Germania, Giappone, ora la Francia: un filo comune unisce queste nazioni. È una storia cominciata con il terremoto e lo tsunami che nel 2011 hanno messo fuori uso la centrale nucleare di Fukushima, poche centinaia di chilometri a nord di Tokyo, e che continua ad avere ripercussioni in uno dei settori più critici per lo sviluppo umano: l'energia. E dove si parla di energia non si può che discutere di clima, soprattutto per capire cosa succederà ora che alcune fra le maggiori potenze (Germania in prima fila) stanno lentamente abbandonando il nucleare civile. Anche se – com'è spesso la norma in politica – fatti e programmi rischiano di restare piuttosto lontani fra loro. L'elezione di Hollande alle presidenziali francesi è forse il simbolo che chiude questa catena di eventi. Il successo elettorale del candidato socialista arriva infatti in un momento cruciale: a poco più di un mese dal vertice di Rio, in cui si discuterà delle nuove politiche per affrontare il problema dei cambiamenti climatici, e proprio nel momento in cui sul tema dell'energia si incrociano diverse notizie. Vediamole in ordine.
Germania
Negli ultimi mesi il programma energetico tedesco è stato fortemente contestato sia dall'opposizione che dai movimenti ambientalisti. Sviluppato dopo l'incidente di Fukushima, esso prevede per l'anno 2020:
1) una riduzione del 40% delle emissioni di gas serra, e del 20% del consumo di energia;
2) un aumento progressivo dell'uso delle fonti rinnovabili fino a raggiungere il 35% dell'elettricità prodotta;
3) una riduzione dei consumi per l'elettricità (meno 10%) e per il riscaldamento (meno 20%).
Giappone
È notizia recente che per la prima volta da 42 anni il Giappone non utilizza più energia elettrica prodotta da centrali nucleari. Certo molti osservatori hanno mancato di sottolineare che si tratta di una misura ampiamente prevista, presa allo scopo di effettuare controlli di sicurezza sulle centrali. Non si tratta di un abbandono totale, ma è fuor di dubbio che le pressioni per sigillare i reattori in maniera definitiva ci sono.
Da un lato le previsioni su possibili black out durante la scorsa estate – periodo caldo, in tutti i sensi – non si sono verificate. Quest'anno però la pressione sulla rete elettrica giapponese sarà ancora maggiore: nessuna centrale nucleare sarà in funzione per fornire energia e ci si dovrà affidare soltanto alle fonti “convenzionali”. Questo, secondo alcuni, sarà il test definitivo per il Giappone: se il periodo critico verrà superato senza dover ricorrere a black out programmati sarà segno che il paese del Sol Levante è in grado di imboccare una strada energetica nuova. In caso contrario, pare inevitabile riaccendere la reazione atomica in almeno qualcuna delle centrali ora spente.
Bisogna poi ricordare che il Giappone è in una situazione molto delicata: la Germania può cambiare la propria politica energetica con maggiore rapidità, perché in caso di emergenza resta in grado di attingere alle reti dei paesi confinanti. L'isola asiatica, al contrario, si trova più isolata e deve contare in larga parte soltanto sulle proprie forze. Ragioni storiche e culturali spingono verso questa stessa direzione.
Anche in questo caso la chiusura degli impianti è stata compensata da un maggiore ricorso ad altre fonti: soprattutto petrolio, gas naturale liquefatto e olio combustibile. L'obbiettivo di Kyoto comportava una riduzione del 6% nell'emissione di gas serra. Nel 2010 il Giappone non aveva raggiunto questo traguardo, ma quanto meno era riuscito a tornare ai livelli del 1990. Ora invece le previsioni del Ministero dell'Ambiente suggeriscono un aumento del 15%, il che vanificherebbe gran parte degli sforzi fatti sinora. Anche qui, dunque, in vista di Durban sussistono grosse difficoltà.
Francia
Nonostante le roboanti dichiarazioni del programma di Hollande, secondo cui la Francia avrebbe dovuto chiudere una ventina di reattori e passare dal 75 al 50% nella produzione nucleare di elettricità, già dall'ultimo dibattito elettorale la posizione del presidente eletto si era ammorbidita. Del resto la Francia è uno dei paesi che ha più da perdere nell'abbandono del nucleare, e allo stesso tempo è uno di quelli che emette meno gas serra: circa un terzo del Giappone e metà della Germania.
Questo però ha un prezzo: se per il paese transalpino il protocollo di Kyoto non prevede alcun obbiettivo, esso si trova le mani legati da un investimento molto costoso e che non può essere semplicemente interrotto a causa della mancanza di alternative praticabili. Tuttavia, a Durban come a Kyoto, la Francia si troverà ancora in una posizione negoziale di forza.
Politiche energetiche internazionali e Rio+20
Intervista a Valerio Rossi Albertini,
ricercatore dell’Istituto di Struttura della Materia del Cnr, esperto in
materiali per lo stoccaggio di energia e divulgatore scientifico - di Marco Milano
La
notizia della chiusura delle centrali nucleari giapponesi è arrivata come un
nuovo tsunami, a un anno da Fukushima. E’ un segnale forte nel quadro delle
politiche energetiche internazionali o, invece, è più opportuno considerarla come
scelta dipendente dalla sola situazione interna del Paese?
Sicuramente la situazione del Giappone è
emblematica di un nuovo paradigma di pensiero riguardo a questi temi. Ufficialmente
l’ultimo dei 51 reattori è stato spento per controlli dei parametri sicurezza. In
effetti, però, gli spegnimenti inizialmente previsti a scadenza di ogni 13 mesi,
sono avvenuti tutti contemporaneamente. Al momento non si sa se e quando
verranno riattivati. Perché questo? Bisogna ricordare che a seguito dei fatti
di Fukushima, la reazione di terrore è stata talmente forte che l’opinione
pubblica ha in qualche modo imposto alle autorità il suo volere. Solitamente,
invece, la popolazione si rimetteva interamente alle decisioni governative - non
si erano mai viste finora manifestazioni pubbliche in piazza simili. Questo
significa che i Paesi che subiscono incidenti di quella entità, ma anche più modesti,
sono molto cauti nel proseguire sulla strada del programma nucleare. Di conseguenza, però, la metà di quella
produzione è stata recuperata insistendo su un processo di razionalizzazione
dell’energia. Nell’immediato futuro sarà il gas naturale a sopperire le
carenza. Questa è la ‘soluzione tampone’ più efficace in attesa di un passaggio
alle rinnovabili, che invece non producono emissioni di gas serra.
E il Giappone arriva dopo scelte
analoghe di altri Paesi Europei, come la Germania
In realtà la Germania aveva deciso l’uscita
dal nucleare prima di Fukushima, e in seguito è stato accelerata. Perfino la
Francia, il più Paese più nuclearizzato del mondo, con una produzione del
75-80%, ha preso decisioni importanti in questo senso. Nel dibattito che c’è
stato prima dell’ultimo confronto tra Sarkosy e Hollande si è parlato proprio
di questo. L’attuale presidente disse che pur non avendo intenzione di
smantellare il parco nucleare - per motivi storici e interessi economici - ha
dichiarato di voler ridurre nel prossimo decennio dal 75 al 50% la quota di
energia elettrica da nucleare, e di spegnere
subito una delle centrali a maggior rischio, in Alsazia. E’ solo l’inizio di
una contrazione, ma è un’inversione concettuale importante: la Francia non
punta più sul nucleare all’interno dei proprio confini. Poi ci sono Paesi come la Cina che,
invece, iniziano a puntare sul nucleare. Ma a parte le considerazioni
specifiche per ogni caso, c’è il fattore di carattere economico che non può
essere ignorato: l’uranio è una risorsa non illimitata, la stima attuale prevede
un tempo massimo che copre i 40 anni. E’ vero che il nucleare è esente da
emissioni di gas serra –in questo si può ovviare con le rinnovabili – ma la sua
economicità non potrà durare a lungo, appena si intaccheranno le scorte, i
prezzi inizieranno inevitabilmente ad aumentare. Iniziare a costruire adesso
centrali non potrà convenire e il punto di inversione con le rinnovabili è
molto più vicino.
Tra un mese, a Rio de Janeiro, uno dei temi principali
di discussione sarà legato alla green economy, a discapito forse della ricerca
scientifica. Quale può essere il ruolo e il contributo che gli attori della
scienza possono portare a Rio?
La loro posizione deve essere centrale,
la green economy è innescata a partire dall’innovazione. In ambito economico
sono molti i protagonisti e le parti, ma se non c’è innovazione tecnologica,
tutto salta. Ma non è lo scienziato che
può imporre la propria presenza, tocca agli organizzatori e a chi ricopre
posizioni decisionali. In italia, ad esempio, abbiamo tanti brevetti di
sviluppo di nuove tecnologie che possono portare ancora più in alto i successi
già raggiunti – nel 2011 siamo stati il più grande mercato fotovoltaico del
mondo, compresi Stati Uniti, Giappone e Spagna. Per esportare all’interno di
una filiera produttiva, c’è bisogno però di uno sforzo di consapevolezza
collettiva che possa, poi, far entrare in gioco il mondo imprenditoriale.
Quale
può essere allora un modo efficace, per un progetto come Scienza+20, per
avanzare proposte relative alla posizione della scienza in questo dibattito?
Stimolare i mezzi di comunicazione e poi
la politica è fondamentale. Bisogna far comprendere l’importanza di una notizia
scientifica, attraverso gruppi di interesse di chi fa ricerca con una vocazione
tecnologica, soprattutto per sollecitare le istituzioni. Ma non può essere solo
un’iniziativa degli scienziati, in questo un ruolo chiave lo deve avere anche
la società civile.