fbpx La narrazione distorta dei medici nei campi nazisti | Scienza in rete

I medici nazisti non erano medici, erano nazisti

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Manifestazione no vax, Italia 2021. Fonte: Corriere della sera.

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Ad Amsterdam un giudice ha imposto nei giorni scorsi a un deputato di cancellare quattro messaggi su Twitter nei quali si stabiliva un parallelo tra le misure anti-Covid-19 e l’Olocausto. Altrimenti avrebbe dovuto pagare 25 000€ di multa per ogni giorno che fossero rimasti visibili. Per il giudice quei messaggi contribuivano a un «clima che incoraggia l’antisemitismo». Niente a che vedere con la censura, visto che il deputato poteva criticare le misure sanitarie in qualsiasi altro modo legale. Paragonare le persone non vaccinate a “nuovi ebrei”, postare foto che accostano bambini che non possono oggi frequentare un centro di vacanza a bambini con la stella di Davide nel lager di Buchenwald e i governi che stabiliscono le misure sanitarie a Hitler o al regime nazista è una forma di negazionismo dell’Olocausto. Il primo ministro polacco, in un paese dove l’antisemitismo interessa circa la metà della popolazione, ha definito un vergognoso esempio di «follia retorica antivaccinista» (non di antisemitismo), l’uso come banner per una manifestazione di propaganda di destra e circolata di Twitter della scritta “La vaccinazione rende liberi”, a imitazione di quelle all’ingresso dei campi di sterminio “Arbeit macht frei”. Già pochi mesi dopo le scelte di alcuni governi occidentali di rendere obbligatoria la vaccinazione anti-Covid per alcune specifiche categorie, cominciava a circolare, soprattutto negli Stati Uniti l’argomento per cui tale costrizione equivaleva alla dittatura sanitaria imposta da Hitler con le leggi eugenetiche. L’argomento ha circolato anche in Italia, almeno dopo l’introduzione del green pass, per cui abbiamo cominciato a veder per strada persone apparentemente normali con la stella di David disegnata su cartelli e abiti, che veniva associata al lasciapassare verde.

La reazione è stata da molte parti di indignazione. Al di là dell’assurdità intuitiva dei paragoni tra vaccinazione/green pass e Hitler/Olocausto, che capisce anche un bambino non in malafede, gli argomenti esposti anche da noti filosofi per difendere tali paragoni dovrebbero interrogare sulle ragioni per cui, dopo oltre vent'anni dall'istituzione del Giorno della Memoria, accada di udire incredibili inesattezze, non solo da parte di persone di scarsa cultura.

Non esiste una scienza o una medicina nazista

Il fenomeno dovrebbe coinvolgere anche la comunità scientifica, perché equiparare restrizioni o vaccinazioni anti-Covid alle leggi sanitarie naziste implica la tesi per cui le dottrine dell’igiene razziale e le misure eugeniche o le pratiche mediche empiriche introdotte nei campi di concentramento erano sbagliate solo in quanto implicavano la coercizione, a prescindere dalla loro natura e scopo. Che è una sciocchezza. Perché quasi nulla di quello che si faceva in ambito medico nel quadro dell’ideologia nazista aveva a che fare con la scienza medica. Nemmeno per gli standard del tempo.

Nelle discussioni sull’etica della scienza, il messaggio che di solito viene trasmesso è che gli abusi sperimentali nei campi di sterminio nazisti erano conseguenza di un’occasionale e patologica hybris scientifica (un’eco perversa del baconiano “sapere è potere”), riuscendo di regola, quando si parla di quei fatti, a non nominare Shoah o Olocausto, cioè le basi culturali e le conseguenze di quella tragedia. Da circa un decennio o più, diversi enti privati o centri accademici, soprattutto negli Stati Uniti e in Israele, ma anche da parte dell'Unesco, svolgono intense attività di formazione rivolte a studenti di medicina e operatori sanitari che insegnano l’Olocausto con lo scopo di rafforzare la comprensione dell’etica medica o bioetica. In Italia, dal 2011, la Sapienza Università di Roma e la Fondazione Museo della Shoah organizzano corsi e iniziative sull’Olocausto e il processo che ha portato da quella tragedia all’attuale pratica medica, la bioetica, fondata sul rispetto della persona. Il 25 ottobre 2021 è stato siglato un accordo quadro per studiare e diffondere la memoria della Shoah, soprattutto negli aspetti che la collegano agli abusi medico-sanitari, tra Sapienza, Fondazione Museo della Shoah, Unione delle Comunità ebraiche italiane, Comunità ebraica di Roma, Fondazione Centro Documentazione Storia Ebraica Contemporanea e Museo Nazionale dell'Ebraismo Italiano e della Shoah. Scorrendo i programmi dei corsi offerti a livello internazionale via internet, a spiccare è la concretezza dei messaggi che vangono trasmessi e che convergono nella direzione di spazzar via, almeno nella mente di chi si dedica alla cura degli altri, alcuni miti sull’Olocausto. Per esempio, che i medici nazisti non avevano un’etica, quando in realtà erano guidati da un codice deontologico disumano e antisemita appositamente redatto nonché da valori morali razzisti diffusi nel paese; o ancora che l’eugenica nazista è una valida analogia per giudicare gli usi attuali della genetica, o il dibattito sull’eutanasia. 

Da circa settant’anni si discute sulla natura delle pratiche condotte da medici o ricercatori nei lager nazisti. Un tema di fondo è se i dati raccolti attraverso quelle esperienze di abusi, torture e omicidi avessero un valore scientifico, e se i medici li possano utilizzare nell’interesse generale. Ovvero se non vadano cancellati dalle conoscenze mediche insieme a chi li aveva ottenuti. In realtà, con l’Olocausto, la medicina come pratica sanitaria alla ricerca di nuove conoscenze e di innovazioni terapeutiche non c’entrava quasi nulla. Esiste una letteratura qualificata la quale mostra che i medici tedeschi aderirono al nazismo perché erano professionalmente, economicamente e socialmente avvantaggiati nell’intercettare l’ideologia razzista e suprematista. Non fu un caso quindi che le leggi eugeniche naziste abbiamo prodotto la tragedia che conosciamo, mentre in un paese come gli Stati Uniti dove decine di stati avevano leggi eugeniche i medici non le avallarono (soprattutto dopo il 1935). Non era tanto la mancanza del consenso informato o della volontarietà delle persone abusate sperimentalmente, a denotare la tragedia della Shoah, dato che il consenso non era ancora in uso nella pratica sperimentale, tranne, guarda caso, in Germania in base a un’ordinanza del 1931 (ma inutilmente come è ovvio), quanto la disumanizzazione delle vittime e il disimpegno morale, il previsto sacrificio e la mancanza di una metodologia per cui quegli abusi potessero fornire qualche informazione medico-scientifica.

Sarebbe quindi il caso di smetterla di parlare di “sperimentazioni” nel caso dei medici nazisti, come se fossero equiparabili ad altre sperimentazioni cliniche, tranne appunto per la mancanza di consenso. Dall’abuso medico delle vittime nei campi di sterminio non uscì un solo dato di interesse scientifico o clinico, secondo gli standard accettati. Tra i pochissimi studi (a parte alcuni aneddoti), che sono stati a lungo citati nella letteratura medica vi erano quelli relativi agli esperimenti di ipotermia a Dachau e Buchenwald diretti da Sigmund Rasher, sono risultati privi di basi metodologiche e manipolati, ovvero come ha scritto il più autorevole bioeticista, Arthur Caplan, «furono condotti da sadici inetti per mutilare e torturare, e non meritano di essere descritti come scienza, anche quando si tratta di medici». Anche Primo Levi, che fu testimone, esprime questo concetto in Sommersi e salvati.

Attenzione alla "reductio ad Hitlerium"

Se è vero che la bioetica nasce dalle ceneri della Shoah, dalla de-umanizzazione di persone descritte come parassiti che erano abusate in contesti ingannevolmente presentati come di interesse medico-sanitario, è altrettanto vero che usare gli abusi nazisti come analogia in contesti politico-istituzionali liberali è fuorviante e diseducativo. Per Arthur Caplan, impiegare l’analogia nazista nelle discussioni su scienza e società è come «lanciare una bomba atomica» spazzando via ogni possibilità per un confronto civile e costruttivo. Appunto perché non esistono termini di paragone possibili per la Shoah. Fa parte di una strategia retorica che mira a squalificare argomenti o decisioni non condivise usando la cosiddetta reductio ad Hitlerum, come l’ha definta il filosofo della politica Leo Strauss: basta dire di qualcosa che l’ha fatta o l’ha detta Hitler e la discussione non può andare oltre. Il nazismo e Hitler sono talmente dei topoi nella discussione politica comune, che esiste una cosiddetta legge della memetica, la “legge di Goodwin”, per cui quanto più a lungo si protrae una discussione su Internet, la probabilità che qualcuno tiri in ballo Hitler o il nazismo, per chiuderla lì, si approssima a uno.

Sarebbe un compito delle scuole fornire gli elementi conoscitivi corretti per leggere il fenomeno dell’Olocausto, nella sua unicità e nelle sue cause riconducibili ad aspetti da sempre presenti della natura umana, e per capire in che misura fatti che possono accadere oggi abbiano natura diversa, anche se superficialmente o in malafede qualcuno vi trova somiglianze.

Nel mondo occidentale, dove hanno dato il meglio, la scienza e la medicina scientifica sono spesso percepite o definite come prive di un’etica o indifferenti rispetto al benessere delle persone. Il che non è vero. In particolare, anche alla luce della sfiducia verso l’approccio scientifico alla pandemia che sta circolando nel mondo occidentale, si dovrebbe evitare di assecondare la distorcente narrazione che inputa alla scienza e alla medicina le nefandezze del nazismo. Valori intrisi di razzismo, antisemitismo, metafisica del suprematismo ariano, conquistarono medici e scienziati, o presunti tali, così come ben noti filosofi come Martin Heiddeger e Carl Schmitt. Il che ci dice anche che non necessariamente la medicina e la scienza devono aspettarsi dalla filosofia o dalle scienze umane insegnamenti etici.

 

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