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Cure stabilite da giudici, attori e cantanti

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Cercare di rispondere alle ragioni del cuore con quelle della scienza, alle emozioni con la razionalità, a un verdetto medico infausto con la logica delle regole, in tutta la loro freddezza, può apparire una battaglia persa in partenza. Sembra infatti che nemmeno la lettera traboccante di empatia di Luigi Naldini, direttore dell’Istituto Telethon di Milano (Hsr-Tiget), a nome di Telethon, sul Corriere della Sera, sia riuscita a convincere i genitori di Sofia, e gran parte dell’opinione pubblica, che ricorrere a cure miracolistiche, prive di alcun fondamento scientifico, non è il meglio che si può fare per i propri figli nemmeno davanti a una diagnosi che lascia poco margine alla speranza. E alla fine anche il ministro della salute Renato Balduzzi, chiamato in causa personalmente nella vicenda, dopo una serie di tentennamenti e tentativi di mediazione, ha ceduto alle pressioni mediatiche. Con una dichiarazione non priva di ambiguità, ha autorizzato la piccola a ricevere un secondo ciclo di cellule staminali mesenchimali, e di farlo agli Spedali Civili di Brescia, come chiedevano i genitori, e non eventualmente in una struttura più adeguata, né nell’ambito di una corretta sperimentazione, come era stato nel frattempo ipotizzato.

«Pare che l’esperienza del caso Di Bella, e purtroppo di molti altri, non abbia insegnato nulla» ha commentato il genetista Bruno Dallapiccola, direttore scientifico dell’Ospedale Bambino Gesù e Coordinatore per l’Italia di Orphanet, il portale delle malattie rare. Come rara, e finora senza una cura, è la malattia di Sofia,  la leucodistrofia metacromatica, una gravissima patologia neurodegenerativa che porta a paralisi e cecità, e nella sua forma infantile in media non consente la sopravvivenza oltre pochi anni dalla diagnosi. Una condizione fino a poco tempo fa sconosciuta ai più, ma portata alla ribalta da un servizio televisivo delle Iene, secondo il quale alla bambina sarebbe stato negata «l’unica cura disponibile per questa malattia». La denuncia è stata ribadita con parole ancora più dure, sulle pagine del Corriere della Sera, da Adriano Celentano, cui hanno fatto eco gli appelli di altre personalità del mondo dello spettacolo, da Gina Lollobrigida a Fiorello.

Sentenze invece di prescrizioni mediche

Il trattamento a base di cellule staminali mesenchimali che, secondo questi testimonial famosi, -- sicuramente in buona fede, ma altrettanto innegabilmente poco competenti -- potrebbe salvare la bambina, era stato sospeso qualche mese fa in seguito a un’ispezione dei NAS e dell’AIFA presso il centro di Brescia. Ripresa per ordine dei giudici in una ventina di pazienti, la terapia è stata negata invece ad altri tre, tra cui Sofia, per una diversa presa di posizione da parte di altri tribunali, in particolare quello di Firenze.

Davanti a questa incertezza si può comprendere lo sconcerto della mamma di Sofia, che ha dichiarato: «Mi chiedo perché, in un Paese che si dice civile e democratico, la stessa cura venga somministrata regolarmente ad alcuni e negata ad altri con l'unica discriminante del potere decisionale di un giudice».

Su questo gli scienziati sono d’accordo: queste scelte non dovrebbero essere nelle mani dei magistrati. Di altro parere sembra invece il Ministero, con una posizione che non contribuisce a fare chiarezza: se da un lato ribadisce infatti che il trattamento è preparato «non in conformità alle previsioni di legge e in laboratorio non autorizzato», secondo quanto le autorità competenti, ISS e l’AIFA, hanno già segnalato da mesi, dall’altro però delega ai giudici la facoltà di scegliere, o meglio, riconosce l’impossibilità di opporsi a una loro decisione in merito. E in tal modo va anche contro il pronunciamento del novembre scorso dello stesso Ministero secondo cui «per ragioni di sicurezza potranno essere utilizzati per terapie cellulari solo prodotti rilasciati da cell-factory autorizzate dall’Aifa ». L’eccezione di Sofia sarebbe motivata dal fatto che il primo trattamento non sembra aver provocato effetti collaterali di rilievo. Spiegazione poco credibile dal momento che tali effetti possano verificarsi anche in seguito. Come può accadere con ogni terapia e come sembra essere capitato in altri casi, per esempio quello del malato di Parkinson deceduto al secondo ciclo, su cui, insieme a molti altri, sta indagando da anni la procura di Torino.

Storia di speranze deluse

Il trattamento di cui si parla è quello a base di cellule staminali mesenchimali fornito dalla Stamina Foundation del professor Davide Vannoni. Il titolo di professore non deve trarre in inganno: Vannoni non è un medico, ma un laureato in lettere che insegna psicologia della comunicazione all’Università di Udine. Al mondo della medicina è arrivato come paziente, quando, nel 2001, fece un viaggio della speranza in Russia per curare con le staminali una paralisi faciale conseguente a un’infezione da herpes zoster. Entusiasta dei risultati, riportò con sé al rientro due medici ucraini che lo aiutarono a fondare a Torino la Stamina Foundation, per curare con le cellule staminali mesenchimali una lunga serie di malattie, dal morbo di Parkinson alla malattia di Niemann Pick, dalla psoriasi all’ictus, dalla sclerosi multipla all’atrofia muscolare spinale. Quest’ultima, in sigla SMA, è la malattia della piccola Celeste, coinvolta l’anno scorso in un caso simile a quello di cui oggi è involontaria protagonista Sofia: una battaglia a colpi di sentenze contrapposte da parte dei giudici, con pronunciamenti contraddittori e ambigui da parte delle autorità.

Da quando infatti, nel 2007, l’Italia ha recepito la normativa europea che assimila le cure con le staminali ai farmaci, anche queste procedure devono autorizzate sulla base di studi clinici che ne dimostrino sicurezza ed efficacia. Impossibilitata a proseguire la sua attività sul territorio italiano, la Stamina Foundation si trasferì quindi a San Marino, dove la società “no profit” continuò a trattare pazienti provenienti da tutto il Paese, attratti dall’illusione di guarire le loro malattie senza dover partire per la Cina o la Thailandia, tipiche destinazioni di questi drammatici, e in genere deludenti, viaggi dello speranza

La svolta venne dall’incontro con Marino Andolina, responsabile dei trapianti di midollo all’IRCCS Burlo Garofolo di Trieste, che portò nel suo ospedale il metodo di Vannoni, attaccandosi alla legge che consente l’uso di “terapie compassionevoli”, sebbene non autorizzate, quando non vi siano altre opzioni terapeutiche ed esistano prove sufficienti, sebbene non definitive, di una loro sicurezza ed efficacia. «Prove che in questo caso, però, non sono mai state presentate» ha commentato Elena Cattaneo, direttore del Centro di ricerca sulle cellule staminali dell’Università degli Studi di Milano.

Nel novembre 2009, quindi, il procuratore di Torino Raffaele Guariniello, che già da anni stava alle calcagna di Vannoni e dei suoi, indagandoli per associazione a delinquere finalizzata alla «truffa e alla somministrazione di prodotti medicinali imperfetti e pericolosi per la salute pubblica» per l’attività svolta a Torino, dispone un’ispezione dei NAS, che interrompono i trattamenti nel centro di Trieste. Nonostante questo intervento, due anni dopo, Stamina Foundation trova di nuovo spazio in una struttura pubblica di eccellenza come gli Spedali Civili di Brescia. Merito, si dice, di un dirigente della sanità della Regione Lombardia, il primo a essere curato nella nuova location.

Ma anche qui ben presto arrivano i controlli, che mettono di nuovo in evidenza tutte le ombre di questa vicenda.

Un trattamento misterioso come la ricetta della Coca Cola

«Nessuno sa esattamente in che cosa consista questo trattamento» ha dichiarato Elena Cattaneo. Il segreto sulla metodica, infatti, è conservato rigorosamente, come la ricetta della Coca Cola. Si dice solo che le cellule prelevate dal tessuto osseo del paziente, prima di essere reinoculate in vari cicli successivi per via spinale ed endovenosa, siano trattate in maniera diversa da quel che si fa in altri laboratori italiani. Diverse sarebbero anche le dosi e le modalità di somministrazione. Ma non ci sono studi pubblicati, e nemmeno presentazioni a congressi. Anzi, non c’è certezza nemmeno sul fatto che a essere iniettate siano cellule staminali mesenchimali, come ribadisce il rapporto dell’AIFA, un documento da leggere per capire la lunga lista di ragioni per cui la sospensione della terapia era più che giustificata: non solo la struttura e le condizioni igieniche erano inadeguate, ma non sono stati riscontrati protocolli, né le cellule erano analizzate e caratterizzate, col paradosso che perfino i medici che le somministravano, dipendenti della Stamina Foundation, non erano in grado di dire esattamente di che cosa si trattasse.

Secondo il Ministero, nei brevetti presentati da Stamina Foundation, fino ad oggi unica documentazione disponibile, «il metodo è descritto in modo superficiale e incongruo e prevede trattamenti con prodotti di origine animale vietati per uso clinico. Non sono mai emersi né mai sono stati in precedenza riportati da Stamina studi preclinici effettuati su animali prima di eseguire i trattamenti nei pazienti in clinica». Inoltre «i pazienti che ricevevano le cellule prodotte da Stamina erano trattati in alcuni casi con cellule proprie (autotrapianto), in altri casi con cellule provenienti da donatori esterni (allotrapianto), in altri casi ancora - e ciò ha destato profonda preoccupazione - con cellule provenienti da altri pazienti malati, con la possibile trasmissione di gravi patologie».

Legittimo chiedersi quindi come è stato consentito l’accordo con la struttura pubblica lombarda, sebbene la procedura non rientri nei criteri di una sperimentazione clinica né in quelli del decreto Turco-Fazio, spesso chiamato in causa nel dibattito. «Per rientrare nelle cosiddette “cure compassionevoli” infatti un trattamento, pur non avendo concluso l’iter di approvazione, deve aver dato almeno qualche prova di sicurezza ed efficacia» ha puntualizzato Bruno Dallapiccola.

Prove che in questo caso sono del tutto inesistenti nella letteratura scientifica internazionale per malattie come quelle della piccola Sofia. L’unico dato riguarda l’atrofia muscolare spinale (SMA), e non è positivo. «I risultati promettenti ottenuti in altre patologie, come la sclerosi laterale amiotrofica, più nota come SLA, o le lesioni spinali da trauma, hanno spinto alcune famiglie a chiedere di sperimentare la cura sui loro bambini affetti da SMA di tipo 1» ha scritto in una lettera a Neuromuscular disorders un gruppo di esperti dell’Ospedale Burlo Garofolo di Trieste. «Per questo, su ordine del tribunale, abbiamo dovuto trattare cinque piccoli pazienti con cellule staminali mesenchimali provenienti dal laboratorio autorizzato dell’Ospedale San Gerardo di Monza». Il bilancio è sconfortante: cinque casi, cinque fallimenti, per cui gli autori esprimono tutta la loro preoccupazione per i rischi di una ricerca clinica indirizzata dalle sentenze dei magistrati.

E in questo caso, almeno, si è trattato di uno studio effettuato con tutti i criteri richiesti. In quello delle terapie effettuate da Stamina Foundation a Brescia, invece, sempre secondo il Ministero, «le cellule prodotte dopo stimolazione in coltura hanno una irrilevante attività biologica ai fini della rigenerazione nervosa, che scompare dopo 24 ore, e la dose di cellule somministrate è minimale rispetto agli standard di terapie analoghe pubblicati in letteratura».

I rischi non sono solo quelli per la salute

In mancanza di cure sicuramente efficaci, tuttavia, davanti a una bimba in quelle condizioni, è comprensibile il desiderio di tentare il tutto per tutto. Se non fosse che in questo caso lo stesso Ministero ravvisa «un concreto pericolo per i pazienti a causa delle modalità di conservazione dei campioni di cellule da trapiantare, preservati in modo approssimativo, identificati da etichette scritte a matita e di non chiara interpretazione e quindi facilmente confondibili». Come se ciò non bastasse, «in uno dei due campioni esaminati sono stati riscontrati inquinanti in grado di determinare rilevanti effetti biologici avversi come il rigetto cellulare e altre reazioni immunologiche».

E non sono questi gli unici rischi. «Adottare un metodo ignorando le normali modalità della ricerca scientifica può comprometterne lo sviluppo, perfino nel caso fosse valido» ha spiegato Luigi Naldini  a Riva del Garda. «Se non si seguono le regole, possono sfuggire informazioni preziose e si possono sopravvalutare o sottovalutare sia i rischi sia i benefici. E’ successo così anche con la terapia genica: dopo un incidente ci vogliono anni prima che la comunità scientifica, l’opinione pubblica, l’industria recuperino fiducia in una strada che è apparsa inutile o pericolosa». La trasparenza dei dati, la loro riproducibilità, la sperimentazione sugli esseri umani solo dopo che le prove di laboratorio hanno indicato la strada da seguire, limitando al minimo l’eventualità di effetti collaterali gravi, sono criteri imprescindibili per i ricercatori. Criteri invece del tutto ignorati nella messa a punto di questo trattamento che, come ha ripetuto Elena Cattaneo, sembra riportare indietro l’orologio del tempo, sfumando i confini tra medicina e alchimia.

«Accusare i ricercatori o il ministro della salute di essere freddi burocrati che si disinteressano delle persone non ha senso» insiste Dallapiccola. «Se il trattamento dimostrasse di funzionare ne saremmo tutti più che felici». Poco credibile in questo caso è anche il sospetto che siano coinvolti gli interessi delle case farmaceutiche, che raramente investono, e possono aspettarsi ritorni economici significativi, da queste patologie.

«Non è vero poi che nel caso di pazienti gravi come Sofia si deve provare il tutto per tutto, riducendoli a cavie, perché “tanto non c'è altro da fare”» è intervenuto Renato Pocaterra, padre di una bambina affetta da atrofia muscolare spinale. «Anche a loro si deve rispetto e, proprio perché la loro vita è destinata a essere breve, il loro tempo è ancora più prezioso».

Le risposte della scienza

La frustrazione dei ricercatori davanti alla vicenda della piccola Sofia è tangibile: «La sua eco mediatica ha sconvolto centinaia di famiglie con cui stavamo percorrendo un percorso faticoso ma che dà i suoi risultati» ha dichiarato Eugenio Mercuri, responsabile della neuropsichiatria infantile presso il Policlinico Gemelli di Roma. «E questo proprio ora che, grazie a Telethon, si stanno cominciando a raccogliere i primi risultati anche nei confronti di una malattia fino a poco tempo fa inesorabile come la leucodistrofia metacromatica». Nel 2010 è infatti iniziato uno studio clinico con una terapia genica messa a punto all’Istituto Telethon di Milano (HSR-Tiget), che ha coinvolto otto bambini ancora asintomatici provenienti da tutto il mondo. «Dopo tre anni, quando ci aspetteremmo ormai di osservare i primi segni di deterioramento, vediamo invece che stanno bene e crescono come i loro coetanei» ha riferito Naldini, che ha precisato: «Eppure non possiamo ancora parlare di cura. Per tutelare i pazienti e assicurare il futuro sviluppo delle terapie, se si confermeranno sicure ed efficaci, non ci sono scorciatoie. Bisogna seguire le regole». Roberta Villa

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