La scienza è implicata
in diversi aspetti del funzionamento sociale del mondo moderno.
L’educazione,
la sanità, la difesa, la comunicazione, i trasporti, il lavoro e i rapporti
internazionali di un paese economicamente competitivo sono resi possibili e
condizionati dalla presenza della scienza come attività umana: grazie alle
conoscenze scientifiche è possibile esercitare il controllo su processi
naturali che, spontaneamente, non darebbero certo luogo agli ambienti in cui
viviamo e, più in generale, a “come” viviamo.
Ne deriva inevitabilmente che gli
scienziati possono essere culturalmente e politicamente influenti. I
dipartimenti universitari scientifici e tecnologici sono notoriamente quelli
più finanziati e più popolati da personale strutturato e i governi delle
nazioni che più investono in ricerca e sviluppo tecnologico si avvalgono di consulenze
scientifiche e tecniche per affrontare diversi problemi sociali.
Per alcuni, che sono
molti nell’ambito della popolazione che ha scelto di acculturarsi nel campo
umanistico, questo viene ritenuto un problema. Se c’è una cosa su cui molti
laici e molti religiosi vanno d’accordo, soprattutto in Italia, è che la
scienza rappresenti una minaccia per la libertà dell’uomo, che si estrinseca
nell’idea che solo una cultura umanistica produca un modo di pensare sanamente
orientato verso i valori democratici.
Si potrebbe ricordare
che i temi della cultura e della formazione umanistica erano già coltivati nei
periodi premoderni, ma non hanno mai prodotto società caratterizzate dal
riconoscimento di quei valori che da un certo momento nella civiltà occidentale
hanno assunto lo statuto di “diritti fondamentali”.
Si potrebbe anche dire
che alcuni umanisti cari al modo di pensare postmoderno e che hanno costruito
la loro fortuna nel solleticare l’avversione alla scienza, come il filosofo
esistenzialista Martin Heidegger o taluni suoi nipotini, non sembra abbiano
apprezzato o apprezzino i valori democratici.
E sono stati sempre
dei pensatori umanisti, come Hans Jonas, a diffondere un’idea di responsabilità
umana relativamente all’attività scientifica di estrema negatività. Anche
influenti pensatori più aperti alla modernità e che riconoscono alla scienza un
ruolo culturale importante nell’espansione umana, nondimeno, hanno indicato
nella scienza e nella comunità scientifica fattori che possono minacciare la
convivenza civile.
Per esempio Ralf Dahrendorf e Jürgen Habermas hanno scritto pagine preoccupate sull’impatto politico e sociale della scienza. Persino sul versante del pensiero più liberale, che storicamente trae ispirazione dall’impianto epistemologico del metodo sperimentale, si trovano ragionamenti singolarmente avversi all’uso di approcci naturalistici nelle scienze sociali in autori che al pensiero scientifico devono molto, come Friedrich Hayek. Poi naturalmente ci sono gli esponenti religiosi che, particolarmente nell’era di Joseph Ratzinger, hanno dedicato non pochi strali alla scienza, accusando gli scienziati di essere preda di una hybris che minaccia la libertà umana.
Se si perde la memoria storica…
È un fatto singolare,
ma non sorprendente data la natura della memoria umana, che si sia persa la
conoscenza storica del ruolo che la scienza ha svolto nella nascita della
modernità e in particolare nel costruire le condizioni epistemologiche e
psicologiche per la maturazione di comportamenti compatibili con una convivenza
civile democratica.
Lo scienziato e divulgatore Timothy
Ferris ha pubblicato un libro intitolato The science of
liberty. Democracy,
reason and the laws of nature, in cui sostiene che la scienza è stata
all’origine della rivoluzione democratica. Come egli ricorda, una frazione consistente
di menti scientifiche fu direttamente coinvolta nelle rivoluzioni che portarono
all’invenzione dei diritti umani fondamentali e quindi alla nascita delle
democrazie moderne, immediatamente prima dell’Illuminismo, dando luogo alla
rivoluzione scientifica. La ragione per cui la scienza diede questo contributo,
secondo Ferris, è che richiedeva libertà e produceva benefici sociali, creando
in questo modo un rapporto simbiotico in cui le nazioni più libere erano
maggiormente in grado di portare avanti l’impresa scientifica, che a sua volta
ricompensava con conoscenze, benessere e potere.
Ferris identifica tra
le caratteristiche peculiari dell’impresa scientifica il fatto che la scienza è
antiautoritaria, si autocorregge, richiede la produzione di specifiche risorse
intellettuali, è potente nell’azione trasformatrice della natura ed è
un’attività sociale. Si tratta di caratteristiche da tempo rilevate da scienziati,
filosofi e sociologi nella stagione in cui la scienza era un modello di
conoscenze, ovvero prima delle post-moderne derive costruttiviste e
relativiste.
Scienza e democrazia condividono aspetti epistemologici ed etico-politici anche
secondo pensatori molto diversi tra loro, come John Dewey, Michael Polanyi,
Joseph Needham e Karl Popper. Questi gli aspetti in comune: tolleranza,
scetticismo, rifiuto dell’autorità, rispetto dei fatti, libertà di
comunicazione e libertà di accesso ai risultati.
Si potrebbe discutere
del fatto che l’infezione di politica e ideologia che ha colpito
l’epistemologia dopo gli anni
Cinquanta del secolo scorso ha quasi cancellato, a parte le tesi di Ferris e
pochi altri, i pensieri filosofici positivi (non necessariamente positivistici)
sui rapporti tra scienza e democrazia, per dar luogo a quelli negativi o di distanziamento.
È però più interessante dire che le spiegazioni finora sul tappeto dicono
soprattutto come la scienza si è inserita nelle dinamiche
economiche e sociali moderne, non perché ha
svolto il ruolo che sembra aver svolto. La necessità di capire il perché si
evince dall’esigenza di rispondere ad alcune domande.
Perché esiste una così diffusa resistenza culturale a prendere in considerazione la possibilità che la scienza, anche attraverso le ricadute tecnologiche, abbia messo in moto il processo di modernizzazione delle società umane non solo a livello economico ma anche sul piano della costruzione dei valori morali e civici di stampo liberale che connotano la modernità? Non sarà che questa resistenza ha origini in cause radicate nel profondo della nostra storia evolutiva? Non sarà, cioè, che oltre alle cause prossime (analfabetismo scientifico e propaganda antiscientifica), sono in gioco anche cause remote? Ma se fosse così, perché la scienza ha potuto comunque emergere culturalmente? Quali sono stati i vantaggi adattativi che ne hanno consentito la sopravvivenza e la diffusione? In che modo si possono attualizzare le tesi che vedono nella scienza un fattore propulsivo non solo del benessere ma anche della libertà e dell’eguaglianza?
Cinque passaggi critici
Se si prova a mettere
in ordine i fattori che hanno consentito l’emergere dell’idea moderna di
democrazia, ridando credito alla possibilità di organizzare forme
politico-sociali che hanno valorizzato le potenzialità di autonomia e libertà
umane, ci si trova ad assumere abbastanza plausibilmente che questi fattori
sono scienza, libero mercato e diritto positivo.
Ma è solo la scienza che, in teoria,
avrebbe potuto funzionare da catalizzatore e allo stesso tempo da reagente
(attraverso la tecnologia) in grado di far funzionare un sistema
politico-sociale abitato da uomini geneticamente pleistocenici e allo stesso
tempo fondato su libero mercato, stato di diritto e suffragio universale.
Perché la scienza avrebbe svolto questa funzione? Ecco come potrebbe essere avvenuto, in cinque
passaggi.
1. La scoperta dei
vantaggi di un metodo ipotetico-deduttivo e sperimentale, cioè l’evoluzione del
ragionamento astratto e metacognitivo a partire dalle tradizioni del pensiero
logico e naturalistico antiche, ha consentito all’alba dell’età moderna un
distacco più deciso della ricerca naturalistica dal senso comune.
Il pensiero astratto era stato usato dai filosofi e naturalisti greci e si era
diffuso per secoli, contaminandosi anche con altre tradizioni orientali, ma è
solo quando incontrò un insieme di condizioni materiali che erano la varietà
ecologica dei sistemi economico-produttivi del tardo Medioevo che cominciò
a consentire l’elaborazione di spiegazioni controintuitive, che addestrano a un
pensiero “innaturale”. Le teorie che spiegano scientificamente i fenomeni
naturali sono quasi regolarmente controintuitive: la teoria eliocentrica, la
teoria galileiano-newtoniana del moto, la teoria meccanico statistica del
calore, la teoria darwiniana dell’evoluzione, la teoria mendeliana
dell’ereditarietà, il secondo principio della termodinamica, le teoria della
relatività, ristretta e generale, la meccanica quantistica, la teoria
matematica delle comunicazioni (teoria dell’informazione), le teorie
neurobiologiche della memoria e dell’apprendimento e le teorie psicologiche cognitive
ed evoluzionistiche per esempio. Quindi, cominciare a pensare scientificamente e diffondere questo “meme” (trovo
inconsistente la teoria dei memi ma il
concetto di una struttura di ragionamento che si può apprendere, diffondere in
forme quasi contagiose e sviluppare per conoscenza illustra con una metafora
efficace cosa ha significato e significa attivare predisposizioni evolutive che
non si mettono in moto spontaneamente e che consistono nell’usare l’analisi,
l’astrazione, il ragionamento ipotetico e il controllo sperimentale).
2. Qualunque
comportamento, quindi anche qualsiasi manifestazione del pensiero, ha una base
neurale, cioè riflette delle attività organizzate del cervello umano.
L’apprendimento dei modi di pensare scientifici dipende da strutture neurali in
larga parte frontali e prefrontali, che migliorano il controllo sull’ambiente
(quindi attività o comportamenti dedicati a trovare o produrre alimenti, a riprodursi
di più e con maggiori chance di
sopravvivenza per la prole e a curare le malattie o ridurre il dolore) e l’autocontrollo
(capacità di autonomia e di scelta indipendente rispetto alla tradizione o alla
comunità sociale di riferimento).
Tutti gli studi neuroscientifici, in ambito clinico e sperimentale, mostrano
che le aree frontali, che sono peraltro quelle che maturano completamente per
ultime, dopo l’adolescenza, nel periodo in cui può avvenire l’acquisizione di
un modo di pensare scientifico, sono implicate nel ragionamento
astratto, nel calcolo e nel coordinamento delle informa zioni utilizzate per la
pianificazione del comportamento. Apprendere come funziona il ragionamento
scientifico ed eventualmente praticare la scienza cambia il cervello. I
correlati neurali dell’intelligenza, di alcuni aspetti dell’intelligenza
cristallizzata e soprattutto dell’intelligenza fluida mappano nelle aree
frontali e sono caratterizzati da un aumento della connettività in rapporto
alla capacità materiale del cervello di elaborare informazioni.
3. L’apprendimento di
un modo di pensare che è innaturale, nel senso che non matura spontaneamente,
anche per il fatto che il modo di pensare scientifico non sarebbe stato
adattativo nell’ambiente e nei contesti che hanno selezionato i nostri tratti
comportamentali, oltre a far scoprire le leggi di natura, consentendo quindi di
potenziare la manipolazione tecnologica dell’ambiente, permette di praticare
scambi economici “innaturali” (libero mercato) e di vivere in società
“innaturali” (democrazia fondata sullo stato di diritto), dove si decide
coltivando il confronto razionale piuttosto che facendo leva sulle intuizioni
emotive (anche nell’ambito del diritto).
In altre parole, la scienza consente, attraverso la tecnologia, una divisione
del lavoro che permette di creare ricchezza e di introdurre un’economia di
scambi a somma non zero, dove tutti ci guadagnano e dove si possono impostare
relazioni più diffuse di fiducia: il libero mercato contiene una logica adattativa
che è complessivamente vantaggiosa, ma la psicologia sociale individuale non è
predisposta per costruire relazioni di fiducia all’interno di società numerose
e articolate in gerarchie rigide. L’innovazione tecnologica consente di
migliorare la produzione economica, quindi la ricchezza e un benessere che
predispone a una maggior fiducia nei rapporti sociali.
La scienza diffonde anche l’idea che attraverso l’autodeterminazione e le
libere scelte fondate razionalmente si possano creare società ordinate; non
serve più una personificazione dell’autorità a garanzia assoluta delle regole
di controllo sociale, ma ognuno è in grado di autoregolarsi facendo riferimento
a una legge amministrata in modo imparziale (stato di diritto) nel contesto di
un sistema politico che può diventare rappresentativo.
4. La diffusione
dell’istruzione scientifica esplicita e “obbligatoria”, che ha avuto luogo
soprattutto nel corso del Novecento, aumenta la proporzione di cittadini capaci
di agire in modo indipendente e di usare metodi e conoscenze affidabili.
Nel senso che consente a un numero sempre
più ampio di persone di andare oltre le intuizioni cognitive, ovvero quei bias
e quelle euristiche che usiamo quando prendiamo decisioni
immediate, e di tenere sotto controllo le intuizioni emozionali.
Storicamente l’istruzione pubblica, la frequentazione obbligatoria della scuola
per tutta l’infanzia e l’adolescenza e l’introduzione nei programmi di
istruzione delle materie scientifiche prende consistenza politica tra la fine
dell’Ottocento e gli inizi del Novecento e l’allungamento della scolarizzazione
e della diffusione di un’istruzione scientifica procede in parallelo con
l’aumento del numero e della qualità delle democrazie nel mondo.
5. La scienza è
diventata quindi il “software”
della liberaldemocrazia, cioè un catalizzatore
che, facendo interagire tecnologia, libero mercato e istituzioni democratiche fondate
sul governo della legge, ha consentito il funzionamento della prima macchina
socio-culturale che è riuscita a produrre in modo abbastanza costante (anche se
precario, dato che si tratta di un processo artificiale) più “benessere”, più
“salute”, più “libertà”, meno “violenza”, più “eguaglianza” (economica e
sociale) e più “razionalità”. I sistemi liberaldemocratici rimangono soluzioni
provvisorie, cioè il loro funzionamento è reso possibile da fattori contingenti
che a quanto sembra non sono garantiti dalla democrazia stessa, nel senso che
nelle democrazie i cittadini tendono a dar per scontato che le libertà, i
diritti, i servizi o i beni che hanno a disposizione siano qualcosa di
acquisito definitivamente.
Negli ultimi due secoli il mondo ha visto un incremento esponenziale del benessere
economico, ma anche una diffusione, nei Paesi che hanno prodotto più ricchezza,
di valori democratici e liberali. In altre parole, l’aumento del numero di
democrazie e dell’indice di democrazia, a partire dall’Ottocento, segue un
andamento analogo a quello del logaritmo del PIL medio pro capite. Non solo più
ricchezza e democrazia hanno pervaso il mondo negli ultimi due secoli, ma è
avvenuta anche una riduzione della diseguaglianza economica.
Dagli inizi del
Novecento al 1970, la quantità di ricchezza posseduta dall’1% più ricco nei
Paesi sviluppati è scesa dal 20-25% circa al 5-10%. Purtroppo negli ultimi anni
questo trend si è invertito in diversi Paesi.
Nondimeno negli ultimi vent’anni il tasso di povertà medio nel mondo è
diminuito, insieme a un aumento della ricchezza anche nei Paesi in via di sviluppo.
E quali sono i Paesi con i più elevati livelli di ricchezza, gli indici migliori
di democrazia, di libertà economica, di libertà di stampa e di benessere
soggettivo percepito? Sono gli stessi con i più bassi indici di corruzione percepita
e le minori differenze di reddito a livello nazionale e coincidono con i Paesi
che più spendono in istruzione, ricerca e sviluppo come percentuale del PIL:
Svezia, Finlandia, Giappone, USA, Svizzera, Germania, Australia, Israele, ecc.
Questi paesi sono
anche quelli che negli studi condotti dal World Value Survey registrano
uno sviluppo umano ispirato da valori secolari, che pro muovono
l’autodeterminazione e il pluralismo morale, mentre i Paesi dove prevalgono
ancora i valori tradizionali, trasmessi soprattutto attraverso religioni e
comunità chiuse e che reprimono le potenzialità individuali, tendono singolarmente a
mancare di un sistema dell’istruzione e della ricerca sufficientemente efficiente o diffuso.
La tesi qui esposta è
forte, e lo appare anche di più in quanto viene presentata in una forma molto
schematica. In ogni caso implica, se valida, una provvisorietà e fragilità del
sistema di valori liberaldemocratici su cui vertono le speculazioni in astratto
di filosofi, sociologi e politologi, nella misura in cui questi valori sono
teorizzati come antitetici rispetto alla scienza. E implica, altresì, che la
scienza possa cambiare natura, evolvendo caratteristiche diverse in funzione di
sistemi politico-economici nuovi rispetto a quelli che la storia ha finora
conosciuto.
Bibliografia
Corbellini G., Perché gli scienziati non sono pericolosi, Longanesi, Milano, 2009.
Corbellini G., Scienza, quindi democrazia, Einaudi, Torino, 2011.
Corbellini G., Scienza, Boringhieri, Torino, 2013.
Tratto da Scienza & società - Scienza e Democrazia, Editore Egea