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Cambiamento climatico e rischio geo-idrologico: reinventare la ruota senza mai agire

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1. Introduzione

Quanti milioni di euro sono stati impiegati in Italia negli ultimi due decenni in attività di ricerca e di sviluppo tecnologico per cercare di limitare il “dissesto idrogeologico”, anche alla luce dei cambiamenti climatici? La somma totale ad essere sincero non la conosco, ma è sicuramente molto, molto elevata, in quanto deriva da centinaia di progetti finanziati dall’Unione Europea, dallo Stato, dalle Regioni e da altri Enti (per esempio Autorità di Bacino/di Distretto idrografico, Consorzi di Bonifica). Il mondo accademico e gli enti territoriali hanno potuto quindi redigere innumerevoli “studi”, “piani” e “linee guida”, ed implementare numerosi “progetti pilota” tesi alla mitigazione del rischio idraulico e geologico, più spesso chiamato – molto infelicemente come spiegherò successivamente – “dissesto idrogeologico”. Negli ultimi anni questi progetti hanno riguardato esclusivamente o per lo meno includevano anche i diversi scenari di cambiamento climatico attesi. E quali azioni (dette anche “misure”) prevede il PNACC per il settore “Dissesto geologico, idrologico ed idraulico”? Scorrendo il database disponibile online delle azioni, troviamo come queste siano quasi unicamente rappresentate da attività del tutto simili a quelle già realizzato grazie ai progetti già conclusi o ancora in corso1: “sviluppo di modelli”, “condivisione di informazioni”, “messa a punto di linee guida”, “messa a punto di diagrammi di flusso”, “miglioramento del monitoraggio”, “miglioramento e recupero di misure strutturali”, e “miglioramento del supporto tecnico”.

Ovvero il PNACC “dimentica” che vi sono una montagna di lavori – pubblicati su riviste scientifiche o protocollati dai vari enti territoriali – che già forniscono gli strumenti (linee guida, sistemi di supporto alle decisioni, diagrammi di flusso, modelli di gestione, ecc…) per monitorare, modellare, progettare e gestire al meglio i pericoli di natura idraulica (alluvioni) e geologica (frane). Si tratta dell’impegno profuso da moltissime università e centri di ricerca italiani in sinergia con i tecnici delle Agenzie nazionali (in primis ISPRA e Protezione Civile) e regionali (ARPA, direzioni per la Difesa del Suolo), che ha portato nella maggior parte dei casi a “prodotti” di grandissimo valore, sia scientifico che applicativo. Inoltre, gli effetti dei cambiamenti climatici vengono descritti nel documento principale del PNACC in maniera del tutto sbrigativa ed ambigua, in quanto si parla quasi sempre in modo generico di “variazioni” attese invece di sottolineare come l’aumento di pericolosità idraulica e geologica sia ritenuto altamente probabile dalla comunità scientifica, soprattutto nel caso di bacini idrografici di dimensioni medio-piccole, oltre che nel caso delle alluvioni costiere.

Per mitigare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici su frane ed alluvioni in Italia, è la cosa più urgente redigere nuove linee guida, sviluppare nuovi modelli e nuove sperimentazioni gestionali, in sintesi “studiare” ancora la situazione? La mia valutazione, da persona totalmente dedita ed appassionata allo “studio” (tramite la ricerca scientifica) di tali problemi da ormai 25 anni, è NO! Certo, migliorare ed affinare modelli e conoscenze non fa mai male, anzi va benissimo, ma non sono queste a mio avviso le soluzioni che ora servirebbero per ridurre i danni e le vittime dei processi idraulici e geologici. Per chiarirne le ragioni devo tornare innanzitutto su un problema terminologico che si porta dietro un errore concettuale.

2. Il problema sta già nei termini: non dissesto, ma rischio

Perché dissesto idrogeologico è una locuzione infelice? Per due motivi: il primo, il meno importante, è che l’idrogeologia è la scienza che studia il movimento dell’acqua nel sottosuolo, e quindi almeno un trattino tra idro e geologico (quindi “idro-geologico”) sarebbe opportuno per significare invece i problemi di natura idrologico-idraulica e geologica. Meglio ancora per evitare confusioni sarebbe parlare di processi “geo-idrologici”. Ma la ragione che ritengo fondamentale per cui dovremmo abbandonare il termine “dissesto idrogeologico” è che il primo suggerisce che le frane e le alluvioni avvengano perché qualcosa si sia “rotto” o non sia adeguatamente “controllato” sui versanti montani e lungo i torrenti ed i fiumi. Al contrario, frane ed alluvioni sono processi del tutto naturali – purtroppo certamente attese ora con maggior frequenza a causa del riscaldamento globale di natura antropica – nella stragrande maggioranza dei casi, e determinano vittime e danni alla nostra società solo dove noi abbiamo occupato aree che con una certa frequenza vengono inondate o investite da colate, crolli e scivolamenti. Il termine corretto da utilizzare non è quindi “dissesto” bensì “rischio”!

Il concetto di “rischio” esprime infatti i danni economici e le vittime derivanti dal verificarsi di un evento naturale avente una certa “pericolosità”, la quale dipende da quanto l’evento è intenso e frequente in una specifica area, per esempio quanto profonda e veloce è la corrente idrica lungo una strada in caso di alluvione per un dato “tempo di ritorno” (tipicamente si usano i valori di 30, 100 e 200 anni). Perché ci sia rischio, un evento deve avvenire su un’area caratterizzata da una certa “esposizione”, quantificabile come numero e valore economico degli edifici e dal numero di persone presenti. Questi elementi esposti presentano una certa “vulnerabilità”, che deriva da come sono fatti gli edifici, e da come le persone reagiscono e si comportano durante un evento di piena o di frana. Il rischio è matematicamente definito dal prodotto tra pericolosità, esposizione e vulnerabilità. Se vogliamo ridurre (ovvero mitigare) i danni e le vittime dovuti al verificarsi di eventi di natura geo-idrologica, possiamo agire su pericolosità, esposizione e vulnerabilità, puntando a “minimizzare la funzione rischio” tenendo in considerazione i vincoli di natura ambientale, socio-economica e tecnica.

3. Ridurre la pericolosità o l’esposizione e la vulnerabilità?

Dobbiamo puntare sulla riduzione della pericolosità? Lo abbiamo fatto da secoli tramite interventi strutturali, ovvero argini, briglie, e più recentemente tramite casse di espansione. È la strada migliore da percorrere? Quasi sempre no, o almeno non da sola. Esiste infatti sempre un pericolo residuo che eccede le nostre difese e tale pericolo residuo crescerà sempre di più a causa del cambiamento climatico per la maggior parte dei bacini italiani, soprattutto in quelli di piccole dimensioni dove la maggior frequenza e magnitudo di eventi meteorici di natura convettiva (ovvero le precipitazioni breve ed intense) determinata dal riscaldamento globale sta generando e genererà sempre più incrementi delle portate idriche di piena. Sembra paradossale, ma quanto fatto da decenni in termini di interventi strutturali di riduzione del pericolo ha determinato quasi ovunque un aumento del rischio idraulico. Questo perché abbiamo considerato “sicuri” i terreni difesi dalle arginature o dalle briglie permettendo di costruirci insediamenti produttivi e residenziali, che hanno enormemente aumentato la nostra esposizione al pericolo residuo, e senza nessuna attenzione a garantirne una bassa vulnerabilità in caso di esondazione.

E quindi che fare? La comunità tecnico-scientifica a livello internazionale ha ormai compreso che gli interventi di riduzione dell’esposizione e della vulnerabilità sono prioritari, e in molti casi da affiancare a interventi ambientalmente vantaggiosi di riduzione della pericolosità (ad esempio casse di espansione solo su aree agricole e allargamento degli spazi da lasciare alla dinamica fluviale).

4. Ridurre l’esposizione: limiti del Piano

Al fine di ridurre l’esposizione, le seguenti azioni sono ritenute fondamentali: pianificazione territoriale fondata in modo stringente sulle mappe del pericolo idraulico e geologico, impedendo del tutto nuove costruzioni in aree a forte pericolosità e obbligando invece di adottare accorgimenti costruttivi per costruire o ristrutturare in aree a media pericolosità; delocalizzazione degli edifici già esistenti posti nelle aree a pericolosità più elevata, a fronte di compensazione adeguate per i privati interessati; rimozione di ponti e tombinature non sufficientemente dimensionati, che quindi creano ostruzioni durante le alluvioni; sistemi di allerta. Cosa prevede il PNACC per la riduzione dell’esposizione? Molto correttamente spinge all’utilizzo più diffuso dei sistemi di monitoraggio e di allerta, e questo è sicuramente positivo, ora che la tecnologia consente di implementare in modo economico ed efficiente tali sistemi. Tuttavia in molti casi – quando i brevi tempi di allertamento sono troppo brevi come nel caso di piene improvvise, frane e colate, oppure quando l’intensità dei processi è troppo elevata per essere contenuta tramite interventi strutturali – la delocalizzazione degli edifici a rischio rappresenta l’unica soluzione sostenibile.

Il PNACC prevede e sostiene tali interventi? Per nulla, e questo è veramente il suo vulnus principale a mio avviso. Certamente le delocalizzazioni possono essere “scomode” a livello di consenso elettorale ma sono di gran lunga le soluzioni più efficaci nel lungo periodo, e dopo un alluvione – come nel caso dell’evento del 2023 in Romagna – sono gli stessi abitanti delle case più devastate a chiedere di andare a vivere in posti meno pericolosi.

5. Ridurre la vulnerabilità: limiti del Piano

In merito alla riduzione della vulnerabilità, questa si può efficacemente ottenere tramite prescrizioni urbanistiche sull’uso delle singole abitazioni, implementando accorgimenti architettonici da realizzarsi sugli edifici per ridurre i danni alluvionali (le cosiddette “case anti-piena”), perseguendo una maggiore educazione della popolazione a convivere con i rischi naturali da attuarsi con incontri pubblici, gruppi social ed esercitazioni periodiche frequenti. Non ultimi, i piani assicurativi obbligatori contro i fenomeni idro-geologici con premi calmierati dallo Stato, e funzione del livello di pericolosità della zona e degli interventi architettonici di riduzione della vulnerabilità realizzati. Cosa contiene il PNACC di tutto questo, che rappresenta da anni ormai la base per la riduzione del rischio in molti Paese europei? Solamente attività di educazione della popolazione, certamente molto utili in un orizzonte soprattutto medio-lungo, ma non sufficienti in un territorio a rischio come quello italiano dove è necessario intervenire con rapidità, iniziando seriamente a predisporre sistemi assicurativi virtuosi e a incentivare interventi architettonici “anti-piena”, come si fa da anni per il rischio sismico.

5. Conclusioni

In definitiva, il PNACC appare decisamente troppo vago e deludente in merito agli obiettivi di riduzione dei rischi geo-idrologici nella prospettiva del cambiamento climatico, seppure alcune azioni siano corrette, in primis quelle relative ai sistemi di allerta e all’educazione della popolazione. Oltre a questi, gli interventi da realizzare rapidamente per ridurre vittime e danni sono ben conosciuti ormai in modo capillare nel territorio italiano: delocalizzazioni degli edifici nelle aree più pericolose, realizzazione di aree di laminazione diffusa e di mobilità degli alvei primariamente in aree agricole, piani assicurativi misti pubblico-privati, prescrizioni e interventi urbanistici “anti-piena” a scala di quartiere e di singolo edificio. Purtroppo, tali interventi sono spesso avversati da amministratori locali e portatori di interesse in quanto non generano consenso immediato tra la popolazione o non “rendono” economicamente – per chi li progetta e realizza – quanto gli interventi strutturali classici, e pertanto si continua a far finta di essere ancora nello scorso millennio, quando si sapeva poco e bisognava ancora “studiare” prima di agire.

Ora invece è tempo di agire, lasciando più spazio per “l’assorbimento” dei processi naturali in crescente intensificazione.

Note

1. Si pensi alle decine di iniziative del PNRR con ricadute su questo tema.

 


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