Simonetta Pagliani riflette sul ruolo delle parole per riferirsi alla Covid-19, come «sindemia», e alle loro connessioni con l’approccio con cui si sta affrontando la crisi sanitaria globale; tra disuguaglianze, nazionalismi vaccinali e… lingua greca.
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Il neologismo inglese syndemic (crasi di synergy ed epidemic) varato da Merril Singer nel 1990 per definire le interazioni biologiche e sociali tra le malattie trasmissibili e quelle non trasmissibili (che determinano la prognosi di entrambe) è stato ripreso poco tempo fa nell’editoriale di Lancet «Covid-19 is not a pandemic», firmato dal suo direttore Richard Horton e ampiamente ripreso e commentato in varie sedi: lungi dall’essere una «livella», SARS-CoV-2 è quasi sempre, nei suoi effetti più gravi, l’estremo persecutore dei perseguitati dalla povertà, in primis, dall’ambiente malsano, dall’ignoranza (frutto della mancata istruzione), dalle malattie croniche cardiovascolari (a loro volta, anche se non in tutti i casi, frutto di scorretti stili di vita e alimentari) e dall’età avanzata.
Horton lamenta la visione parziale che ha guidato la lotta alla pandemia, che ha puntato solo a tagliare la strada al virus, ma non a bonificare il terreno su cui esso aveva presa facile; gli svantaggi sociali e sanitari sia intra sia inter-nazionali (a volte delittuosamente provocati da decisioni geopolitiche, come le sanzioni), sono veri oggi come lo erano ieri e vanno combattuti con interventi su molti piani complessi e intersecati ai quali gli scienziati non si possono sottrarre, a partire dalla loro denuncia, come quella fatta dal direttore di Lancet, per proseguire con l’analisi della malattia nel contesto delle condizioni ambientali e socio-economiche in cui si sviluppa, per finire con una spinta metodologica che privilegi la prevenzione rispetto alla cura farmacologica.
Tuttavia, se è pur vero che la casa brucia perché, colpevolmente, è non stata costruita con materiali ignifughi, intanto si devono chiamare i pompieri per spegnere le fiamme: in prima istanza, il virus deve essere contenuto, proprio perché dà il colpo di grazia ai deboli, agli affamati, ai già malati (che priva dei posti in ospedale e delle cure) e ai futuri malati (che priva delle diagnosi precoci e degli interventi preventivi); deve essere contenuto, perché toglie ricchezza alle classi sociali in precario equilibro economico e alla fiscalità generale, la fonte che alimenta ogni intervento pubblico (certo, lascia indenni le ricchezze finanziarie, ma tra i governanti non si vede nessun Robin Hood).
Ben venga, dunque, l’annuncio di Pfizer che sono prossimi a produrre il loro vaccino; altri sono in dirittura d’arrivo o già somministrati a categorie limitate di soggetti ed è il caso di sperarci e di dire «vinca il migliore».
L’arrivo dei vaccini pone la questione di una loro equa assegnazione a livello planetario, discussa in sedi governative e sovranazionali e da molte organizzazioni no profit. Con la parola d’ordine «no one is safe, unless everyone is safe̱», Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (CEPI), Global Alliance for Vaccines and Immunization (GAVI) e OMS hanno creato COVAX (COVID-19 Vaccines Global Access) Facility, un meccanismo globale di condivisione del rischio per gli appalti in comune della fabbricazione dei vaccini e di stimolo alla sua accelerazione che coinvolge un buon numero di governi e di industrie farmaceutiche. È l’occasione per un primo passo contro le disuguaglianze e per una giusta conclusione dell’enorme e solidale sforzo fatto dagli scienziati di tutto il mondo per contrastare SARS-CoV-2: dall’altra parte della barricata stanno «le politiche nazionali predatorie» (Accademia Nazionale dei Lincei, 2020) che intendono assicurare il vaccino solo ai propri cittadini o al massimo a quelli dei paesi alleati, facendone, ancora una volta un uso non di pace, ma di guerra.
Il mondo va curato, oltre che dall’epidemia, dalle pestilenze che l’hanno preceduta e fatta deflagrare: il capitalismo rapace, l’imperialismo neocolonialista, i fondamentalismi religiosi, l’incuria delle risorse naturali, la negligenza verso le generazioni future. Forse non serve nemmeno quel neologismo, che suona, per di più, tanto incongruo a chi ha bazzicato un po’ di greco: se demos (δῆμος) è il popolo, epidemia (ἐπί) è «sopra il popolo, nel popolo» e pandemia è «in tutto il popolo», ma sindemia (σύν) vorrebbe dire «insieme al popolo». Il convergere di molte sofferenze, invece, in greco si direbbe σύν πάϑεια, ma è chiaro che avrebbe fatto drizzare i capelli definire la Covid-19 come una «simpatia».
Fonti
Richard Horton, "Covid-19 is not a pandemic", The Lancet, 26 September.
Luca Carra, "Tutto quello che (non) sappiano del nuovo vaccino Pfizer", Domani, 10 novembre 2020.