Il presidente della COP 29 di Baku, Mukhtar Babayev, chiude i lavori con applausi più di sollievo che di entusiasmo. Per fortuna è finita. Il tradizionale tour de force che come d'abitudine è terminato in ritardo, disegna un compromesso che scontenta molti. Promette 300 miliardi di dollari all'anno per aiutare i paesi in via di sviluppo ad affrontare la transizione, rimandando al 2035 la "promessa" di 1.300 miliardi annui richiesti. Passi avanti si sono fatti sull'articolo 6 dell'Accordo di Parigi, che regola il mercato del carbonio, e sul tema della trasparenza. Quella di Baku si conferma come la COP della finanza. Che ha comunque un ruolo importante da giocare, come spiega un report di cui parla questo articolo.
La COP 29 di Baku si è chiusa un giorno in ritardo con un testo variamente criticato, soprattutto dai paesi in via di sviluppo che hanno poca responsabilità ma molti danni derivanti dai cambiamenti climatici in corso. I 300 miliardi di dollari all'anno invece dei 1.300 miliardi considerati necessari per affrontare la transizione sono stati commentati così da Tina Stege, inviata delle Isole Marshall per il clima: «Ce ne andiamo con una piccola parte dei finanziamenti di cui i paesi vulnerabili al clima hanno urgentemente bisogno. Non è neanche lontanamente sufficiente. Ma è un inizio».
È bene ricordarlo: qualche decina di paesi, fra i quali le piccole isole, saranno inabitabili se non definitivamente sott’acqua se non si rispetteranno i limiti posti dall’ articolo 2 dell'Accordo di Parigi del 2015, cioè «mantenendo l'aumento della temperatura media mondiale ben al di sotto di 2 °C rispetto ai livelli preindustriali e proseguendo l'azione volta a limitare tale aumento a 1,5 °C, riconoscendo che ciò potrebbe ridurre in modo significativo i rischi e gli effetti dei cambiamenti climatici». Cosa possibile solo uscendo a tappe forzate dalla dipendenza dalle fonti fossili. Il testo finale di Baku non fa menzione di questo impegno, nemmeno nella forma edulcorata (“transition away from fossil fuels”) passata l’anno scorso alla COP di Dubai.
A giudicare dagli attuali contributi determinati dei diversi paesi (National Determined Contributions, NDCs), l'aumento della temperatura media globale a fine secolo si assesterà fra 2 e 3,6°C, a seconda degli scenari, mentre è virtualmente escluso che si possa restare a +1,5°C (Emission Gap Report 2024 di UNEP). Il 2024 si chiuderà con un aumento di temperatura media annuale che per la prima volta supera gli 1,5°C. Ricordiamo anche che ad oggi il picco delle emissioni globali di gas serra non è ancora stato raggiunto, e nelle decisioni di Baku non se ne parla.
Andamento delle emissioni globali dei gas serra dai 37,8 miliardi di tonnellate CO2 equivalenti del 1990 alle 57,1 miliardi di tonnellate del 2023. Fonte Emission Gap Report 2024, UNEP .
La "COP della finanza"
Ma torniamo ai soldi: 300 miliardi di dollari all'anno da raggiungere "entro il 2035", quando sarebbe bene che diventassero 1.300 miliardi (1,3 trilioni). Il bicchiere mezzo pieno è che l’investimento dovuto dai paesi sviluppati ai paesi vulnerabili va triplicato rispetto alla situazione attuale (in realtà meno, come spiega il Guardian), quello mezzo vuoto è che è quattro volte meno di quanto chiesto dai paesi in via di sviluppo. Questi investimenti dovranno essere fatti sia dal pubblico che dai privati, non sono tutti a fondo perduto, buona parte sono anche prestiti agevolati, che andranno quindi ripagati.
La promessa comunque è che dal 2035 si arriverà alla cifra di 1,3 trilioni. Basterà? Che tipo di investimento complessivo comporterà l'azione climatica? Una risposta autorevole arriva dal rapporto, pubblicato appena prima dell'inizio della COP29, Raising Ambition and Accelerating Delivery of Climate Finance, di ILHEG, curato da esperti di alto livello quali Amar Bhattacharya, Vera Songwe e Nicholas Stern.
Il documento offre una analisi dettagliata del panorama attuale degli investimenti per l'azione climatica e avanza proposte concrete per mobilitare le risorse necessarie, che sono ovviamente ben maggiori delle cifre girate a Baku. Per gli economisti dell’IHLEG quello che effettivamente servirebbe a partire dal 2030 per stare nei termini dell’Accordo di Parigi è pari a 6,3-6,7 trilioni di dollari all'anno, di cui
- 2,7-2,8 trilioni per le economie avanzate,
- 1,3-1,4 trilioni per la Cina
- 2,3-2,5 trilioni per i paesi in via di sviluppo.
Puntare sulla crescita
Ma oggi quanto stiamo già investendo per la transizione? Il rapporto IHLEG stima che il volume di investimenti per l’azione climatica nel 2023 sia stato di circa 1,6 trilioni. Si tratta peraltro di una cifra destinata a crescere rapidamente: l’Agenzia internazionale per l’energia prevede che il 2024 si chiuderà con 2 trilioni di investimenti nelle energie rinnovabili, soprattutto il solare che va come un razzo (soprattutto in Cina) e che è destinato in pochi anni a superare in termini di capacità energetica tutte le altre fonti energetiche. Il suo sviluppo, seguito da quello dell’eolico, è quasi esponenziale, secondo un articolo dell’Economist.
Purtroppo però se le rinnovabili crescono, gas e petrolio non scendono. Le prime costano di meno, ma le secondo sono ancora blindate da circa 1,3 trilioni di sussidi cosiddetti tossici.
Per il think tank di economisti autori del rapporto, la vera sfida è passare da 2 a più di 6 trilioni all’anno, di cui 2,4 destinati ai paesi in via di sviluppo, così suddivisi:
- 1,6 trilioni destinati alla transizione energetica pulita,
- 0,25 trilioni per l'adattamento e la resilienza,
- 0,25 trilioni per perdite e danni climatici,
- 0,3 trilioni per il capitale naturale e l'agricoltura sostenibile
- 0,04 trilioni per promuovere una transizione giusta.
Giusto per curiosità, le spese militari globali ammontano oggi a 2,4 trilioni.
I costi e i benefici di una nuova rivoluzione industriale
Ce la faremo a passare da 2 a 6 trilioni? Seimila miliardi di dollari sono circa il 6% del PIL mondiale previsto al 2030.
Va anche detto che il PIL globale cresce di almeno 15 trilioni al decennio, come è successo dal 2010 al 2020, ma dal 2000 al 2010 è cresciuto di 30 trilioni, e probabilmente al 2050 potrebbe raddoppiare se è vero che quella che stiamo vivendo è una nuova rivoluzione industriale. Ed è questo il messaggio più interessante degli economisti: l'aumento degli investimenti climatici soprattutto nei paesi emergenti e in via di sviluppo può sbloccare una significativa crescita economica nel 21° secolo, generando notevoli risparmi e benefici rispetto ai costi dell'inazione. I costi evitati (come gli impatti negativi sulla produttività e la salute, i danni alle risorse e la perdita di biodiversità) e i co-benefici dell'azione climatica (come l'aumento della produttività, il miglioramento dei servizi ecosistemici e il rafforzamento della stabilità sociale) potrebbero ammontare a circa il 15-18% del PIL globale nel 2030. Inoltre, i risparmi finanziari derivanti dal passaggio a un'economia a basse emissioni di carbonio potrebbero ammontare all'11-18% del PIL globale (derivanti, ad esempio, dalla riduzione degli investimenti, dei consumi e delle importazioni di combustibili fossili e da un minor numero di sussidi dannosi per l'ambiente).
Il futuro degli investimenti è soprattutto in Africa
Ma le COP fanno solo un pezzo della rivoluzione verde, comunque importante se si pensa al fatto che un altro risultato significativo di Baku è stato per la prima volta mettere a posto i meccanismi di mercato di cui si parla nell’articolo 6 dell’Accordo di Parigi, e altri aspetti che riguardano trasparenza e adattamento (qui l'analisi completa di Italian Climate Netwotk).
Il resto del lavoro lo dobbiamo fare noi, soprattutto il mondo della governance economica pubblica e privata mondiale: con un mercato del carbonio da rendere più regolato ed efficiente, banche multilaterali di sviluppo da riformare, fiscalità orientata all’innovazione verde, una politica del debito più avanzata. Soprattutto una cooperazione Nord-Sud e ancora di più Sud-Sud più lungimirante. Perché la transizione - piccolo particolare - ha bisogno per farcela di avvicinare i più poveri ai più ricchi, ridurre drasticamente le disuguaglianze, e mettere la crescita sostenibile nelle mani di chi adesso non riceve quasi niente, a partire dall’Africa.