Atomi e molecole non sembrano avere molto a che fare con l’arte e le espressioni culturali umanistiche in genere. Eppure già durante i primordi dell’arte pittorica, la scelta dei pigmenti per la pittura murale etrusca e romana, ad esempio, veniva fatta in base alle proprietà di materie prime provenienti da giacimenti naturali. Una selezione, questa, spesso inconsapevolmente di carattere chimico, che venne perfezionata poi durante il rinascimento: Raffaello, Leonardo, Piero della Francesca, Masaccio sono tra i principali creatori di nuove tecniche pittoriche ottenute mescolando i pigmenti naturali con ‘leganti’ organici – come uovo, colla e caseina. In epoca moderna la chimica può spingersi ancora più a fondo, offrendo sofisticate tecniche sia per studiare le proprietà più ‘intime’ dei materiali costituenti un’opera d’arte e il suo stato di degrado sia per contribuire con processi e prodotti innovativi alle fasi di restauro. Si tratta di un ruolo affascinante quanto indispensabile per preservare il patrimonio storico-artistico dei beni culturali, di dimensioni eccezionali nel nostro Paese. Eppure, nonostante atomi e molecole siano i costituenti primi dei beni artistici e i meccanismi che ne regolano le attività il supporto per la loro conservazione, anche in questo caso il contributo della chimica passa in secondo piano. La responsabilità sta, probabilmente, nell’immagine ingombrante di pericolo e distanza dalla vita quotidiana che l’Anno Internazionale della Chimica vuole tentare di riformulare.
Luigi Campanella è un chimico analitico, docente dell’Università La Sapienza di Roma.
Da molti anni si occupa di conservazione di beni culturali, sia in ambito di ricerca che di didattica. Direttore del Polo Museale Musis, ha uno sguardo privilegiato sul mondo della divulgazione scientifica proprio nel rapporto chimica –beni culturali.
Quali sono state le circostanze, nel suo percorso professionale di chimico, che l’hanno convinta a dedicarsi anche allo studio e conservazione dei beni artistici?
La chimica viene molte volte considerata una scienza ‘di servizio’, qualcosa a cui riferirsi solo per un apporto di tipo tecnico. La mia convinzione è sempre stata, invece, che la chimica sia una scienza di ‘conoscenza’. Il settore dei beni culturali è uno di quelli in cui questo misunderstanding si è percepito maggiormente. In passato, cioè, ci si affidava quasi totalmente all’empirismo per il restauro e la conservazione, mentre era evidente quanto fosse opportuno e necessario l’apporto di una scienza esatta per migliorare lo stato della conoscenza. Da chimico analitico sentivo particolarmente questa errata interpretazione. Per questo mi sono avvicinato ai beni culturali.
Si possono individuare dei momenti ‘storici’ salienti o critici, che lei ha vissuto da testimone o protagonista, in cui è stata evidente l’importanza della chimica in questo settore in Italia?
Occasioni di questo tipo, che ho potuto vivere anche da protagonista, sono state moltissime.
Uno dei più significativi è stato senz’altro durante il mio impegno di consigliere scientifico dell’allora Sindaco di Roma, Francesco Rutelli, quando venne proposto un programma di monitoraggio e restauro dei principali monumenti romani – come la Fontana di Trevi, il Marco Aurelio, Ostia antica e varie catacombe. O in situazioni anche molto lontane dalla mia città, durante rapporti istituzionali con Paesi come il Mozambico, il Sud Africa, l’Iran, l’Egitto. Si tratta di Paesi in via di sviluppo, in cui l’esigenza di avere il supporto della chimica in molti settori, compreso i beni culturali, risulta particolarmente forte.
Per molto tempo i restauratori hanno fatto a meno dei chimici, pur comportandosi spesso come tali. Qual è il livello di consapevolezza raggiunto oggi, che lei può registrare anche come divulgatore, circa la necessità di questa scienza?
Quasi 15 anni fa c’è stata un piccola rivoluzione, quando l’UE obbligò anche l’Italia a predisporre dei corsi di formazione rivolti ai tecnici per i beni culturali. Fino a quel momento la formazione era stata delegata agli istituti non universitari, come il Ministero per le attività culturali. In questo modo sono nati i vari corsi di laurea dedicati, avendo come conseguenza l’avvio di un ‘binario’ nuovo rispetto al passato – mentre prima i due percorsi erano paralleli, non consentendo ai restauratori di fare il salto di qualità. Il risultato è che negli ultimi anni si registra una maggiore consapevolezza e diversi segnali e proposte di contatto tra i due mondi (empirico e scientifico puro), con un vantaggio doppio: gli universitari hanno una sponda operativa nel campo del restauro e i restauratori ante-reforma possono venire a contatto con le ultime esperienze della ricerca scientifica, rafforzando la loro empiricità anche in campo scientifico.
L’ industria dei beni culturali è un settore ad alta potenzialità, ma ancora sofferente. Il ruolo dell’Università e della ricerca si prospetta come semplice ponte o come protagonista per un suo auspicabile rilancio?
Considerando la formazione ‘rinnovata’, il ruolo dell’università è e sarà fondamentale. Oggi ci sono sempre più aspetti che richiedono un avanzamento di conoscenza e nuove frontiere scientifiche. In continuazione nascono nuovi materiali, come risultato di studi di base improntati su attività diverse dai beni culturali. Non secondario è il discorso sulla sicurezza: finora i restauratori maneggiavano senza precauzione materiali e sostanze potenzialmente pericolosi, con grandi rischi. L’industria dei beni culturali non può non tener conto di questi avanzamenti, il rinnovo dei materiali, dei criteri di protezione e dell’approccio al restauro sono tutti probabili fonti di nuovi investimenti e nuove figure di lavoro.
2011, Anno Internazionale della Chimica: oltre agli sforzi fatti finora dagli enti, istituti e soggetti coinvolti, quali potrebbero essere ulteriori strategie di comunicazione, approfittando dei risultati dell’ “anno”?
In questo senso io stesso ho avanzato delle proposte, alcune in parte realizzate: bisogna avvicinare il mondo della chimica e dei beni culturali al cittadino medio, che spesso lo percepisce solo in termini di ‘turismo’, senza percepire lo sforzo in termini di ricerca che c’è dietro. Per l’Anno Internazionale si potrebbero realizzare degli spazi aperti, dove i cittadini possano vedere cosa c’è realmente dietro un restauro – cosa significa spendere 50milioni di euro per la conservazione del Colosseo, ad esempio. Naturalmente la responsabilità dei media è grande: non credo che si sia parlato molto dell’Anno, nelle televisioni o su atri mezzi. E questo va a danneggiare chi si è speso per l’organizzazione, oltre a non aiutare la realizzazione degli obiettivi dell’evento. I municipi, infine, potrebbero fare molto, creando dei sistemi attraverso i quali, con la chimica, si ‘adotta’ un monumento. Le occasioni potenzialmente sfruttabili sono molte. Vorrei ricordare, inoltre, che molte volte si parla di chimica come nemico, che inquina, che mette a repentaglio la salute o come scienza solo altamente tecnologica. In realtà è anche scienza fondamentale per la vita. E’ emblematico, infatti, che la proposta per realizzare l’Anno Internazionale sia arrivata dall’Etiopia, uno dei Paesi più poveri. Questo è sintomatico, perché l’Etiopia certamente non si affida alle alte tecnologie, ma sulle tecnologie necessarie a migliorare la qualità della vita. Se nel suo bilancio compare la voce ‘acqua virtuale’, significa che la chimica viene considerata una scienza ‘per la vita’. Per la mia esperienza, è così che vorrei venisse percepita questa scienza di base.
Marco Milano