fbpx Il nucleare oggi, dal Giappone all'Europa | Scienza in rete

Il nucleare oggi, dal Giappone all'Europa

Tempo di lettura: 7 mins

Germania, Giappone, ora la Francia: un filo comune unisce queste nazioni. È una storia cominciata con il terremoto e lo tsunami che nel 2011 hanno messo fuori uso la centrale nucleare di Fukushima, poche centinaia di chilometri a nord di Tokyo, e che continua ad avere ripercussioni in uno dei settori più critici per lo sviluppo umano: l'energia. E dove si parla di energia non si può che discutere di clima, soprattutto per capire cosa succederà ora che alcune fra le maggiori potenze (Germania in prima fila) stanno lentamente abbandonando il nucleare civile. Anche se – com'è spesso la norma in politica – fatti e programmi rischiano di restare piuttosto lontani fra loro. L'elezione di Hollande alle presidenziali francesi è forse il simbolo che chiude questa catena di eventi. Il successo elettorale del candidato socialista arriva infatti in un momento cruciale: a poco più di un mese dal vertice di Rio, in cui si discuterà delle nuove politiche per affrontare il problema dei cambiamenti climatici, e proprio nel momento in cui sul tema dell'energia si incrociano diverse notizie. Vediamole in ordine.

Germania

Negli ultimi mesi il programma energetico tedesco è stato fortemente contestato sia dall'opposizione che dai movimenti ambientalisti. Sviluppato dopo l'incidente di Fukushima, esso prevede per l'anno 2020:

1) una riduzione del 40% delle emissioni di gas serra, e del 20% del consumo di energia;

2) un aumento progressivo dell'uso delle fonti rinnovabili fino a raggiungere il 35% dell'elettricità prodotta;

3) una riduzione dei consumi per l'elettricità (meno 10%) e per il riscaldamento (meno 20%).

Giappone

È notizia recente che per la prima volta da 42 anni il Giappone non utilizza più energia elettrica prodotta da centrali nucleari. Certo molti osservatori hanno mancato di sottolineare che si tratta di una misura ampiamente prevista, presa allo scopo di effettuare controlli di sicurezza sulle centrali. Non si tratta di un abbandono totale, ma è fuor di dubbio che le pressioni per sigillare i reattori in maniera definitiva ci sono.

Da un lato le previsioni su possibili black out durante la scorsa estate – periodo caldo, in tutti i sensi – non si sono verificate. Quest'anno però la pressione sulla rete elettrica giapponese sarà ancora maggiore: nessuna centrale nucleare sarà in funzione per fornire energia e ci si dovrà affidare soltanto alle fonti “convenzionali”. Questo, secondo alcuni, sarà il test definitivo per il Giappone: se il periodo critico verrà superato senza dover ricorrere a black out programmati sarà segno che il paese del Sol Levante è in grado di imboccare una strada energetica nuova. In caso contrario, pare inevitabile riaccendere la reazione atomica in almeno qualcuna delle centrali ora spente.

Bisogna poi ricordare che il Giappone è in una situazione molto delicata: la Germania può cambiare la propria politica energetica con maggiore rapidità, perché in caso di emergenza resta in grado di attingere alle reti dei paesi confinanti. L'isola asiatica, al contrario, si trova più isolata e deve contare in larga parte soltanto sulle proprie forze. Ragioni storiche e culturali spingono verso questa stessa direzione.

Anche in questo caso la chiusura degli impianti è stata compensata da un maggiore ricorso ad altre fonti: soprattutto petrolio, gas naturale liquefatto e olio combustibile. L'obbiettivo di Kyoto comportava una riduzione del 6% nell'emissione di gas serra. Nel 2010 il Giappone non aveva raggiunto questo traguardo, ma quanto meno era riuscito a tornare ai livelli del 1990. Ora invece le previsioni del Ministero dell'Ambiente suggeriscono un aumento del 15%, il che vanificherebbe gran parte degli sforzi fatti sinora. Anche qui, dunque, in vista di Durban sussistono grosse difficoltà.

Francia

Nonostante le roboanti dichiarazioni del programma di Hollande, secondo cui la Francia avrebbe dovuto chiudere una ventina di reattori e passare dal 75 al 50% nella produzione nucleare di elettricità, già dall'ultimo dibattito elettorale la posizione del presidente eletto si era ammorbidita. Del resto la Francia è uno dei paesi che ha più da perdere nell'abbandono del nucleare, e allo stesso tempo è uno di quelli che emette meno gas serra: circa un terzo del Giappone e metà della Germania.

Questo però ha un prezzo: se per il paese transalpino il protocollo di Kyoto non prevede alcun obbiettivo, esso si trova le mani legati da un investimento molto costoso e che non può essere semplicemente interrotto a causa della mancanza di alternative praticabili. Tuttavia, a Durban come a Kyoto, la Francia si troverà ancora in una posizione negoziale di forza.

 

Politiche energetiche internazionali e Rio+20

Intervista a Valerio Rossi Albertini, ricercatore dell’Istituto di Struttura della Materia del Cnr, esperto in materiali per lo stoccaggio di energia e divulgatore scientifico - di Marco Milano

La notizia della chiusura delle centrali nucleari giapponesi è arrivata come un nuovo tsunami, a un anno da Fukushima. E’ un segnale forte nel quadro delle politiche energetiche internazionali o, invece, è più opportuno considerarla come scelta dipendente dalla sola situazione interna del Paese? 
Sicuramente la situazione del Giappone è emblematica di un nuovo paradigma di pensiero riguardo a questi temi. Ufficialmente l’ultimo dei 51 reattori è stato spento per controlli dei parametri sicurezza. In effetti, però, gli spegnimenti inizialmente previsti a scadenza di ogni 13 mesi, sono avvenuti tutti contemporaneamente. Al momento non si sa se e quando verranno riattivati. Perché questo? Bisogna ricordare che a seguito dei fatti di Fukushima, la reazione di terrore è stata talmente forte che l’opinione pubblica ha in qualche modo imposto alle autorità il suo volere. Solitamente, invece, la popolazione si rimetteva interamente alle decisioni governative - non si erano mai viste finora manifestazioni pubbliche in piazza simili. Questo significa che i Paesi che subiscono incidenti di quella entità, ma anche più modesti, sono molto cauti nel proseguire sulla strada del programma nucleare. Di conseguenza, però, la metà di quella produzione è stata recuperata insistendo su un processo di razionalizzazione dell’energia. Nell’immediato futuro sarà il gas naturale a sopperire le carenza. Questa è la ‘soluzione tampone’ più efficace in attesa di un passaggio alle rinnovabili, che invece non producono emissioni di gas serra. 

E il Giappone arriva dopo scelte analoghe di altri Paesi Europei, come la Germania 
In realtà la Germania aveva deciso l’uscita dal nucleare prima di Fukushima, e in seguito è stato accelerata. Perfino la Francia, il più Paese più nuclearizzato del mondo, con una produzione del 75-80%, ha preso decisioni importanti in questo senso. Nel dibattito che c’è stato prima dell’ultimo confronto tra Sarkosy e Hollande si è parlato proprio di questo. L’attuale presidente disse che pur non avendo intenzione di smantellare il parco nucleare - per motivi storici e interessi economici - ha dichiarato di voler ridurre nel prossimo decennio dal 75 al 50% la quota di energia elettrica da nucleare, e  di spegnere subito una delle centrali a maggior rischio, in Alsazia. E’ solo l’inizio di una contrazione, ma è un’inversione concettuale importante: la Francia non punta più sul nucleare all’interno dei proprio confini. Poi ci sono Paesi come la Cina che, invece, iniziano a puntare sul nucleare. Ma a parte le considerazioni specifiche per ogni caso, c’è il fattore di carattere economico che non può essere ignorato: l’uranio è una risorsa non illimitata, la stima attuale prevede un tempo massimo che copre i 40 anni. E’ vero che il nucleare è esente da emissioni di gas serra –in questo si può ovviare con le rinnovabili – ma la sua economicità non potrà durare a lungo, appena si intaccheranno le scorte, i prezzi inizieranno inevitabilmente ad aumentare. Iniziare a costruire adesso centrali non potrà convenire e il punto di inversione con le rinnovabili è molto più vicino. 

Tra un mese, a Rio de Janeiro, uno dei temi principali di discussione sarà legato alla green economy, a discapito forse della ricerca scientifica. Quale può essere il ruolo e il contributo che gli attori della scienza possono portare a Rio? 
La loro posizione deve essere centrale, la green economy è innescata a partire dall’innovazione. In ambito economico sono molti i protagonisti e le parti, ma se non c’è innovazione tecnologica, tutto salta.   Ma non è lo scienziato che può imporre la propria presenza, tocca agli organizzatori e a chi ricopre posizioni decisionali. In italia, ad esempio, abbiamo tanti brevetti di sviluppo di nuove tecnologie che possono portare ancora più in alto i successi già raggiunti – nel 2011 siamo stati il più grande mercato fotovoltaico del mondo, compresi Stati Uniti, Giappone e Spagna. Per esportare all’interno di una filiera produttiva, c’è bisogno però di uno sforzo di consapevolezza collettiva che possa, poi, far entrare in gioco il mondo imprenditoriale. 

Quale può essere allora un modo efficace, per un progetto come Scienza+20, per avanzare proposte relative alla posizione della scienza in questo dibattito? 
Stimolare i mezzi di comunicazione e poi la politica è fondamentale. Bisogna far comprendere l’importanza di una notizia scientifica, attraverso gruppi di interesse di chi fa ricerca con una vocazione tecnologica, soprattutto per sollecitare le istituzioni. Ma non può essere solo un’iniziativa degli scienziati, in questo un ruolo chiave lo deve avere anche la società civile.

Articoli correlati

Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Il soffocamento delle università e l’impoverimento del Paese continuano

laboratorio tagliato in due

Le riduzioni nel Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) limitano gli investimenti essenziali per università e ricerca di base: è una situazione che rischia di spingere i giovani ricercatori a cercare opportunità all'estero, penalizzando ulteriormente il sistema accademico e la competitività scientifica del paese.

In queste settimane, sul tema del finanziamento delle università e della ricerca, assistiamo a un rimpallo di numeri nei comunicati della CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane) e del MUR (Ministero della Università e della Ricerca). Vorremmo provare a fare chiarezza sui numeri e aggiungere alcune considerazioni sugli effetti che la riduzione potrà avere sui nostri atenei ma anche sul paese in generale.