La chimica pervade tutto nella nostra vita anche quello che passa spesso inosservato, dice Jean-Marie Lehn, premio Nobel per la chimica nel 1987: un mondo senza chimica "sarebbe un mondo senza materiali sintetici e questo significa essere senza telefoni, senza computer e senza cinema, senza aspirina, senza pillole anticoncezionali o senza carta e quindi non i giornali o i libri". Una delle meraviglie più inaspettate che la chimica riserva a coloro che per la prima volta si addentrano anche solo poco oltre la sua anticamera descrittiva, è la possibilità di trasformare la materia a proprio piacimento. Da sempre l’uomo ha osservato i cambiamenti esteriori della materia basandosi sui mutamenti del suo aspetto apparente e delle sue proprietà percepibili. Solo negli ultimi secoli tuttavia è stato possibile individuare e descrivere in modo coerente l’insieme delle leggi chimiche e fisiche che stanno, direttamente o indirettamente, alla base di queste trasformazioni. Questa scienza affascinante suscita notevole interesse, ma spetta a noi fare buon uso di essa iniziando a rivalutare la sua storia. Volgendo uno sguardo al passato, la nascita della chimica risale alla scoperta del fuoco. Racconta Denis Diderot, filosofo francese del secolo XVIII: «Un giorno alcuni spagnoli approdarono a una contrada sconosciuta del Nuovo Mondo la cui popolazione era così primitiva che ignorava persino l'uso del fuoco. Era d'inverno. Gli spagnoli dissero agli indigeni che con un po' di legno avrebbero prodotto il fuoco, un essere che avrebbe mandato luce e calore come un piccolo sole, e che poi l'avrebbero spento con l'acqua.
— Voi dunque sapete, — chiesero gli indigeni, — che cosa sia questo fuoco?
— No — risposero gli Spagnoli.
— E sapete che cosa sia il legno?— No.
E sapete che cosa sia l'acqua?
No.
Gli indigeni si misero a ridere, e volsero le spalle agli Spagnoli: i quali, per scaldarsi e cuocere i loro cibi, accesero il fuoco, che non sapevano cosa fosse, con dell’olio che non sapevano che cosa fosse, e poi lo spensero con dell'acqua, che pure non sapevano che cosa fosse».
Se l'uomo non si fosse servito del fuoco, prima di sapere che cosa fosse, sarebbe ancora l'uomo delle caverne. L'uso empirico del fuoco ci ha condotto a scoprire i metalli o le terre cotte, il vetro o la calce viva, i grandi acidi, e numerosi sali: insomma tutto quel bagaglio di fatti sperimentali che rese possibile spiegare il fuoco.
Pierre-Joseph Macquer, un chimico del secolo XVIII (fu il primo che riuscì a portare in soluzione il caucciù) nel Dizionario di chimica afferma: «La cosa pare incredibile, ma pure è vera! Dopo tante esperienze eseguite col fuoco e tanti libri scritti intorno al fuoco, non sappiamo ancora che cosa sia il fuoco».
Maquer afferma che prima del Seicento si effettuavano ricerche e procedimenti di natura chimica in vari campi dell’attività umana. Le differenti parti della chimica esistevano, ma la chimica non esisteva ancora, solo agli inizi del XVII secolo comincia a delinearsi come scienza autonoma. La lontana origine della chimica è dimostrata anche dall’etimologia del termine khemeia che secondo alcuni deriva dalla parola egiziana Kham che significa nero, con allusione al colore scuro del fertile suolo dell’Egitto dal quale si pensava provenissero le conoscenze naturali più remote: l’espressione potrebbe quindi significare arte della terra d’Egitto. Un’altra teoria afferma che khemeia deriva dall’Arabo al-Kimiya dove al ha la funzione di articolo determinativo, mentre Kimiya dovrebbe intendersi come arte di fare leghe metalliche o, in alternativa, arte di trattare i succhi vegetali. Si pensa che la chimica trovi le sue origini nell’alchimia. Non è propriamente vero, ma non è vero nemmeno che la chimica si possa considerare totalmente indipendente dall’alchimia. Come acutamente osserva Antonio Di Meo (Storia della Chimica, Il Sapere, Newton, 1994), per comprendere bene i rapporti fra chimica e alchimia, è necessario accennare anche al fatto che, a partire dalla seconda metà del Cinquecento, soprattutto grazie alle concezioni del medico-chimico Paracelso, col termine alchimia si cominciò a indicare ogni trasformazione artificiale delle sostanze. S’iniziò a distinguere fra un'alchimia esoterica, legata alle finalità gnostiche e metafisiche e un’alchimia essoterica, più legata alle manipolazioni artigianali dei corpi naturali. Un esempio di questo slittamento di significato lo troviamo in Vannoccio Biringuccio. Intransigente critico dell'alchimia "sophistica, violenta e non naturale", dichiarava che esisteva un secondo tipo di alchimia che partoriva "ogni giorno nuovi e bellissimi effetti, oltre all'esser molto utile all'uso e commodita humana". Questo secondo tipo di alchimia sarà, in effetti, uno dei principali presupposti della moderna chimica sperimentale. L'alchimia, per mezzo della sua arte di purificazione di metalli imperfetti, non faceva altro che realizzare in termini riavvicinati quello che, secondo il decorso naturale, richiedeva tempi lunghissimi. Solo dal 1600 la chimica comincia lentamente a prendere una sua configurazione di scienza, pur mantenendo ancora molti aspetti contemplativi, mistici e filosofici. Citando ancora Di Meo, la chimica poteva essere considerata quasi sorella dell’anatomia, dato che cercava di dividere i corpi naturali per individuarne i componenti, ma fino a questo punto si limitava ad analizzare ciò che esisteva in natura. Nel Tyrocinium chymicum, Jean Beguin, seguace di Paracelso, sosteneva che la chimica indagava su un oggetto "aprendolo per vedere l'interno e il fondo della sua natura". La chimica era perciò la scienza degli oggetti che l’uomo non poteva comunque trasformare.
C’era però, parallelamente, un'altra chimica, detta iatrochimica (chimica medica), che aveva come scopo quello di operare, ma solo grazie alla conoscenza contemplativa acquisita per mezzo della chimica filosofica: in qualche modo, seppur gerarchizzato, la teoria e la pratica collaboravano.
Robert Boyle e Antoine Laurent Lavoisier introdussero il metodo quantitativo nello studio delle trasformazioni della materia, contribuendo a eliminare tutte le false credenze che avevano dominato fino a quel momento lo studio di tali fenomeni. L’irlandese Robert Boyle, che nel 1661 scrisse un’opera dal titolo The Sceptical Chymist, per primo formulò una definizione precisa di elemento chimico che esprimeva nei seguenti termini: “Io intendo per elementi certi corpi primitivi e semplici, che costituiscono gli ingredienti di cui sono fatti tutti gli altri corpi chiamati composti, e nei quali questi ultimi possono essere risolti”. Tale definizione è valida ancora oggi: si tratta solo di sostituire la parola corpi con sostanze. I metalli non sono elementi e per tale motivo riteneva che questi corpi potessero trasformarsi gli uni negli altri come auspicavano gli alchimisti. Il fuoco ha la funzione di “congregare homogenea e segregare eterogenea”, altera la dimensione della forma e del movimento tanto da alterare la struttura dei corpi stessi. Nicolas Lémery nel Cours di Chimie, del 1675, supera la posizione di Boyle. Egli riteneva che gli elementi fossero presenti nel composto prima della sua risoluzione e quindi la loro esistenza non fosse dovuta all’azione del fuoco o di altri reagenti. Il fuoco nel rarefare la materia non può dare vita a una struttura completamente diversa di quella che aveva prima. Il fuoco invece “trasforma le sostanze ma non li principi”. Per il salto definitivo nel mondo della scienza mancava ancora l’applicazione, alla ricerca chimica, delle misure quantitative nonché quella delle tecniche matematiche. Verso la fine del 1600 nacque, ad opera del medico e chimico tedesco Georg Ernest Stahl (1660-1734), la teoria del flogisto (da un verbo greco che significa “bruciare” o “infiammare”) secondo la quale tutte le sostanze coinvolte nella combustione, liberano una sostanza che è appunto il flogisto. Le sostanze combustibili, affermava Stahl, sono ricche di flogisto e il processo di combustione determinava la cessione di questo non meglio specificato elemento all’aria, la quale lo trasferiva ad altri corpi che quindi diventavano a loro volta combustibili. Ciò che rimaneva dopo la combustione era privo di flogisto e quindi non bruciava più. Il flogisto, per fare un esempio, era presente nella legna, ma non nella cenere. La soluzione del paradosso fu trovata dal grande chimico Antoine Laurent Lavoisier. Egli dimostrò che nell’aria è presente un elemento particolare, un componente reattivo sia per le combustioni e sia per le calcinazioni, al quale fu dato il nome di ossigeno, parola che in greco significa generatore di acidi. In questo modo Lavoisier pervenne alla formulazione della legge della conservazione della massa, la quale con parole semplici afferma che “in natura nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma”. Il Traité élémentaire de chimie (1789) di Lavoisier costituì le basi della nuova chimica del sec. XIX. Dagli ultimi decenni di tale secolo grandissima importanza è venuta assumendo, per la stessa ricerca pura, lo sviluppo dell’industria chimica nel campo dei prodotti organici di sintesi, dei derivati del petrolio e dei composti macromolecolari. Lo sviluppo della chimica ha contribuito a superare la visione della vita e dei meccanismi biologici come mistero, suggerendo invece come punto centrale della capacità vitale una raffinata organizzazione della materia, degna di studio e fonte di osservazioni scientifiche e applicazioni pratiche. Anche la nuova concezione della struttura dell'atomo di John Dalton e la possibilità di utilizzare le grandi quantità di energia in esso racchiuse rappresentano un'acquisizione fondamentale della chimica nel XX secolo. Bisogna ricordare lo sviluppo degli studi per la preparazione di nuovi composti chimici e a tal proposito non si può far a meno di citare l’italiano Giulio Natta e i suoi polimeri. E ancora, lo sviluppo delle tecniche di preparazione dei composti chimici ha permesso di aggiungere ai farmaci di origine vegetale o animale anche un grande numero di farmaci di sintesi. Nasce così una nuova chimica che studia il modo di migliorare la qualità della vita senza danneggiare l'ambiente e le persone.
Salvatore Califano in Storia della Chimica (Bollati Boringhieri, 2010) sostiene che la chimica sia parte fondamentale della cultura generale e ha avuto un impatto decisivo sulle società moderne. La nascita e la crescita della struttura e industriali e le trasformazioni sociali che ne sono derivate sono strettamente legate con lo sviluppo della chimica. Come conseguenza di questa sua natura complessa e articolata, la chimica oggi rappresenta il ponte naturale di collegamento tra discipline molto diverse eppure il contributo offerto a questi saperi resta spesso nell’ombra. Spesso i mass media hanno contribuito a creare nell’opinione pubblica la convinzione che la chimica sia responsabile di alcuni tra gli aspetti più negativi delle società industriali, dall’inquinamento alle piogge acide, dall’adulterazione degli alimenti alla preparazione di droghe e veleni. Soltanto facendo rivivere la sua storia, conclude Califano, si può restituire alla chimica il ruolo importante nelle teorie della conoscenza, in particolare come conoscenza della struttura della materia da concepire come parte fondamentale della cultura dell’umanità. Ed è questo l’obiettivo che si pone l'Anno Internazionale della Chimica, inaugurato il 27 gennaio 2011 su iniziativa dell’Etiopia e promosso dalle Nazioni Unite. Sarà un’occasione per celebrare l’Arte e la Chimica e il suo contributo fondamentale alla Conoscenza, alla Tutela dell’Ambiente e allo Sviluppo economico.
Sotto la bandiera di "Chimica: la nostra vita, il nostro futuro", l’Anno Internazionale della Chimica cercherà di promuovere l’immagine della Chimica nell’opinione pubblica di tutto il mondo per diffondere la consapevolezza della sua importanza per una crescita sostenibile, in tutti gli aspetti della vita e delle attività umane.
Ioghà Antonella