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Scintille nella palude

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Non studiate!, esclamava Ilvo Diamanti dalle pagine di Repubblica, alcuni mesi fa. Non perdete tempo con un’attività che nel nostro paese non serve a nulla. Una provocazione diretta contro una società che sempre più pare disprezzare istruzione e cultura, come fotografa impietosamente l’ultima indagine Almalaurea: il numero dei laureati, triennali o quinquennali che siano, che trovano lavoro entro un anno dal conseguimento della laurea cala di anno in anno, come pure il loro guadagno mensile. La svalutazione dei titoli di studio diventa ancora più evidente se si prende in considerazione il valore del dottorato di ricerca, o PhD (doctor philosophiae); gli studenti di dottorato, insieme ai "postdoc", cioè coloro che hanno ottenuto il PhD ma non sono ancora diventati ricercatori, costituiscono la spina dorsale della ricerca e dell'insegnamento universitario. Una spina dorsale spesso sottopagata – perlomeno in Italia – e legata a contratti a progetto o a finanziamenti molto difficili da ottenere, e la cui libertà (non si timbra il cartellino in università) diventa un motivo per lavorare fino a tarda sera o nei weekend. Una spina dorsale che, al di fuori dell’ambiente accademico, risulta particolarmente penalizzata, in primis per il problema del “surplus schooling”, cioè dell'avere un grado di istruzione maggiore di quanto richiesto da un determinato lavoro. Troppo istruiti e per questo scartati, insomma. Un paradosso ben noto a quanti decidono di lasciare la carriera accademica e si ritrovano, a 35-40 anni, con un curriculum ricco di pubblicazioni e titoli, ma poco spendibile in ambiti diversi da quelli della ricerca o dell'università. A complicare tale situazione ci ha pensato, in Italia, una delle modifiche introdotte dalla riforma Gelmini alla figura del ricercatore, non più a tempo indeterminato ma finanziato per un tot di anni, dopodiché avrà una – e una soltanto – occasione di diventare professore associato. Se fallisce, addio accademia. E poi?

Ma se il Bel Paese piange, il resto del mondo certo non ride, come evidenzia un articolo uscito sull'Economist nel 2011, il cui titolo è piuttosto esplicativo: The disposable academic – Why doing a PhD is often a waste of time". Nell’articolo si parla di come, per le università, uno studente di dottorato sia economico, altamente motivato e considerabile come un lavoratore usa-e-getta, e di come ciò abbia portato a una sovrapproduzione di PhD. Tanto per dare un’idea: fra il 2005 e il 2009 dalle università americane ne sono usciti più di 100,000 mentre i nuovi posti da professore sono stati solo 16,000.

Ci ritroviamo quindi a fronteggiare un corto circuito nel sistema di produzione e gestione della conoscenza, che da un lato incoraggia le università a sfornare grandi quantità di PhD e dall’altro non riesce ad assorbire questo capitale umano e culturale, né nel mondo della ricerca né, tantomeno, al di fuori di esso. Il grande investimento economico dello Stato e l’altrettanto grande investimento economico ed emotivo dei singoli studenti rischiano così di venir vanificati, creando una massa intermedia di persone dotate di notevoli competenze ma isolate dal resto del mondo lavorativo per le quali, una volta lasciata la ricerca, riciclarsi diventa molto più difficile. Risultato: si fa passare l’idea che il dottorato sia un titolo ancora più rischioso e “inutile” della laurea. Che è proprio come dire “non studiate!”, ma non come provocazione.

Una situazione preoccupante, che non deve condurre a conclusioni sbagliate per quanto riguarda responsabilità e rimedi. Di certo il mondo accademico dovrebbe aprirsi alla meritocrazia e non limitarsi a sbandierarla come uno slogan ipocrita, così come dovrebbe tener conto delle richieste del mondo del lavoro anche durante l’educazione post-laurea, senza per questo snaturarsi. Un buon esempio, in questo senso, è dato da alcune università americane, che stanno correndo ai ripari cercando di completare il training dei loro studenti di dottorato con competenze che possano servire anche in ambiti diversi da quello accademico. Come però giustamente ammonisce Irene Tinagli, su La Stampa del 7 marzo, non ci si può limitare ad accusare la "cattiva qualità delle nostre università o le cattive abitudini dei nostri giovani" senza considerare la responsabilità delle altre parti in causa: la politica dovrebbe una volta per tutte rendersi conto che ricerca e conoscenza non sono un lusso che ci si può permettere solo in tempi di vacche grasse ma una necessità vitale per la crescita e la sopravvivenza di un paese (lo hanno ben capito due potenze emergenti come Cina e Brasile, le sole al mondo ad avere “fame” di PhD); le aziende private, invece, dovrebbero mostrare più coraggio e investire in ricerca e conoscenza, accettando che anche ciò che non porta nell’immediato a un brevetto o a un prodotto da vendere, può generare progresso e ricchezza.

Senza un cambiamento su tutti e tre i fronti rimarremo intrappolati in un loop pericoloso – imprese che non investono, università che si chiudono in sé stesse, politica che non supporta – soprattutto per un paese come il nostro, dove spesso le responsabilità vengono affrontate con la tattica dello “scarica barile”, la cui inevitabile conseguenza è lo stallo in cui ora di troviamo. Incoraggiante, in questo senso, è il Manifesto per la Cultura recentemente promosso dal Sole 24 ore, che tante adesioni sta raccogliendo e che ha anche ottenuto il plauso di tre ministri come Ornaghi, Passera e Profumo. Un segnale promettente, una scintilla nel buio che non va ignorata, se vogliamo salvarci dall’abisso.


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