di contagio che ha interessato in particolare alcune zone del Nord Italia potrebbe essere legata alle condizioni di inquinamento da particolato atmosferico che ha esercitato un’azione di carrier e di boost”. L’uso del termine “potrebbe” è molto, troppo generico. Ci sono tante, troppe cose che potrebbero essere. Il lavoro degli scienziati, in particolare durante un’epidemia, dovrebbe essere quello di distinguere con accuratezza le ipotesi speculative, non ancora dimostrate, dai fatti: altrimenti si finisce per contribuire alla confusione della comunicazione, inevitabilmente esistente in materie complesse.

Il secondo vago indizio e il virus che c’è e non c’è

Il secondo caso è quello del Comunicato stampa del 24 aprile “Presenza di Coronavirus sul particolato atmosferico: possibile “indicatore” precoce di future recidive dell’epidemia da COVID-19”, che si basa, anche in questa circostanza, su un lavoro non pubblicato [8].

Qui gli stessi autori del position paper annunciano di aver trovato tracce di RNA virale SARS-CoV-2 nel PM10 atmosferico prelevato in alcune zone di Bergamo e si spingono a ipotizzare l’uso di questa scoperta come importante ai fini delle misure di gestione della fase 2 dell’epidemia COVID-19.

Ma cosa hanno davvero scoperto? Pur se la ricerca non ha ancora superato la peer review e non è ancora stata pubblicata su una rivista scientifica, dalle informazioni preliminari si può desumere che sono stati effettuati dei campionamenti di aria ambientale: in questi campioni, che ovviamente contengono del particolato sospeso in atmosfera, non è “stato rilevato il virus”, ma solo tracce del suo RNA.[9]

La presenza di tracce di virus nel particolato non è affatto una novità, visto che si studiano anche le tracce di virus di tanti millenni or sono presenti nelle carote di ghiaccio [10]. Ma, ovviamente, non si tratta di virus attivi, in grado di essere infettivi. Sono, appunto frammenti, tracce che possono indicare la presenza di virus infettante, ma non la dimostrano, come spiegato in seguito.

Quand’anche venisse confermata in altri studi la presenza di virus ancora attivi sul particolato, questo non comporterebbe la sua infettività. In prima battuta, perché dopo poche ore un virus, in assenza di un ospite da colonizzare e nelle cui cellule replicarsi, non può continuare ad esistere come entità biologica. In seconda battuta, per infettare non bastano uno o pochi virus… ma deve esserci una definita carica virale sotto la quale non vi è infezione, come ribadito in modo assai convincente su Nature dal virologo della Charitè di Berlino, Christian Drosten [11].

Proviamo a chiarire. Queste tracce (o “il tampone” di cui si parla quotidianamente) sono rilevate grazie ad una tecnologia definita polymerase chain reaction (PCR) (che valse il premio Nobel per la Chimica a Kary Mullis nel 1993), grazie alla quale un frammento di DNA può essere amplificato tendenzialmente all’infinito. È in sostanza l’equivalente di un microscopio elettronico che permette di vedere ciò che è invisibile a occhio nudo o con un microscopio ottico ancorché potente. Tuttavia, anche per la PCR, esiste una soglia nei cicli di amplificazione del genoma al di là della quale il segnale si confonde con l’inevitabile “rumore di fondo” per cui la presenza o meno del genoma cercato diventa negativa o indeterminata (nel caso il valore sia molto vicino al valore soglia). I valori riportati nel lavoro sono molto prossimi a questa soglia e decisamente al di sotto di quella indicata da Drosten come spartiacque d’infettività. Inoltre, non è stata eseguita una campionatura di controllo in una regione a bassa presenza di PM10, per esempio in montagna. 

Tornando alla presenza delle tracce di RNA sul particolato, gli autori si spingono a sostenere che queste tracce virali sarebbero comunque utili per monitorare l’evolversi dell’epidemia: “Questa prima prova apre la possibilità di testare la presenza del virus sul particolato atmosferico delle nostre città nei prossimi mesi come indicatore per rilevare precocemente la ricomparsa del coronavirus e adottare adeguate misure preventive prima dell'inizio di una nuova epidemia”.

In realtà, si legge nel comunicato che gli autori hanno trovato il virus in 8 dei 22 giorni presi in esame, mentre è certo dal dato dell’aumento dei positivi che in provincia di Bergamo nelle scorse settimane il virus c’è stato in modo continuo. Davvero siamo sicuri che sia una buona idea adottare un “metodo di rilevamento precoce” che non rileva il virus in due terzi dei casi?

Un altro disastro informativo  

Se si legge con attenzione il comunicato, si capisce che gli autori sanno bene che quanto trovato non fornisce alcuna prova a sostegno dell’ipotesi del particolato come booster delle infezioni di COVID-19, ma lo scrivono in modo ambiguo: “La prova che l’RNA del SARS-CoV-2 può essere presente sul particolato in aria ambiente non attesta ancora con certezza definitiva che vi sia una terza via di contagio”. Il problema non è che non esiste la “certezza definitiva”: non esiste una base minima per dimostrare la presenza del virus sulle particelle di polvere sospese in atmosfera e quindi, a maggior ragione, per stimare se ciò rappresenti una via di contagio di qualche importanza. 

La conseguenza è che, di nuovo, l’informazione veicolata dai media e dai social è che è stato trovato il virus nel particolato, e… questo studio conferma quanto ipotizzato il mese precedente dal position paper!

Dal testo del comunicato, sembra che gli autori non siano ancora in grado di valutare la vitalità e soprattutto la virulenza del SARS-CoV-2 che, secondo la loro posizione, sarebbe adeso al particolato: “Sono in corso ulteriori studi di conferma di queste prime prove sulla possibilità di considerare il PM come ‘carrier’ di nuclei contenenti goccioline virali, ricerche che dovranno spingersi fino a valutare la vitalità e soprattutto la virulenza del SARS-CoV-2 adeso al particolato”. In altre interviste [12], gli autori affermano che la loro ricerca non implica che le tracce di SARS-CoV-2 trovate sul particolato possano essere virulente o provocare infezioni, ma non è strano che a questa considerazione non sia stato dato molto peso. Anche perché la conclusione a cui arrivano gli autori è “occorre che si tenga conto nella cosiddetta Fase 2 della necessità di mantenere basse le emissioni di particolato per non rischiare di favorire la potenziale diffusione del virus”. E se non ci fosse alcun pericolo di infezione, questa conclusione sarebbe insensata.

Pur senza avere in mano alcuna nuova importante evidenza scientifica, gli autori si spingono a fornire indicazioni ai decisori politici, ad esempio scrivendo che lo studio “conferma l’importanza di un utilizzo generalizzato delle mascherine da parte di tutta la popolazione”.

Cosa vuol dire utilizzo generalizzato? Sembrerebbe sempre, ossia ogni volta che si esce da casa come imposto in Lombardia? Invece nel comunicato si scrive “Se tutti indossiamo le mascherine, la distanza inter-personale di 2 metri è da considerarsi ragionevolmente protettiva permettendo così alle persone di riprendere una vita sociale”. Ma allora, generalizzato o 2 metri?[13]  

Conclusione 

Di motivi per ridurre le emissioni di particolato, o di gas climalteranti, ce ne sono già fin troppi; a prescindere dall’epidemia di COVID-19 dobbiamo ridurre l’inquinamento dell’aria e contrastare drasticamente il riscaldamento globale. Non occorrono teorie - non ancora dimostrate - che mostrino altri possibili pericoli legati al particolato, e che rischiano di contribuire solo alla confusione nella comunicazione di materie complesse, in un momento in cui sarebbe più utile che gli scienziati parlassero in modo chiaro, responsabile ed efficace. Una raccomandazione utile in questa epidemia è piuttosto quella di stare all’aria aperta, perché non fa male, e se si sta in ambienti chiusi occorre far circolare l’aria aprendo le finestre [14].

 

Appendice

1. Lo “stato di inquinamento dell’aria da PM10” è descritto nel position paper con il numero medio di superamenti della soglia di 50 ug/m3 di PM10. È una scelta arbitraria e poco fondata: questa soglia è solo un riferimento normativo e la media delle concentrazioni di PM10 è maggiormente in grado di rappresentare la presenza di PM10 in atmosfera, e una sua ipotetica capacità di trasportare virus.

2. Anche la scelta del solo PM10 è arbitraria. Se il virus è trasportato da particelle fini, dovrebbe essere più significativo riferirsi al PM2.5. 

3. Gli autori propongo una relazione diretta fra la media dei superi della soglia di 50 ug/m3 di PM10 nel periodo 10-29 febbraio e i positivi Covid-19 del 3 marzo, usando i dati aggregati di 5 classi di province. Ma non dicono come hanno definito le 5 categorie di province.

4. L’uso di dati di PM10 medi di tante centraline in una provincia, e a maggior ragione di più province, ha poco senso. Ad esempio, se si considera la provincia di Lodi, i dati di Codogno, Bertonico e San Rocco al Porto (all’interno o vicine alla zona rossa focolaio) vengono necessariamente considerati insieme a quelli di Montanaso e Lodi (più lontane). Il numero di “contagiati” a Lodi il 3 marzo era di 38, rispetto ad esempio ai 97 di Codogno; significa che, per abitante residente, Codogno aveva 7 volte i “contagiati” di Lodi. Se si guardano i superamenti, si vede che Codogno ha 11 superamenti dei 50 ug/m3 nel periodo 10-29 febbraio, mentre Lodi-Vignati ne ha 9, solo perché in due giorni (11 e 14 febbraio) le concentrazioni di PM10 a Lodi sono state di 44 ug/m3, e a Codogno 51 e 57 ug/m3. La modesta differenza fra questi due valori di PM10, registrati 18 e 21 giorni prima del 3 marzo, può essere in “relazione diretta” con un valore di “contagi” 7 volte maggiore? Proprio no. 

5. La media dei superamenti è calcolata unendo i dati di molte province (quali di preciso non è spiegato nel position paper), quindi considerando centraline di tipo anche molto diverso, sia “da traffico” (che hanno valori più elevati) che “di fondo urbano” (che hanno generalmente valori più bassi). Metterle assieme non ha molto senso. Ad esempio Lodi-S. Alberto (stazione di fondo urbano) ha praticamente le stesse concentrazioni medie annue di PM10 di Bertonico e S.Rocco al Porto. 

6. La figura 1 del position paper è costruita correlando il numero medio dei superamenti nel periodo 10-29 febbraio con il logaritmo del totale degli “infetti da COVID-19” del 3 marzo, per provincia. Ma il numero degli “infetti” non lo conosce nessuno, è noto solo il numero di coloro che sono risultati positivi al tampone o ad altri sistemi di analisi. Il numero di tamponi eseguiti è stato molto diverso, a seconda della Provincia. Soprattutto nei primi giorni dell’epidemia, il numero di tamponi nella zona rossa lodigiana è stato molto alto: venivano eseguiti non solo ai sintomatici che richiedono cure (come ora), ma anche ai solo sintomatici e, nei primi giorni, anche a quelli che erano stati in contatto con i positivi. Poi si è smesso. Questo spiega, in parte, l’alto numero dei positivi nel lodigiano nei primi giorni, ma non è detto che in altre zone non ce ne fossero altrettanti (es. Bergamo). Per questo motivo, il numero degli infetti per provincia andrebbe considerato con molta cautela, in particolare per le prime settimane dell’epidemia.

7. Non sorprende, quindi, che se si prova a replicare la metodologia utilizzata nel position paper, applicandola a 7 province lombarde (Bg, Bs, Cr, Lo, Mi, Mn, Pv, Va), si trova una evidente assenza di correlazione. Nella figura seguente si mostra la chiara assenza di correlazione fra i superi della soglia di 50ug/m3 per PM10 10-29 febbraio e i positivi del 3 marzo. Sono province in cui i dati dei “contagi” sono un po’ più omogeni di quelli valutati dagli autori, in quanto sono i positivi sintomatici che hanno avuto accesso alle cure (rimane comunque il limite di quanto possano essere davvero rappresentativi del numero totale dei positivi, che comprendono anche i positivi asintomatici).

8. Anche se si considera la media delle concentrazioni di PM10, anziché il numero dei superamenti, non si trova alcuna correlazione.

9. La metodologia adottata per cercare la correlazione appare quindi molto discutibile, e si può sostenere con sicurezza che la “relazione diretta” proposta del position paper tra presenza di PM10 e diffusione del Coronavirus non ha alcun supporto nei dati. 

 

Note
1 Si noti che l’articolo Setti et al (2020) Is there a Plausible Role for Particulate Matter in the spreading of COVID-19 in Northern Italy? pubblicato sul British Medical Journal Rapid Responses,  è una comunicazione non soggetta a peer review (inviata fra l’altro come risposta ad un articolo che tratta un argomento poco congruente con l’oggetto della comunicazione). 
2 Setti L, Passarini F, de Gennaro G et al. (2020) “Relazione circa l'effetto dell'inquinamento da particolato atmosferico e la diffusione di virus nella popolazione”. Position paper Società italiana di medicina ambientale, Università degli Studi di Bologna e Università degli Studi di Bari
3 www.tg1.rai.it/dl/tg1/2010/edizioni/ContentSet-9b6e0cba-4bef-4aef-8cf0-9f7f665b7dfb-tg1.html?item=undefined, minuto 31.56
4 Contributo IAS alla discussione sulla relazione tra inquinamento da particolato atmosferico e diffusione del Covid-19 
5 È importante ricordare come non è difficile, elaborando opportunamente i dati, trovare correlazioni “spurie” fra diverse variabili, che non significano in alcun modo un legame di causalità, come è stato mostrato in modo molto chiaro e anche ironico da alcuni studiosi. Si veda ad esempio www.tylervigen.com/spurious-correlations
6 Rete Italiana Ambiente e Salute, Inquinamento atmosferico e Covid-19, Scienza in rete, 13 aprile 2020
7 Emanuele Bompan, Il coronavirus miete un'altra vittima eccellente: la comunicazione scientifica. Ecco gli errori da evitare, Il Fatto Quotidiano, 22 aprile 2020
8 Setti L, Passarini F, de Gennaro G et al. (2020) SARS-Cov-2 RNA Found on Particulate Matter of Bergamo in Northern Italy: First Preliminary Evidencemed. Rxiv preprint. doi: https://doi.org/10.1101/2020.04.15.20065995
9. Supponiamo, invece, che fossero state trovate grandi quantità di particelle infettanti (il che non è). Sappiamo che il virus, in presenza di individui infetti e contagiosi, viene veicolato in goccioline di dimensioni variabili fra alcuni decimi ed alcuni micron di diametro. Se effettuiamo un campionamento in queste condizioni, queste goccioline, che sono sospese in atmosfera, verranno certamente campionate anch’esse, perché fanno parte dell’aerosol atmosferico, così come ne fanno parte le polveri. Anche in queste condizioni estreme, tuttavia, questo non dimostra affatto che ci sia un legame fra polveri e goccioline contenenti il virus; dimostra soltanto che queste due categorie possono convivere in atmosfera e vengono entrambe raccolte quando si esegue un campionamento di aria.
10 Zhong ZP, Solonenko NE, Li YF et al. (2020) Glacier ice archives fifteen-thousand-year-old viruses. bioRvx
11 Wölfel R, Corman VM, Guggemos W et al. Virological assessment of hospitalized patients with COVID-2019. Nature (2020). doi: https://doi.org/10.1038/s41586-020-2196-x
12 Intervista a Radio Popolare del 24/4/2020, ore Gr 12.30.
13 Se si legge il titolo del sesto riferimento bibliografico si arriva ad un articolo pubblicato dagli stessi autori su Int. J. Environ. Res. Public Health: “Airborne Transmission Route of COVID-19: Why 2 Meters/6 Feet of Inter-Personal Distance Could Not Be Enough”. Tutto chiaro, no?
14 Floriano Bonifazi e Francesco Forastiere, Aprire le finestre in tempi di coronavirus, Scienza in rete, 12 marzo 2020
 

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