Margherita Hack è morta. La Signora delle Stelle se n’è andata in punta di piedi, senza chiasso, com’era suo costume; lei che era avvezza al clamore di folle plaudenti. Se n’è andata lasciando l’astronomia orfana del suo cantore più ascoltato. Se n’è andata portandoci via, ora che maggiormente ci servivano, il suo buon senso e la sua palese rettitudine, il suo pacato coraggio e la sua semplicità. Esempi indimenticabili di una capacità unica di usare la verità come un’arma contro il dominante sonno delle coscienze: la verità appena sussurrata, con quella voce ferma e schietta dall’accento toscano, come rivoluzione pacifica per additare i mali e i veleni di una società malata.
Io ho conosciuto Margherita quasi mezzo secolo fa, nel 1968, quand’ero studente di fisica a Padova alle prese con la mia tesi di laurea. Nel periodo natalizio andai a Trieste dove vivevano i miei genitori. Il professor Rosino, che era il mio tutor, mi aveva suggerito di chiedere al direttore dell’Osservatorio l’autorizzazione a usare la biblioteca dell’istituto durante le vacanze. Così mi arrampicai sulla collina di San Giusto fino a via Tiepolo, e per la prima volta varcai il cancello d’ingresso del castelletto che ospitava l’Osservatorio triestino. Margherita mi accolse nel suo studio con asciutta cortesia, ascoltò la mia richiesta e mi disse quello che potevo e non poteva fare. Poi mi congedò. Pensai di esserle rimasto antipatico. Non era così, ma io allora non sapevo quanto quella signora fosse essenziale e riservata al punto da sembrare fredda e scostante. Passai il resto delle vacanze a studiare a casa.
Rividi Margherita un paio d’anni dopo a Erice, in occasione di una di quelle scuole di astronomia organizzate nella struttura congressuale che Antonino Zichichi, per promuovere la sua terra e seminare la scienza cui si era votato, aveva realizzato nella cittadina fenicia a picco sul mare della Sicilia occidentale. Erano gli anni del boom dell’astrofisica italiana: una crescita esponenziale di una disciplina resuscitata dalle ceneri della guerra per merito di uomini come Leonida Rosino a Padova, Guglielmo Righini a Firenze e Livio Gratton a Roma, e grazie ad alcuni loro brillanti allievi che erano andati a perfezionarsi all’estero ed erano rientrati carichi di esperienza e di utili relazioni. Questi pionieri avevano cura dei loro “pulcini” e per questa ragione li raccoglievano in spartane scuole semi-estive per creare il senso di squadra e passar loro il mestiere. Vere botteghe che hanno generato il manipolo di astrofisici cui si deve se questa scienza è oggi leader in Italia e tra le prime nel mondo.
Non mi ricordo le lezioni della professoressa Hack. Forse non mi entusiasmarono, anche perché lei parlava di stelle mentre io avevo cominciato a interessarmi di galassie. Ma la ricordo con chiarezza correre dietro un pallone nelle partite di calcio che gli studenti organizzavano durante le pause dei corsi per esorcizzare l’indigestione di informazioni scientifiche. Sento ancora negli orecchi il suo incitamento: “Corri Capaccioli, corri!”, con cui cercava di farmi vincere la repulsione verso ogni sforzo fisico. Indubbiamente Margherita credeva nell’antico adagio di una mente sana in un corpo sano. Camminava, correva sfidando la bora, da giovane saltava sia in alto che in lungo con discreti risultati. Nuotava tutte le volte che poteva, incurante delle condizioni del mare e della temperatura dell’acqua. Sempre in occasione delle scuola a Erice, ricordo che si esibì in un plastico tuffo dal barcone che ci portava in gita alle isole Egadi. Era l’unica di tutti noi ad essersi attrezzata indossando il costume sotto il vestito.
I miei rapporti con la professoressa Hack sono diventati più stretti negli ultimi due decenni quando, tra i compiti che le mie nuove responsabilità di presidente della Società Astronomica Italiana e di direttore dell’Osservatorio astronomico di Capodimonte a Napoli mi hanno assegnato, mi sono ritrovato quello di promuovere la cultura astronomica tra la gente. Margherita nel frattempo aveva lasciato la guida dell’Osservatorio di Trieste dopo averlo rivoltato come un calzino, trasformandolo in un moderno e apprezzato centro di ricerca di livello internazionale. I suoi libri, le sue conferenze di divulgazione, le prime apparizioni televisive e alcune prese di posizioni su questioni sociali, civili e religiose ne avevano fatto un’icona mediatica. Riuscire ad assicurarsela per una chiacchierata serale significava garantirsi un sicuro successo.
Con lei io ho sperimentato più volte quanto possa il fanatismo della folla. A Bologna, per esempio, quando la invitammo per una conferenza pubblica serale in occasione di un congresso nazionale della SAIT, dovemmo trovare in tempo reale una sala molto più grande di quella, già molto capiente, che avevamo scelto per l’evento. Un nugolo di autentici scalmanati pretendeva di ascoltarla. E un'altra volta a Napoli, alla fine di un’altra serata passata a parlare di stelle davanti a un esercito di occhi ammiranti, ho visto una madre alzare il figlioletto sopra la moltitudine che sia era accalcata al palco per vederla, gridando: “Toccala, toccala”. Non credo che Margherita se ne sia accorta. E meno male perché certo non avrebbe approvato, lei che era atea dichiarata, di essere accomunata alla statua della Madonna.
Negli ultimissimi anni l’esposizione della Hack nei media, nei teatri, nelle TV, nei comizi politici, nelle vetrine delle librerie è diventata frenetica. E mentre la sua straordinaria salute, quella forza del corpo che lei si era assicurata con un esercizio costante, se ne stava rapidamente andando insieme alla serenità dello spirito, turbato dalla malattia del suo amatissimo Aldo, lei segnava i punti più belli della sua straordinaria carriera, con interventi forti contro la corruzione e il degrado della politica, lo strangolamento della ricerca scientifica, la violenza verso le donne, l’esproprio del diritto di ognuno di disporre delle propria vita, la superstizione che offende la nobiltà delle mente umana, di una mente che ha saputo intendere il firmamento.
Margherita Hack non è più. Riposa nel cimitero di Trieste dove è entrata come una qualunque, senza pompa e senza gli onori appropriati alla sua fama, secondo quella bella tradizione degli imperatori d’Austria che di fronte alla morte tornavano cittadini qualunque. Lascia una memoria che sbiadirebbe presto in un paese come il nostro, educato all’effimero, se non ci fossero i sui libri a parlare per lei, con frasi brevi, con concetti semplici, con rigore scientifico ma anche tanta attenzione alla gente che della scienza ha paura per via dell’arroganza di alcuni scienziati. Se li leggerete, provata a farlo con un forte accento toscano. Vi sembrerà di riascoltarla per un momento.