fbpx Novità positive su Remdesivir e altri farmaci | Scienza in rete

Novità positive su Remdesivir e altri farmaci

L'FDA ha approvato il Remdesivir per la terapia dei pazienti con Covid-19: si tratta di un farmaco che impedisce la replicazione del virus, e i trial in corso sono una decina. Il Remdesivir non è, comunque, l'unico farmaco che può aiutarci contro Covid-19, come spiegano Enrico Bucci ed Ernesto Carafoli in quest'articolo, e lo stesso Remdesivir potrebbe essere sostituito da un farmaco che agisce in modo analogo ma, da studi condotti sui topi, sembra essere ancora più potente.
Crediti immagine: Anna Shvets/Pexels. Licenza: Pexels License

Tempo di lettura: 7 mins

Possiamo dirlo? Era ora: qualche giorno fa la notizia è finalmente arrivata con tutti i crismi dell’ufficialità, e con il fragore internazionale che si meritava: il Remdesivir mostra attività interessante e utile, ed è ora il primo farmaco anti-Covid-19 ufficialmente approvato da FDA. Ne siamo contenti, avendo suggerito a più riprese le potenzialità di questo farmaco (vedi articoli in fondo). Ma lasciamo perdere ed entriamo in medias res, prima sul Remdesivir, e poi brevemente sui tanti altri farmaci allo studio che - noi ne siamo convinti - proveranno la loro attività contro Covid-19 ben prima dell’arrivo del vaccino.

Il vaccino non è dietro l’angolo

Per evitare equivoci, una breve premessa è però necessaria: un vaccino efficace, tipo, per intenderci, il vaccino antipoliomielite, sarebbe ovviamente la panacea definitiva che segnerebbe la fine del pericolo COvid-19. Noi ci auguriamo fortissimamente che un vaccino di questo tipo possa essere prodotto, ma ci corre l’obbligo di precisare un paio di cose. Non è purtroppo affatto detto che un vaccino anti Covid-19 possa essere trovato - HIV docet - e sarebbe responsabile dirlo; cosa che quasi mai abbiamo sentito dichiarare nel mare di comparsate televisive degli ultimi mesi.

E comunque, sul vaccino è assolutamente necessario dire la verità, e cioè che il suo sviluppo sino a uno stadio usabile universalmente richiede, a essere ottimisti e salvo molto improbabili sorprese, almeno due anni. Occorre quindi smetterla con le dichiarazioni mirabolanti e spesso irresponsabili, che promettono il vaccino nel giro di pochi mesi.

Come agisce il Remdesivir

Detto questo, torniamo al Remdesivir: era chiaro sin da febbraio che il Remdesivir era in grado di aggredire e debellare specificamente il Covid-19. Il primo caso statunitense, un trentacinquenne di Seattle a cui era stata diagnosticata l’infezione da Covid-19 già alla fine di gennaio, era stato guarito in sei giorni dal Remdesivir: la descrizione del caso, uscita sul New England Journal of Medicine, è impeccabile, e avrebbe dovuto avere ben più attenzione. Qui è però doveroso un commento: i risultati del trial randomizzato (su più di 1000 pazienti) che sta facendo tanto rumore dimostrano che il Remdesivir diminuisce di circa il 30% il tempo necessario alla guarigione, e diminuisce, per quanto appena sopra al limite convenzionale di significatività, il numero dei decessi. Questi sono risultati di grande importanza, ma è chiaro che il Remdesivir non è la medicina-miracolo che, da sola, risolve il problema Covid-19. Occorrerà valutare una serie di fattori, a incominciare dallo stadio della malattia in cui è applicato, per finire alla sua combinazione con altri farmaci.

E c’è anche un altro punto: il Remdesivir è un analogo nucleotidico che inibisce la RNA polimerasi del coronavirus, impedendone quindi la replicazione. Interagisce con un sito della polimerasi che è pericolosamente vicino alla regione in cui si sono trovate mutazioni che potrebbero impedirne l’azione. Fortunatamente, qui abbiamo però quella che si può - con metafora irriverente - definire una “ruota di scorta”: un altro analogo nucleotidico (definito dall’acronimo NHC) inibisce con potenza addirittura aumentata il virus la cui polimerasi è stata mutata per renderlo resistente al Remdesivir. Il nuovo analogo è stato sinora provato con successo sui topi, ma potrebbe divenire un presidio importante nelle terapie mirate all’inibizione della polimerasi.

I trial randomizzati ora in corso che hanno come oggetto il Remdesivir sono una decina, ma è probabile che ve ne saranno presto altri, a partire da quelli sull’analogo NHC, i quali aggiungeranno altri proiettili mirati al bersaglio della polimerasi del coronavirus.

La RNA polimerasi, però, è solo uno dei bersagli possibili. Ve ne sono altri che contemplano meccanismi d’azione molto interessanti e promettenti, e ne abbiamo ripetutamente scritto.

Altri farmaci per il trattamento di Covid-19

Oggi, come era necessario dopo che il Remdesivir, ha, per così dire, rotto il ghiaccio, è sul Remdesivir che abbiamo deciso di concentrarci; ma, anche solo per completezza, accenniamo ancora una volta, agli altri farmaci che sono oggetto di trial randomizzati già in stadio avanzato. Lo facciamo perché si hanno maggiori informazioni e perché sono stati già usati in sperimentazione clinica. Dunque vi sono fra gli altri:

1) gli inibitori delle proteasi della cellula ospite, che sono necessarie per il priming della proteina spike del virus in modo da consentirle di interagire con il recettore ACE 2 della cellula bersaglio e di promuovere l’ingresso del virus nella cellula: il camostat desilato e il nafamostat desilato (già approvati in Giappone per la terapia delle pancreatiti) inibiscono la proteasi TMPRSS2 , e impediscono la penetrazione del virus nella cellula bersaglio. Sono ora oggetto di due trial randomizzati (più un terzo al momento non ancora registrato)

2) Il Tocilizumab, un anticorpo monoclonale che agisce contro l’interleuchina 6 e contro la tempesta citochinica che la sua produzione eccessiva innesca. Trial clinici, anche in Italia, ne hanno dimostrato gli effetti positivi, e sono ora in corso almeno 16 trial randomizzati. Inoltre, altri anticorpi monoclonali che hanno come bersaglio la stessa o altre interleuchine sono anch'essi entrati in sperimentazione clinica

3) La clorochina e l’idrossiclorochina, farmaci antimalarici usati da tempo anche nella terapia di sindromi autoimmuni come l’artrite reumatoide, il lupus eritematoso, e la sindrome di Siogren: sono probabilmente i presidi più usati nella terapia anti-Covid19. Ospedali e medici coinvolti nel trattamento di pazienti Covid-19 ne fanno uso e descrivono frequentemente effetti positivi. Trial ufficiali randomizzati su larga scala e in cieco, però, non sono stati ancora completati, e questa è forse una ragione delle critiche che invariabilmente vengono rivolte, nelle dichiarazioni ufficiali, ai due farmaci.
L’impressione che se ne ricava è che vi sia, tuttavia, qualcosa di più, come una sorta di pregiudizio che spinge anche i ricercatori a schierarsi in tifoserie pro o contro questi farmaci. Da parte “ufficiale”, si osserva spesso un proliferare di discussioni contro la clorochina e l’idrossiclorochina, mentre viceversa alcuni ricercatori brandiscono la clorochina come il farmaco salvavita che ci salverà dalla pandemia. Noi crediamo che questo sia anche legato da una parte alle dichiarazioni iper-entusiastiche di un importante leader politico sicuramente non nelle grazie della comunicazione occidentale, così come, dall’altra parte, alle dichiarazioni di uno scienziato francese che ha perso da tempo la sua credibilità. Ora, finalmente, una trentina di trial randomizzati internazionali su questi due farmaci sono in corso, e ne conosceremo a breve i risultati. Non si può comunque negare l’interesse per il loro meccanismo d’azione: aumentano il pH acido endosomiale, che è essenziale per il riciclaggio di proteine/membrane alla membrana plasmatica, e quindi ostacolano la fusione del virus con la membrana plasmatica stessa. Inoltre, interferiscono anche con la glicosilazione del recettore ACE 2 e della proteina spike del virus, ostacolando l’ingresso del virus nelle cellule bersaglio. Per finire, sono attivi in saggi in vitro contro il virus a concentrazioni accettabili per l’uso clinico

4) Gli anticorpi monoclonali contro il virus, che sono stati isolati sia da pazienti (in Cina) che da ibridomi murini, sembrano un’altra strada promettente: tuttavia, per questi valgono gli stessi caveat sui vaccini circa la capacità del virus di mutare. Il plasma iperimmune, una strategia più datata e in qualche modo imparentata, dato che utilizza l’intero pool anticorpale di pazienti convalescenti o guariti, è pure una possibilità terapeutica interessante, sulla quale si aspettano dati precisi a breve, dopo quelli preliminari diffusi da studi cinesi fin da febbraio su riviste anche prestigiose; rimane il fatto, tuttavia, che l’utilizzo del plasma è una strategia limitata nella disponibilità della materia prima, al contrario dei più moderni anticorpi monoclonali, ed è una strategia che, come sottolineato persino da AVIS, non è scevra di ostacoli di varia natura

5) L’ultimo farmaco giunto sulla scena del Covid-19 che vale la pena di citare è l’Ivermectina: un antiparassitario noto per la sua attività antivirale a largo spettro usato anche in terapia umana per affezioni dermatologiche. Un interessante studio australiano ha dimostrato che la sua aggiunta a cellule infettate con SARS_CoV-2 riduce in 48 ore il livello dell’RNA infettante di 5000 volte. Tuttavia, bisogna considerare alcune obiezioni che sono state sollevate, prima di essere sicuri che abbia senso iniziare dei trial su questo composto, come peraltro sembra si voglia fare in Francia.

Chiudiamo con una considerazione generale: nella ricerca di presidi per combattere il Covid-19, spesso non si distingue tra i farmaci che hanno come bersaglio diretto il virus e/o le proteine che sono necessarie alla sua funzione, e quelli che si oppongono alle conseguenze negative generali dell’attacco del virus: che sono essenziali nell’emergenza, ma che, come si può facilmente capire, non eliminano il problema alla radice.

 

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Di latticini, biotecnologie e latte sintetico

La produzione di formaggio è tradizionalmente legata all’allevamento bovino, ma l’uso di batteri geneticamente modificati per produrre caglio ha ridotto in modo significativo la necessità di sacrificare vitelli. Le mucche, però, devono comunque essere ingravidate per la produzione di latte, con conseguente nascita dei vitelli: come si può ovviare? Una risposta è il latte "sintetico" (non propriamente coltivato), che, al di là dei vantaggi etici, ha anche un minor costo ambientale.

Per fare il formaggio ci vuole il latte (e il caglio). Per fare sia il latte che il caglio servono le vacche (e i vitelli). Cioè ci vuole una vitella di razza lattifera, allevata fino a raggiungere l’età riproduttiva, inseminata artificialmente appena possibile con il seme di un toro selezionato e successivamente “forzata”, cioè con periodi brevissimi tra una gravidanza e la successiva e tra una lattazione e l’altra, in modo da produrre più latte possibile per il maggior tempo possibile nell’arco dell’anno.