Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC): un'analisi giuridica e scientifica

Pubblicato il 02/05/2024
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Il 20 febbraio scorso è stato pubblicato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (PNACC). In considerazione dell’importanza del documento e della rilevanza degli aspetti giuridici e scientifici coinvolti, la direzione della Rgaonline e la redazione di Scienza in rete, due riviste che, nei diversi settori del diritto e dell’informazione scientifica, da tempo collaborano condividendo articoli, contributi e riflessioni in materia di ambiente, hanno deciso di organizzare un esame congiunto del Piano. In questo numero pubblichiamo quindi i commenti pervenuti da collaboratori delle due riviste. Il PNACC è stato approvato dal Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica con un decreto del 21 dicembre 2023 ed è consultabile sul sito del Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica, al link: Clima: Approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici | Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica (mase.gov.it) e sulla piattaforma nazionale adattamento cambiamenti climatici, al link: https://climadat.isprambiente.it.

Rinviando ai contributi che trattano specificatamente alcuni aspetti del PNACC, offriamo qui alcuni dati generali. Il PNACC è lo strumento di attuazione della Strategia nazionale di adattamento ai cambiamento climatici del 2015, cui è affidato il compito di indicare le modalità per affrontare gli impatti dei cambiamenti climatici come definiti nella Strategia europea di adattamento ai cambiamenti climatici adottata nel 2013 e successivamente modificata nel 2021.

L’approvazione del Piano ha richiesto sei anni: la prima bozza è stata pubblicata nel 2018 dal governo Gentiloni, ma non è stata adottata dai tre governi successivi (i due di Giuseppe Conte e quello guidato da Mario Draghi). Nel 2022 Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica del governo guidato da Giorgia Meloni, ha pubblicato una nuova bozza, avviando la fase di consultazione. Il 21 dicembre 2023 è arrivata l’approvazione definitiva.

Nel frattempo, nel dicembre del 2018 la Francia ha pubblicato il suo secondo PNACC per il periodo 2018-2022 (il Piano può essere consultato qui, mentre un esame critico è in A. Anisimov, L. Vallejo, A. Magnan, L’adaptation au changement climatique en France: focus sur le cadre national, Institute for Sustainable Development and International Relations (IDDRI), 2019), mentre la Spagna ha pubblicato il proprio piano nel 2021.

L’obiettivo dichiarato dal PNACC è “fornire un quadro di indirizzo nazionale per l’implementazione di azioni finalizzate a ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, a migliorare la capacità di adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, nonché a trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche”. Il Piano è articolato in cinque aree: il quadro giuridico di riferimento, il quadro climatico nazionale, gli impatti dei cambiamenti climatici e le vulnerabilità settoriali, le misure e le azioni di adattamento e, da ultimo, la governance per la quale è prevista l’istituzione di un Osservatorio nazionale composto dai rappresentanti delle Regioni e degli enti locali.

Le misure e le azioni di adattamento sono articolate in 361 azioni (sono solo 58 nel PNACC francese) suddivise in 18 settori: acquacoltura, agricoltura, dissesto geologico, idrologico e idraulico, desertificazione, ecosistemi delle acque interne e di transizione, ecosistemi marini, energia, ecosistemi terrestri, foreste, industrie e infrastrutture pericolose, insediamenti urbani, patrimonio culturale, pesca marittima, risorse idriche, salute, trasporti, turismo, zone costiere.

Per ciascuna di esse è descritto il contenuto, quali sono gli enti di riferimento, quali sono gli obiettivi e le modalità di valutazione dell’esito.

Ciascuna azione è inoltre classificata in tre diverse tipologie: “soft”, “green” e “grey”.

“Soft” indica iniziative di comunicazione, governance, partecipazione mentre le azioni “green” e “grey” prevedono interventi sul territorio; di questi gli interventi “green” sfruttano le potenzialità della natura per attuare politiche di adattamento, gli interventi “grey” prevedono opere su impianti e infrastrutture. Su 361 azioni 250, quindi il 70%, sono “soft” e non prevedono alcun intervento effettivo di adattamento, ma solo azioni per creare consapevolezza.

La parte riguardante i finanziamenti occupa quattro pagine nelle quali si citano i programmi europei, nazionali e regionali esistenti a cui fare riferimento, senza alcuna previsione di spese effettive. In un file Excel alla colonna R sono indicati i costi degli interventi: quasi tutte le caselle sono però vuote.

In sostanza, un piano di adattamento senza investimenti e finanziamenti. Per esempio, il settore delle foreste, per il quale è previsto il maggior numero di misure prevede solo 3 interventi “grey” corrispondenti alla realizzazione di opere o interventi concreti. Ha commentato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente: «Per attuare il PNACC sarà fondamentale stanziare le risorse economiche necessarie, ad oggi ancora assenti e non previste neanche nell’ultima legge di bilancio, altrimenti il rischio è che il piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici resti solo sulla carta».

 

Indice

L’adattamento al cambiamento climatico nella scienzaLuca Carra

L’adattamento al cambiamento climatico nel diritto internazionaleStefano Nespor

L’adattamento al cambiamento climatico nel diritto comunitarioLuciano Butti

PNACC: poca attenzione alla salutePaolo Vineis

La comunicazione dell’adattamento al cambiamento climatico nel PNACCSimona Re

Processo di approvazione del PNACC e collegamento con il Green DealDario Bevilacqua

Differenze tra danno ambientale e danno climatico, Emanuela Gallo e Federico Vanetti

La dimensione regionale e locale dell’adattamento ai cambiamenti climatici, Lorenzo Ugolini

La tutela della biodiversità nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, Laura Scillitani

Adattamento climatico e risorse idriche nel PNACC, Claudia Galdenzi

Cambiamento climatico e rischio geo-idrologico: reinventare la ruota senza mai agire, Francesco Comiti

L’applicazione al clima dei principi sull’ambiente e la tutela dei diritti umani, Fabio Cusano e Riccardo Stupazzini
 

 

L’adattamento al cambiamento climatico nella scienza

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Il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici è stato approvato dopo sei anni e quattro governi a fine 2023, consta di un documento di sintesi di 106 pagine seguito da 4 appendici: due di natura giuridica e amministrativa (2023), uno di approfondimento scientifico degli impatti e vulnerabilità (2018), e un Excel finale in cui vengono elencate 361 misure, molte delle quali “soft” e al momento senza portafoglio.

A parte l’aspetto e il linguaggio respingente da tesi di laurea, con pagine in cui le note superano il testo, il confronto con i Piani di adattamento di altri paesi quali Francia, Spagna e Germania mette in luce differenze importanti1: laddove gli altri hanno iniziato a metà del primo decennio del Duemila e a questo punto hanno pubblicato una nuova edizione del Piano che fa tesoro di diversi cicli di monitoraggio e un collaudo più che decennale, quello italiano è al suo inizio, e si limita a un’analisi degli impatti e vulnerabilità e ad abbozzare la metodologia di quella che sarà nei prossimi anni la messa in campo di una pianificazione a livello regionale e locale ancora da costruire e coordinare a livello centrale.

Venendo alla scienza, il Piano italiano finalmente approvato dedica uno spazio rilevante (le prime ottanta pagine del documento) all’analisi degli scenari climatici e alla caratterizzazione dei rischi. Rispetto alla versione del 2018, per esempio, dove veniva usato un solo modello, nella versione finale si è deciso di utilizzare un insieme di modelli climatici regionali disponibili in letteratura alla risoluzione di 12 km, sotto 3 diversi scenari emissivi (“alte emissioni” RCP8.5; “scenario intermedio” RCP4.5 e “mitigazione aggressiva” RCP 2.6), così da ottenere simulazioni dei possibili cambiamenti e impatti nelle cinque partizioni territoriali del Nord-Ovest, Nord-Est, Centro, Sud e Isole.

I principali impatti e vulnerabilità da qui a fine secolo vengono caratterizzati correttamente nei diversi settori: acqua, criosfera, mari, biodiversità, foreste, agricoltura, pesca, economia, turismo, salute, città, energia, trasporti, beni culturali e altro ancora. Come analizzato nei contributi a seguire, nonostante la buona qualità scientifica dell’analisi, per molti di questi ambiti non mancano lacune anche di rilevo, com'è d'altronde inevitabile in un documento di sintesi2. La dimensione dell’incertezza, cruciale in questi modelli, viene citata ma poco spiegata. E in generale il tono del documento è di tipo accademico e ostico anche per uno strato acculturato della popolazione3. Al contrario di piani come quello francese e spagnolo, chiaramente concepiti, scritti e impaginati per un pubblico generale, mancano o sono assai deboli i richiami alle disuguaglianze sociali e di genere, a una prospettiva di giustizia climatica e di pace (come sottolineato in particolare del piano spagnolo), alla dimensione transdisciplinare alla base dei processi di adattamento e una adeguata valorizzazione delle conoscenze e competenze locali che possono utilmente integrare quelle strettamente scientifiche in un dominio come quello dell’adattamento, per sua natura locale.

Per alcuni ambiti - come quello relativo al dissesto geo-idrologico (frane, alluvioni, erosioni costiere), valgono le considerazioni del contributo specifico a cui rimandiamo, in cui si rileva la vaghezza delle misure di riduzione dell’esposizione e vulnerabilità, concentrate soprattutto sulle azioni di monitoraggio, allerta ed educazione della popolazione. Ma non su quelle di delocalizzazione di edifici posti nelle aree più a rischio, e su politiche più stringenti di governo del territorio, e altre misure praticate altrove dove vi è ormai un ampio consenso tecnico-scientifico.

Infine, la parte su comunicazione, educazione e partecipazione - davvero cruciale per una matura cittadinanza scientifica sull’adattamento climatico - non è compiutamente elaborata, come descritto nel contributo specifico che pubblichiamo, e debole soprattutto nei meccanismi di partecipazione (demandati a un forum) «che si riducono a mera cassa di risonanza e non a gruppi di lavori territoriali di ascolto e confronto, visto che molte opere e azioni inevitabilmente creeranno conflitto sociale ed economico»4.

Nonostante questi limiti, il PNACC italiano è un punto di partenza che ora va riempito di contenuti, strumenti di governance e risorse, con cicli serrati di monitoraggio, di prove, errori e correzioni, anche per evitare il rischio concreto di mal-adattamenti. E accompagnato da una attività scientifica che andrà a sua volta orientata e finanziata adeguatamente.

Note

1. A questo link le diverse situazioni nazionali: https://climate-adapt.eea.europa.eu/#t-countries
2. In particolare nei settori biodiversità, salute e geo-idrologia.
3. Il compito di aggiungere stakeholders, e - naturalmente tutta la popolazione - viene demandato alla Piattaforma Nazionale Adattamento al Cambiamento Climatico di ISPRA: https://climadat.isprambiente.it/
4. Si veda il commento al link: https://www.renewablematter.eu/articoli/article/arriva-pnacc-piano-nazionale-adattamento-cambiamenti-climatici-delude-tutti

 

L’adattamento al cambiamento climatico nel diritto internazionale

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1.I tre livelli dell’adattamento

La disciplina italiana dell’adattamento al cambiamento climatico posta da PNACC si può considerare il terzo livello della regolamentazione di quello che è il secondo pilastro del contenimento del cambiamento climatico.

Il primo è il livello internazionale, dove il riconoscimento dell’adattamento come secondo pilastro della strategia per contenere il cambiamento climatico è giunto a compimento con l’Accordo di Parigi.

Il secondo è il livello dell’Unione europea che si avvia con la comunicazione della Commissione del 2021 “Plasmare un'Europa resiliente ai cambiamenti climatici – La nuova strategia dell'UE di adattamento ai cambiamenti climatici”.

Il terzo livello è costituito dai piani e dalle strategie adottate a livello nazionale, rappresentato, per l’Italia, dal PNACC.

2. Il livello internazionale: cenni storici.

Inizialmente a livello internazionale per affrontare il cambiamento climatico fu prescelta un’unica strategia, la mitigazione, consistente in interventi di riduzione dei gas serra immessi nell’atmosfera o di rimozione dei gas serra già presenti, in modo da stabilizzarne la concentrazione a un livello considerato accettabile per evitare l’aumento di temperatura globale. Fu trascurata la strategia di adattamento, cioè l’adozione di politiche idonee a ridurre gli effetti e le conseguenze negative del cambiamento climatico e, se possibile, a sfruttare le conseguenze positive, limitando i danni in attesa dell’eliminazione delle sue cause mediante gli interventi di mitigazione. Per molto tempo l’adattamento era considerato “un’idea inaccettabile e politicamente scorretta”, in quanto espressione di un rifiuto di impegnarsi per limitare le emissioni o, ancor peggio, di un sostegno alle ragioni dei produttori di petrolio. Era presente in queste valutazioni anche una forte componente etica, in base alla quale la responsabilità del contenimento del cambiamento doveva gravare su chi aveva ampiamente sfruttato i benefici e i vantaggi che ora avevano condotto all’emergenza.

I costi sociali e economici del ritardo dovuto alla scelta iniziale di attuare esclusivamente una strategia di mitigazione sono stati elevati, anche se nel giro di pochi anni si è avviato il processo che ha condotto a considerare l’adattamento come il secondo pilastro della lotta contro il cambiamento climatico.

Il mutamento di prospettiva è segnalato dai rapporti dell’IPCC.

Nel primo Rapporto del 1990 l’adattamento è preso molto succintamente in considerazione nel terzo volume, The IPCC Response Strategies.

Passano dieci anni e il terzo Rapporto del 2001 dedica all’adattamento l’intero secondo volume (denominato Impacts, Adaptation and Vulnerability), mentre la mitigazione è trattata nel terzo volume. Il Rapporto avverte che le strategie di adattamento devono divenire complementari a quelle di mitigazione e saranno necessarie per molti decenni, e forse secoli: “l’adattamento è necessario sia nel breve che nel lungo periodo per contenere l’impatto del riscaldamento globale che si verificherà anche negli scenari più ottimistici. Inoltre, esso può avere benefici immediati per i sistemi sociali e ecologici, riducendo la vulnerabilità a fronte di futuri cambiamenti e di rischi climatici e aumentando le capacità degli uomini e dei sistemi ecologici di adeguarsi”.

Il mutamento di rotta è confermato nel 4° Rapporto del 2007 ove si chiarisce che “il processo di adattamento è necessario nel breve e nel lungo periodo per il surriscaldamento che si produrrà anche nella migliore ipotesi di mitigazione del cambiamento” sicché “l’adattamento deve divenire una strategia parallela agli sforzi di mitigazione in quanto i rischi derivanti dal cambiamento climatico potrebbero aumentare in modo consistente se essa non venga posta in essere.

Si giunge così all’Accordo di Parigi del 2015 che avvia una nuova strategia per affrontare il cambiamento climatico basata sui due pilastri della mitigazione e dell’adattamento. Così l’adattamento passa da presenza sospetta e indesiderata a componente essenziale del contrasto al cambiamento climatico.

L’Accordo indica i principi fondamentali delle azioni di adattamento, specificando gli obiettivi, ponendo particolare attenzione a gruppi, comunità, ecosistemi particolarmente vulnerabili e la necessità di risolvere problemi di carattere giuridico, economico e sociale soprattutto nei paesi in via di sviluppo e in quelli particolarmente esposti agli impatti del cambiamento. Inoltre, l’accordo invita tutti gli Stati a presentare e aggiornare periodicamente una specifica comunicazione sull’adattamento.

3. Che cos’è l’adattamento? La ricerca di una definizione

Il concetto di adattamento è restato per un lungo periodo sfuggente ed è tuttora utilizzato con vari significati nella letteratura scientifica, economica e giuridica. La ragione è data anche dall’ambivalenza dell’espressione che si riferisce sia alle attività poste in essere, sia al risultato che viene conseguito, sia alle finalità perseguite.

È certamente superata la concezione iniziale che riconduceva l’adattamento alla resilienza, alla capacità di un sistema naturale o sociale di assorbire i mutamenti conservando la propria modalità di funzionamento, un processo spontaneo che non aveva bisogno di interventi a livello internazionale.

Attualmente, restano molte incertezze sul contenuto e i limiti degli interventi riconducibili a questa strategia: se debba essere limitato a opere di adeguamento dei sistemi naturali o umani in risposta agli stimoli climatici attuali o attesi o ai loro effetti (quarto rapporto dell’IPCC), oppure se l’adeguamento sia finalizzato anche a far fronte a nuove condizioni determinate dal cambiamento climatico (Commissione dell’Unione europea), oppure ancora, secondo l’ampia definizione dell’UNDP, sia il “processo strutturato per lo sviluppo di strategie, politiche e misure finalizzate ad accrescere ed assicurare lo sviluppo umano di fronte al cambiamento climatico, inclusa la variabilità del clima”.

La concezione più semplice concepisce l’adattamento come una azione di riduzione della vulnerabilità o dell’esposizione ai cambiamenti del clima, incrementando le capacità di farvi fronte. Una seconda concezione inserisce anche azioni di correzione di situazioni esistenti, in modo da migliorare le modalità con le quali si possono affrontare gli effetti del cambiamento del clima. La terza concezione, indicata generalmente come adattamento trasformativo, consiste nel preparare l’assetto economico e sociale esistente per un futuro clima diverso da quello presente in modo da sfruttarne le potenzialità, limitando i danni. L’adattamento non è quindi limitato solo a prevenire gli effetti negativi del cambiamento, ma diviene anche un’opportunità per operare riforme politiche, economiche e sociali che modifichino le disuguaglianze esistenti e limitino comportamenti ambientalmente o climaticamente insostenibili: è quindi un’opportunità di creare un futuro diverso.1

4. La finanza dell’adattamento

Per realizzare interventi di adattamento servono risorse finanziarie e piani di lungo periodo. A livello internazionale, l’attenzione è stata rivolta all’assistenza dei paesi più esposti agli effetti del cambiamento climatico (Most vulnerable developing countries): i paesi poveri (Least developed countries LDCs), le piccole isole (riunite nell’associazione AOSIS) e molti paesi africani colpiti da siccità, desertificazione e inondazioni, mediante la costituzione di appositi fondi.

Gli interventi finanziati dai Fondi per l’adattamento comportano la soluzione di enormi problemi per gli scienziati che si occupano dell’ambiente, dei sistemi naturali, della flora e della fauna. Altrettanto enormi sono i compiti che attendono i giuristi, gli economisti e gli scienziati sociali. Devono infatti affrontare gli aspetti di sicurezza e di sanità delle collettività interessate, i piani di sviluppo economico e produttivo delle aree nelle quali saranno effettuati gli interventi, la pianificazione della produzione e la riorganizzazione delle fonti energetiche, la dislocazione delle infrastrutture; infine, i problemi di riconversione agricola e in generale della produzione alimentare. Tutto ciò, nel quadro di un insieme coerente e efficace di risposte a cambiamenti imprevedibili e magari irreversibili che lacerano l’involucro della stazionarietà, la stabilità complessiva alla quale siamo abituati da secoli: ha osservato un noto giurista dell’ambiente che sarà il più grande esercizio di futurismo legale mai in precedenza concepito. I giuristi debbono cominciare a esaminare gli scenari dei futuri impatti del cambiamento climatico e domandarsi quali risposte darà il sistema legale ai problemi di adattamento: come dovrà modificarsi il diritto di proprietà, il diritto delle assicurazioni, i rapporti tra diritto pubblico e diritto privato e come dovranno cambiare gli accordi internazionali che governano oggi le migrazioni.

Note

1. Su questo argomento: M. PELLING, Adaptation to Climate Change: From resilience to transformation, Routledge 2013; A. Patt, Should adaptation be a distinct field of science? in Climate and development 2013, 3, pp. 187-188; M. D. ZINN, Adapting to Climate Change: Environmental Law in a Warmer World, in Ecology Law Quarterly, Quarterly, Vol. 34, 2007, pp. 61-105.

 

L’adattamento al cambiamento climatico nel diritto comunitario

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Nel paragrafo relativo al diritto internazionale, sono state ben chiarite l’evoluzione del concetto di adattamento negli anni e le diverse possibili concezioni di adattamento, che oggi ha un duplice significato: quello di contenere gli effetti del cambiamento climatico sui territori e le popolazioni (potremmo parlare di adattamento precauzionale) e quello di realizzare riforme utili a creare un futuro diverso e meno ingiusto, nel contesto di un clima che cambia (qui l’adattamento è visto come opportunità da cogliere). Come l’Unione europea ha affrontato la questione dell’adattamento?

Occorre al riguardo considerare, come premessa fondamentale, che la legge europea sul clima del 2021 (Regolamento europeo approvato dal Consiglio Ue il 28 giugno 2021 dopo il voto del 4 giugno del Parlamento Ue)1 definisce i cambiamenti climatici come una “minaccia esistenziale” per l’ambiente e per la salute. Direttamente da ciò consegue (insieme con la fissazione di stringenti obiettivi per la mitigazione delle emissioni e per il contenimento dell’aumento di temperatura) la natura “essenziale” delle misure di adattamento per ridurre la vulnerabilità degli Stati rispetto ai cambiamenti climatici ed in particolare agli eventi estremi, resi più frequenti e imprevedibili dal riscaldamento in corso.

L’art. 5 del Regolamento – nel disciplinare l’adattamento2 - incarica le istituzioni competenti dell’Unione e gli Stati membri di assicurare “il costante progresso nel miglioramento della capacità di adattamento, nel rafforzamento della resilienza e nella riduzione della vulnerabilità ai cambiamenti climatici” in conformità dell’articolo 7 dell’accordo di Parigi e concentrandosi, in particolare, anche nei piani nazionali, “sulle popolazioni e sui settori più vulnerabili e più colpiti” (in questa osservazione è evidente la considerazione delle misure di adattamento anche come strumenti di cambiamento sociale).

La menzionata legge europea sul clima - strumento normativo primario - si basa su una serie di precedenti di “soft law” europea. Fra tali precedenti, il più rilevante per quanto riguarda l’adattamento è la comunicazione della Commissione europea del 24 febbraio 2021 dal titolo «Plasmare un’Europa resiliente ai cambiamenti climatici — La nuova strategia dell’UE di adattamento ai cambiamenti climatici», con la quale è stato istituito un osservatorio europeo per il clima e la salute nell’ambito della piattaforma europea sull’adattamento ai cambiamenti climatici. Ciò in quanto “L'UE e la comunità mondiale non sono attualmente sufficientemente preparate all'aumento di intensità, frequenza e pervasività degli effetti dei cambiamenti climatici, in particolare considerato il continuo aumento delle emissioni”.

Questa strategia europea si fonda su quattro priorità. La prima mira ad un adattamento più intelligente, migliorando le conoscenze e gestendo le incertezze, attraverso il supporto di basi scientifiche sempre più solide. La seconda persegue un adattamento più sistemico, con lo sviluppo di piani attuativi di adattamento a livello degli Stati membri, anche stimolando il monitoraggio, la comunicazione e la valutazione per misurare i progressi compiuti, promuovere la resilienza locale e individuale in maniera giusta ed equa (importante, in sede locale, lo strumento del Patto dei sindaci per il clima e l’energia). La terza priorità consiste in un adattamento maggiormente rapido, fra l’altro accelerando l’introduzione delle varie misure e inserendo l’adattamento nella più ampia azione di prevenzione e riduzione del rischio. La quarta priorità fa riferimento ad un adattamento cooperativo, poiché l’ambizione europea in materia di adattamento ai cambiamenti climatici deve andare di pari passo con la leadership globale dell’Unione nella mitigazione dei cambiamenti climatici. Si tratta di un elemento trasversale nelle azioni esterne dell'UE e degli Stati membri, che abbraccia ambiti quali la cooperazione internazionale, la migrazione, l'agricoltura e la sicurezza (a questo ultimo riguardo, già nel 2008 la Commissione e l'Alto rappresentante avevano sottolineato che i cambiamenti climatici sono un moltiplicatore di minacce, perché acuiscono tensioni e instabilità già esistenti). E per questo la Commissione espressamente dichiara di rivolgersi “all'opinione pubblica, alle città, alle imprese, alle parti sociali e alle regioni, al fine di incoraggiare tutti a partecipare attivamente all'attuazione di questa strategia e a unire le forze per affrontare la sfida dell'adattamento”.

Come espressamente riconosciuto nella Comunicazione della Commissione europea, cruciale è il tema dei finanziamenti. A livello globale, tradizionalmente la schiacciante maggioranza dei finanziamenti del settore pubblico e di quello privato a favore dell'azione per il clima è destinato alla mitigazione. Peraltro in ambito europeo nel 2019 l'UE e gli Stati membri hanno incrementato del 7,4 % il sostegno finanziario complessivo per il clima a favore dei paesi terzi che ha raggiunto 21,9 miliardi di EUR, di cui il 52 % è stato speso per azioni di adattamento. La Commissione si propone di aumentare le risorse e di mobilitare ulteriormente i finanziamenti per l'adattamento su scala più ampia, anche tramite meccanismi innovativi, quali il Fondo europeo per lo sviluppo sostenibile, nonché mobilitando le risorse nei canali bilaterali e attraverso gli Stati membri.

Come per la mitigazione, anche per l’adattamento è di importanza centrale la costante verifica, in sede europea, dei piani e programmi nazionali. Sulla base del menzionato Regolamento europeo 2021/1119, ogni 5 anni a partire dal 2023 la Commissione deve valutare i progressi compiuti dagli Stati membri sia verso l’obiettivo della neutralità climatica che per quanto concerne l’adattamento. Con le medesime tempistiche, la Commissione dovrà riesaminare la coerenza delle misure dell’Unione rispetto ad entrambi gli obiettivi (neutralità climatica e adattamento). Anche i progetti di misure legislative di vario genere, comprese le proposte di bilancio, verranno valutate dalla Commissione per quanto concerne la loro coerenza con tutte le politiche climatiche. Ma che cosa può fare la Commissione se le misure e strategie di uno Stato membro non sono adeguate? La risposta è, come sempre nel caso dell’Unione europea, piuttosto complessa e per certi aspetti persino faticosa, ma tutt’altro che banale. La Commissione infatti, se, dopo aver debitamente considerato i progressi collettivi, “constata che le misure di uno Stato membro non sono coerenti con il conseguimento dell’obiettivo di neutralità climatica … o … nell’assicurare i progressi in materia di adattamento … può formulare raccomandazioni rivolte a tale Stato membro” . Tutto qui? No, per fortuna, perché:

  1. queste raccomandazioni vengono rese disponibili al pubblico, consentendo così il pieno e informato controllo democratico sull’operato dei Governi;
  2. si apre poi una sorta di negoziazione tra lo Stato interessato e la Commissione, in uno spirito significativamente definito di “solidarietà tra Stati membri e Unione e tra gli Stati membri”. Lo Stato membro deve quindi precisare “in che modo ha tenuto in debita considerazione le raccomandazioni; se lo Stato membro interessato decide di non dare seguito alle raccomandazioni o a una parte considerevole delle stesse, fornisce le sue motivazioni alla Commissione”.

Tutto questo è troppo poco? Si, è certamente poco. Ma è molto più di quanto sino a qualche tempo fa ci si poteva aspettare. Ed è molto più di quanto qualsiasi altra Unione di Stati, in giro per il mondo, sta realizzando. Certo, occorre che l’azione della Commissione sia coraggiosa. Occorre che l’Europa riprenda un ruolo importante e unitario nel mondo, potendo così ispirare altre aree geopolitiche a seguirne l'esempio . Occorre soprattutto, a livello interno europeo, che i cittadini seguano i progressi compiuti e siano “dalla parte della Commissione” quando questa, inevitabilmente, si troverà a doversi scontrare con Governi troppo pigri. Tutto questo per realizzare l’obiettivo scolpito nelle conclusioni della menzionata Comunicazione della Commissione europea del 24 febbraio: “Nel 2050 l'UE sarà una società resiliente ai cambiamenti climatici, del tutto adattata ai loro inevitabili impatti”.

Note

1. REGOLAMENTO (UE) 2021/1119 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 30 giugno 2021, che istituisce il quadro per il conseguimento della neutralità climatica e che modifica il regolamento (CE) n. 401/2009 e il regolamento (UE) 2018/1999 («Normativa europea sul clima»). V. su di esso, per un primo commento, S.D. BECHTEL, Symbolic Law or New Governance Framework?, 7 luglio 2021, in https://verfassungsblog.de/the-new-eu-climate-law/.

2. Come si legge nel Considerando 31, “L’adattamento è un elemento essenziale della risposta mondiale di lungo termine ai cambiamenti climatici”.

 

PNACC: poca attenzione alla salute

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1. Introduzione

Le parti del PNACC che si riferiscono agli effetti sulla salute del cambiamento climatico menzionano un numero molto limitato di questi effetti, prevalentemente quelli acuti e diretti (ondate di calore, frane, inondazioni, siccità), cioè la parte emergente dell’iceberg. Questa è una grave limitazione: come dimostrano tutte le esperienze riguardanti fenomeni emergenti e in rapida evoluzione (inclusa la pandemia da COVID-19), più è tempestivo l’intervento e più è probabile che avrà successo. I costi di un adattamento tardivo sono destinati ad essere molto maggiori di quelli di un intervento precoce, sia in termini di vite salvate che sul piano economico.

È opportuno ricordare tutti i possibili impatti sulla salute, perlopiù non menzionati dal PNACC. Essi sono riportati nella Tabella 1; molti di essi sono ancora poco conosciuti o sono addirittura ipotetici, e dunque le capacità di adattamento dovranno andare di pari passo con la ricerca. Tra gli impatti potenziali - non previsti fino a qualche anno fa - ricordiamo le ormai numerose segnalazioni di salinizzazione dell’acqua da bere e dell’acqua usata per irrigare, problema destinato ad acuirsi con l’aumento del livello del mare e la riduzione della portata dei fiumi (come nel delta del Po e del Mississippi).
 

Effetti diretti del CC uragani siccità inondazioni ondate di calore      
Effetti indiretti ridotta qualità dell’acqua inquinamento atmosferico cambiamenti nell’uso del territorio cambiamenti ecologici      
Sinergie con le dinamiche sociali età e genere stato di salute condizioni socio-economiche capitale sociale centri sanitari mobilità e conflitti  
impatti sulla salute salute mentale malnutrizione allergie malattie cardiovascolari malattie infettive traumi malattie respiratorie, intossicazioni

Tabella 1, da Lancet Commission 20151

Naturalmente ciascuno degli impatti sulla salute indicati nella tabella meriterebbe una trattazione separata, che un documento come il PNACC dovrebbe contenere almeno sommariamente.

Gli esempi di impatti sulla salute ignorati nell’attuale PNAC sono numerosi, ma colpisce in particolare l’assenza di riferimenti all’effetto su specifiche categorie di lavoratori: ci sono infatti prove forti, prodotte per esempio nell’ambito del progetto Workclimate avviato da CNR, INAIL e DEP Lazio2, di un aumento degli incidenti in edilizia durante le ondate di calore. Inoltre è plausibile che malattie renali vedano un aumento di frequenza tra i lavoratori esposti al calore a seguito della eccessiva disidratazione, problema abbondantemente segnalato in agricoltura. Non si tratta che di esempi di fenomeni molto più vasti.

2. Molti impatti dimenticati

Il PNACC menziona ampiamente gli effetti del cambiamento climatico sull’agricoltura, ma non ne trae poi le conseguenze per quanto riguarda l’accesso a cibo di buona qualità e economicamente accessibile. Poiché l’area Mediterranea è particolarmente suscettibile alla siccità (abbiamo già visto l’anno scorso l’impatto sulla coltura dell’olivo al Sud e dunque sui prezzi dell’olio), è necessario prevedere molto tempestivamente le conseguenze che cambiamenti simili comporteranno nei prossimi anni e decenni. L’aumento di prezzo dell’olio di oliva può infatti portare all’adozione di abitudini alimentari meno sane, come l’uso di margarine o di burro, o di oli di semi la cui composizione e impatto ambientale sono talvolta discutibili. Analogamente, un aumento dei prezzi di frutta e verdura fresche può facilmente portare a un incrementato consumo di cibi processati o ultra-processati.

Un altro tema ignorato dal PNACC è quello emergente degli effetti sul microbioma. In generale, il PNACC è molto conservativo nell’includere gli effetti ovvi e meglio conosciuti del cambiamento climatico, ignorando che questo interagisce con altre rapide trasformazioni planetarie come la perdita di biodiversità (secondo alcune stime, circa il 60% di riduzione delle specie conosciute tra il 1970 ed oggi). Le interazioni tra diversi mutamenti nella biosfera si ripercuotono sulla qualità del nostro microbioma - cui contribuisce anche l’abuso degli antibiotici - e dunque sui rischi di malattia. Un articolo di Cavicchioli e altri su Nature Reviews Microbiology di qualche anno fa ha riassunto molto bene tutti gli impatti del cambiamento climatico sui microrganismi incluso il microbioma, come illustrato nella figura sotto3. La tesi generale dell’articolo è che il cambiamento climatico sottopone a stress l’insieme del capitale naturale, facilitando l’azione degli agenti infettivi nel produrre malattie (Figura). L’accento viene messo sulla natura sistemica dei cambiamenti, che richiede una risposta altrettanto sistemica. Come la mitigazione, anche l’adattamento non può che essere il più possibile coordinato, proattivo e tempestivo anziché frammentario e reattivo. Un tema totalmente trascurato finora è anche quello degli effetti sulla malattia mentale. E’ difficile al momento attuale prevedere come si potranno predisporre modalità di contenimento delle conseguenze psicologiche e mentali del cambiamento climatico in tutte le loro manifestazioni, ma il problema non può essere trascurato.

Immagine da Cavicchioli R et. alScientists' warning to humanity: microorganisms and climate change. Nat Rev Microbiol 2019. Licenza: CC BY 4.0 DEED

3. Una strategia lungimirante e coordinata

È evidente che dovremo convivere molto a lungo con un cambiamento climatico ingravescente. L’Italia non brilla per capacità previsionali e pianificatrici. Tuttavia, non solo – come si è detto – prima si agisce e maggiore è l’efficacia, ma talora l’azione può essere inaccettabilmente tardiva. Se pensiamo per esempio all’innalzamento del livello del mare e ai rischi legati alle mareggiate, sarebbe opportuno cessare di costruite abitazioni ma soprattutto strutture pubbliche come gli ospedali lungo la costa. La stessa pianificazione di infrastrutture come strade, ferrovie e aeroporti dovrebbe tener conto con molto anticipo dei fenomeni idrogeologici legati al cambiamento climatico. Insomma è necessario un vero pensiero strategico piuttosto che adattativo e scoordinato: proattivo anziché reattivo. Chissà che non sia anche un’occasione per ripensare l’urbanistica del nostro paese.

Bisogna inoltre ribadire fortemente che le misure di adattamento rischiano di andare in direzione opposta alla mitigazione, non solo per l‘uso di risorse economiche necessariamente limitate, ma perché le misure di adattamento possono incrementare l’uso di cemento e l’abuso del territorio. Si possono immaginare molte soluzioni semplici e innovative per rispondere alle emergenze. L’osservatorio europeo su clima e salute riporta esempi e casi studio come per esempio l’assistenza psicologica in Germania per le vittime di alluvioni; la trasformazione dei cortili scolastici in aree verdi a Parigi per consentire il refrigerio della popolazione vulnerabile durante le ondate di calore; i sistemi di sorveglianza e controllo delle infezioni trasmesse da zanzare in diverse comunità; e tanti atri esempi4.

4. Alcune proposte

1. Alla luce delle considerazioni che precedono un compito prioritario di una iniziativa congiunta di diversi Ministeri (Ambienti, Salute, Infrastrutture) è istituire un sistema di aggiornamento delle prove scientifiche in tempo reale, attraverso rassegne sistematiche analoghe a quelle dell’IPCC (con gradazione per forza elle evidenze), da pubblicare su un apposito sito.

2. Generalizzare le buone pratiche, come le linee guida adottate da alcune Regioni e proposte da Workclimate, per proteggere i lavoratori dagli aumenti di temperature incluse le ondate di calore.

3. Coordinare (possibilmente in un centro nazionale) le attività di modellizzazione e predizione dei rischi, includendo variabili sociali (relative alle diseguaglianze) e indagando le relazioni dose-risposta, prevedendo diversi scenari a seconda della gravità del cambiamento climatico.

4. Coordinare attività di ricerca (per esempio la rete creata per lo studio della biodiversità con i fondi PNRR) per prevedere anticipatamente gli effetti sulla salute e prepararvisi.

5. Potenziare gli studi sulla suscettibilità di diversi settori della popolazione, per esempio tramite l’ISTAT, e l’INAIL in particolare sulla distribuzione della suscettibilità alle ondate di calore in diversi strati socio-economici (inclusi gli immigrati).

6. La collaborazione tra Ministeri attraverso una commissione inter-ministeriale dovrebbe considerare l’impatto climatico delle misure di adattamento. L’esempio più ovvio è la fornitura di aria condizionata nelle abitazioni e nelle strutture per anziani, ma anche l’imbrigliamento di fiumi per prevenire le alluvioni e altri esempi analoghi. Nei casi in cui l’adattamento richiede interventi strutturali si dovrebbe ricorrere a soluzioni nature-based anziché a cemento, acciaio e soluzioni energivore. Per esempio, per contenere gli aumenti di temperatura dovrebbero essere promosse là dove possibile ombreggiature naturali anziché condizionatori d’aria.

Note

1. Watts N et al. Health and climate change: policy responses to protect public health. Lancet Comm, 2015, https://doi.org/10.1016/S0140-6736(15)60854-6
2. Si veda al sito: https://www.worklimate.it/
3. Cavicchioli et al. Scientists' warning to humanity: microorganisms and climate change. Nat Rev Microbiol 2019 Sep;17(9):569-586.
4. Si veda al link: https://climate-adapt.eea.europa.eu/en/observatory

 

La comunicazione dell’adattamento al cambiamento climatico nel PNACC

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1. Introduzione

La diversità degli impatti del cambiamento climatico e degli attori coinvolti nell’adattamento fanno della comunicazione un tassello fondamentale nel percorso di attuazione del PNACC1. È attraverso la comunicazione che si informano e si consultano la società civile e i portatori di interesse, coinvolgendo cittadini, imprese ed enti locali nelle decisioni, e costruendo un consenso attorno a politiche e azioni che hanno a venire. È attraverso la comunicazione che si supportano anche l’esatta definizione e il buon funzionamento della governance dell’adattamento, in direzione di un’efficace azione di sistema.

Materiali e spunti sulle possibili azioni di comunicazione e partecipazione non mancano. Il PNACC parla di informazione, divulgazione e campagne di sensibilizzazione, di educazione nelle scuole e di formazione di amministratori pubblici, organizzazioni di categoria e professionisti, ma anche di processi organizzativi e partecipativi, dello sviluppo di reti a supporto del processo decisionale e politico, e dell’istituzione di un Forum permanente dedicato all’informazione e al coinvolgimento dei portatori di interessi e della società civile (PNACC, p. 101). A oggi tuttavia le maggiori urgenze riguardano l’individuazione delle risorse necessarie a supportare queste azioni di comunicazione. Dall’attivazione dell’Osservatorio nazionale nella definizione delle specifiche fonti di finanziamento, alle professionalità che, pur non specificate nel Piano, si auspica contribuiranno a costituire e supportare il Forum. Pensiamo in particolare al ruolo di comunicatori della scienza, esperti di comunicazione del rischio, psicologi e sociologi. Detto questo le azioni di comunicazione nel PNACC si articolano su due grandi fronti, che sono le azioni di Informazione, e quelle relative ai Processi organizzativi e partecipativi.

2. Per decidere bisogna conoscere

Per quanto riguarda le azioni di informazione2 come la divulgazione, l’educazione e la formazione, fondamentale per la comunicazione dell’adattamento è puntare sulla chiarezza di obiettivi e messaggi, coerentemente con gli scopi del PNACC e dei Piani di azione, e sull’efficace diffusione e condivisione delle informazioni. Il PNACC fornisce alcune indicazioni sulla comunicazione di Strategie e Piani di Azione (Allegato I, pp. 53-54; Allegato II, pp. 132-134) e del monitoraggio dell’implementazione (Allegato I, pp. 130-133; Allegato II, pp. 161-162). A questo proposito, si segnala, per le campagne informative e di sensibilizzazione sarebbe utile fornire alle Regioni e alle Pubbliche Amministrazioni prodotti editoriali personalizzabili per la predisposizione del Quadro Climatico e per la produzione di materiali informativi sintetici sugli scenari climatici, gli impatti a livello locale, le Strategie, i Piani di Azione e il significato delle azioni di adattamento. Inoltre, per promuovere l’accessibilità e la condivisione delle informazioni, è importante che le campagne di comunicazione tengano conto delle caratteristiche della popolazione, e quindi dell’effetto dei numerosi fattori che sono noti influenzare la partecipazione e l’accettazione delle politiche di adattamento (quali età, genere, educazione, status economico, orientamento politico, credenze e consapevolezza ambientale)3. Questa indicazione sarebbe da riferirsi anche all’“elaborazione di piani di comunicazione specifici per ogni settore”, nell’ambito delle attività di comunicazione di Strategie e Piani di Azione (Allegato I, p. 54). Inoltre, quanto alla citazione nel PNACC degli ottimi consigli del manuale sviluppato da Climate Outreach su commissione dell’IPCC nel 2018 per una buona comunicazione del cambiamento climatico (Allegato I, p. 132), è utile osservare che su questo importante tema è disponibile oggi una letteratura scientifica più ampia e aggiornata con numerosi suggerimenti e raccomandazioni dalla sociologia, psicologia e comunicazione del rischio4.

Per finire, da un punto di vista strategico, si segnala che puntare ad alimentare una forte sinergia tra Forum e Comitato5 consentirebbe di sviluppare azioni di Informazione studiate appositamente per supportare i Processi organizzativi e partecipativi, in funzione degli obiettivi e attività programmate dal Comitato.

3. La partecipazione non è un optional

I Processi organizzativi e partecipativi6 rappresentano il cuore delle attività di comunicazione nell’attuazione di un Piano tanto sfidante e complesso. Fondamentale è prevedere obiettivi concreti di partecipazione della società sia ai processi decisionali sia alle delicate fasi di implementazione delle politiche. Ciò che serve è quindi organizzare e avviare effettivi percorsi di partecipazione della società civile e degli stakeholder, con particolare attenzione anche al settore privato7, superando di gran lunga i più basilari e pur necessari obiettivi di divulgazione “su quanto sta succedendo” e “su quanto è stato deciso”, per puntare a un vero e proprio dialogo con la società, le comunità, le imprese e gli enti locali, in grado di dare concretezza alle azioni di comunicazione e agli obiettivi di partecipazione fin dalle prime fasi dell’attuazione.

Per supportare i processi decisionali in Italia urge da tempo animare un dibattito pubblico a diverse scale sull’individuazione e l’implementazione di soluzioni ad hoc di adattamento a livello regionale e locale. Parliamo di quel dibattito pubblico che avrebbe sicuramente giovato di un maggior impegno nella comunicazione collegata alla consultazione pubblica del 2023. A questo proposito e di buon auspicio per il futuro si ricorda che, come indicano le “Linee guida sulla consultazione pubblica in Italia” (Direttiva 31 maggio 2017), le attività di comunicazione e la diffusione di un rapporto di sintesi degli esiti della consultazione rappresentano strategie preziose per supportare i processi consultivi e favorire il coinvolgimento dei cittadini.

Dal punto di vista metodologico è utile puntare al coinvolgimento di comunità, associazioni e reti preesistenti, oltre che alla creazione di nuovi gruppi. A proposito di metodi, le strategie suggerite nel PNACC includono l’organizzazione di conferenze, workshop, focus group, consultazioni pubbliche e assemblee cittadine (Allegato I, Scheda A.4.2 , p. 6-7 di 71; Allegato II, Scheda A.4.2, p. 13 di 58) . Di supporto per queste attività sarebbe quindi lo sviluppo di manuali user-friendly per la comunicazione di indicazioni e buone pratiche di partecipazione, a partire da quanto enunciato nei capitoli A.4.1, A.4.2 e nelle rispettive Schede Operative degli Allegati I-II sui temi della selezione e integrazione degli stakeholder. Inoltre la Piattaforma nazionale sull’adattamento ai cambiamenti climatici, considerata lo strumento informatico di riferimento per i lavori del Forum, può rappresentare un ottimo punto di partenza per lo sviluppo di strumenti operativi, oltre che informativi, a supporto della comunicazione tra cittadini e tra portatori di interesse, per agevolare la condivisione di contatti, metodi e buone pratiche. A questa osservazione si potrebbe collegare l’azione di “sviluppo di una piattaforma online per lo scambio di informazioni ed esperienze” citata tra le attività di comunicazione di Strategie e Piani di Azione (Allegato I, p. 54).

4. Coerenza, urgenza, e fiducia

Badando alle priorità, a viaggiare a braccetto con il tema a oggi irrisolto delle risorse è sicuramente quello della coerenza, nodo cruciale di un’efficace comunicazione. Secondo molti il PNACC necessiterebbe fin da ora di una sostanziale riformulazione per passare da quello che è definito un documento di indirizzo a un vero e proprio programma e piano di azioni concrete. Ragionevolmente, nel rispetto della partecipazione attiva della società e delle specifiche caratteristiche e vulnerabilità dei territori, le maggiori criticità comunicative del Piano sembrano riguardare più la carente definizione e comunicazione delle “regole del gioco” – dai target generali di adattamento e le priorità alla definizione della governance – che non le azioni da mettere in campo. I maggiori rischi riguardano i possibili ritardi e la dispersione nell’ambito di decisioni, azioni e risorse, e una più limitata capacità di neutralizzare e rimuovere gli ostacoli all’implementazione8. Rispetto alla garanzia della congruità degli interventi in direzione di obiettivi di adattamento chiari e condivisi, centrale sarà quindi la cura dedicata all’elaborazione del piano di comunicazione per la pubblicazione e diffusione dei risultati delle attività del Sistema di Monitoraggio, Reporting e Valutazione (Allegato I, p. 131-133; Allegato II, p. 162).

Infine, a proposito di coerenza, la comunicazione del rischio insegna che la credibilità delle istituzioni è fondamentale per coltivare e nutrire il senso di fiducia delle persone, contribuendo a una risposta efficace ai pericoli climatici9. Per questo motivo sarebbe urgente partire da subito con una pulizia del dibattito politico dalle insidie del negazionismo e dell’inattivismo , e dalla pubblica assunzione di responsabilità e impegno dei decisori politici nel supportare un dibattito vivo e informato sulle soluzioni dell’adattamento (e non solo) ai cambiamenti climatici nel nostro Paese.

Note

1. Le azioni di comunicazione previste dal PNACC rientrano nella tipologia di azioni di tipo A (soft), con l’obiettivo di “una maggiore conoscenza o lo sviluppo di un contesto organizzativo, istituzionale e legislativo favorevole” e sono considerate propedeutiche alla realizzazione delle azioni di tipo B (non soft) (PNACC, p. 90).
2. Si intende qui la macrocategoria delle azioni “Informazione” (ID I), con particolare riferimento alla categoria “Divulgazione, percezione, consapevolezza e formazione” (ID F) (PNACC, p. 90, Tabella 8).
3. Schwirplies C (2018) Citizens' Acceptance of Climate Change Adaptation and Mitigation: A Survey in China, Germany, and the U.S. Ecological Economics, 145, March 2018, pp. 308-22. Johnson E, Nemet GF (2010) Willingness to pay for climate policy: a review of estimates. In: La Follette School Working Paper No. 2010-011. La Follette School of Public Affairs, Madison, WI.
4. Re S (2021) La transizione ecologica, un impegno di rinnovamento sociale non più revocabile. Scienza in rete, 9 aprile 2021.
5. Distinzione spiegata a pag. 100 del PNACC.
6. Si intende qui la macrocategoria “Processi organizzativi e partecipativi” (ID SSS), con particolare riferimento alla categoria “Partenariato e partecipazione” (ID PP) (PNACC, p. 90, Tabella 8).
7. Klein J et al. (2018) The role of the private sector and citizens in urban climate change adaptation: Evidence from a global assessment of large cities. Global Environmental Change, 53, November 2018, pp. 127-36.
8. Cioè gli ostacoli “di carattere normativo, regolamentare e procedurale da mitigare e, laddove possibile, rimuovere” (PNACC, p. 86).
9. Per “pericoli climatici” si intendono quelle variazioni delle diverse caratteristiche del clima che assumono un’entità tale da poter causare impatti negativi sui sistemi ambientali e socioeconomici (PNACC, p. 18).
10. “Il climatologo Michael Mann: «Ci è stato fatto questo fantastico dono: la Terra. Abbiamo il dovere etico di non distruggerla per le generazioni future»”, intervista di Stella Levantesi a Michael Mann, Valigia Blu, 22 aprile 2022; www.valigiablu.it/crisi-climatica-guerra-combustibili-fossili/

 

Processo di approvazione del PNACC e collegamento con il Green Deal

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1. Introduzione

Nelle prime pagine del Piano Nazionale per l’Adattamento ai Cambiamenti Climatici (PNACC) si ripercorre la procedura multilivello attraverso cui lo stesso ha avuto origine e si è poi sviluppato, sino a essere approvato dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica (MASE).

In tale sede si legge che è l’Accordo di Parigi, all’art. 7, che “fissa l’obiettivo globale dell’adattamento e prevede, per il suo conseguimento, che ciascuna Parte si impegni in processi di pianificazione dell’adattamento e nell’attuazione di misure” (p. 4). Il documento richiama poi l’adozione del Green Deal europeo (GDE)1 e la Strategia dell’Unione per l’adattamento ai cambiamenti climatici. Quindi fa riferimento al Reg. (UE) 2021/11192, che rafforza proprio gli obiettivi della strategia citata e, “integrando nell’ordinamento dell’UE l’Accordo di Parigi e l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, prevede che gli Stati membri adottino e attuino strategie e piani nazionali di adattamento” (p. 5). Come si vede da queste prime parole, il PNACC ha uno svolgimento a cascata, organizzato su più livelli tra loro comunicanti e non separati in modo netto, ma con funzioni distinte e, al contempo, obiettivi e approcci condivisi. Questi ultimi, aventi matrice sovranazionale, consistono in: diminuire l’impatto dell’innalzamento delle temperature attraverso azioni in grado di mitigarne l’effetto sulle persone e sui territori, quindi ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, migliorare la capacità di adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, nonché trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche.

La definizione del contenuto delle azioni da intraprendere e le varie misure attuative per poter raggiungere gli obiettivi condivisi spettano agli esecutivi nazionali e agli enti del territorio. Seguendo un processo preparatorio che è sia sovranazionale sia domestico, gli Stati redigono documenti come il PNACC, che, pur trovandosi a valle della catena attuativa delle politiche di adattamento, non costituisce l’ultimo step dell’iter procedurale, giacché è prevista anche una fase ulteriore, da concretizzarsi tramite attività e strumenti per porre in essere le misure previste dallo stesso Piano. Con riferimento al processo che ha condotto all’adozione del PNACC, si evidenziano due aspetti: la natura ibrida e multilivello delle politiche pubbliche per la transizione ecologica, con un movimento discendente, top-down (§ 2); le garanzie di apertura e partecipazione che favoriscono il dialogo con gli interessati, quindi un approccio (anche) bottom-up, con il contributo attivo delle collettività e degli stakeholders (§ 3).

2. Una pianificazione ibrida e multilivello

La scelta di dare centralità agli strumenti di adattamento ai cambiamenti climatici è, come detto, portata avanti sia dall’Accordo di Parigi, sia dal Regolamento UE n. 1119/2021. È proprio il PNACC a richiamare il quadro giuridico di riferimento: ricostruendo la cornice normativa internazionale (pp. 8-10); facendo riferimento agli atti dell’UE, segnatamente quelli che compongono il GDE, con l’obiettivo della neutralità climatica del continente entro il 2050 (pp. 11-13); menzionando infine anche le norme interne in tema di adattamento ai cambiamenti climatici3.

Il PNACC, quindi, nasce da un percorso articolato, traducibile in un modello di programmazione ibrida o multilivello, che descrive lo stato dell’arte e le maggiori problematiche ed esigenze, che definisce le azioni da intraprendere e i soggetti da coinvolgere e che prevede una serie di attività, anche a carattere obbligatorio o limitativo, in capo a soggetti pubblici e, indirettamente, anche privati. Questo iter, nondimeno, si compone di più fasi, che interessano diversi ordini giuridici: a livello internazionale si riconosce il bisogno di intervento da parte dei poteri pubblici e si affida tale compito agli Stati nazionali; in ambito europeo si definiscono alcuni vincoli e si fissano gli obiettivi comuni, nonché l’approccio; in ambito nazionale e subnazionale sono finalizzate la strategia, le politiche e le misure concrete per intervenire secondo il disegno comune.

Emerge un quadro giuridico-regolatorio che presenta due caratteri importanti: una struttura multilivello e policentrica e l’utilizzo di programmazioni ibride, per favorire un collegamento e una combinazione tra i livelli di governo e i centri di potere coinvolti.

Sotto il primo profilo, si deve partire dalla premessa che la globalizzazione della regolazione ambientale è stata, sinora, più lenta di quella avvenuta in altri settori (finanza, commercio, tutela della salute, sicurezza alimentare; internet; ecc.), producendo un’armonizzazione ridotta degli strumenti pubblicistici per la cura di una materia di rilevanza mondiale, con obiettivi di tutela universali. Al contempo, sono stati adottati testi legali, strumenti normativi e approcci comuni per affrontare il problema della salvaguardia ambientale e dei cambiamenti climatici; con uno sviluppo peculiare a livello regionale, segnatamente nell’area europea. Parallelamente, resistono la discrezionalità politico-amministrativa e i poteri di regolazione e attuazione in ambito statale e infra-statuale, rispetto alle dinamiche proprie della global governance. Con un passo in avanti, dovuto al Green Deal, la cui strategia è proprio mantenere distinti l’ambito domestico e quello ultra-statuale, creando però un ponte tra obiettivi comuni, sovranazionali, e l’attuazione di politiche pubbliche tese a risolverli, affidate agli attori nazionali o subnazionali4.

Questo approccio presenta dei limiti: non essendo in grado di uniformare le politiche ambientali a un livello elevato ed efficace di tutela, consente resistenze e inazioni in ambito domestico. Nondimeno, comporta anche dei vantaggi: favorisce la capacità di adattarsi e di adeguare le misure alle esigenze locali e alle loro caratteristiche; migliora l’interazione con la società civile, incrementando il contributo dei privati, nonché l’adesione di questi ultimi al processo di cambiamento; aumenta la diffusione di buone pratiche e la competizione virtuosa tra gli attori del processo, incentivando una race to the top tra le varie politiche pubbliche che non sarebbe possibile se il sistema fosse interamente armonizzato e gestito al centro.

Questi aspetti sono centrali proprio nelle azioni relative all’adattamento climatico perché in tale ambito – più che in altri – le soluzioni devono tener conto del territorio e delle sue esigenze e devono essere organizzate e realizzate in ambito domestico, se non locale, e non imposte da istituzioni esterne e lontane dai luoghi di attuazione.

Al fine di rendere efficace ed efficiente il dialogo tra livello centrale e quelli periferici, si adopera, come detto, un modello ibrido di programmazione. Per questo il PNACC è il portato di una pianificazione cominciata con i Nationally Determined Contributions (artt. 3, 4 e 6, Accordo di Parigi), proseguita con gli obiettivi comuni del GDE e del Reg. n. 1119 e quindi finalizzata con la Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici e il Piano. Come avviene anche in altri ambiti di rilevanza ambientale (agricoltura, trasporti, energia, fondi sociali, NextGenEU, ecc.), la pianificazione è ibrida, perché collega e innesta tra loro le programmazioni della Commissione con quelle degli Stati membri. Ciò, peraltro, è visibile anche in termini di finanziamento, giacché, come si legge nello stesso Piano, “la programmazione economica nazionale si associa a quella europea, contribuendo al co-finanziamento dei programmi con risorse proprie, ma limitandosi a selezionare le priorità di spesa già definite in sede europea” (PNACC, p. 96).

Il sistema di doppia programmazione serve ad anticipare e a co-definire le politiche di regolazione, che sono rese note e organizzate tra Ue e Stati: si instaura quindi un dialogo che prevede un controllo della prima sui secondi, ma anche un margine di decisione ampio in capo a questi ultimi, investiti del potere di definire il contenuto delle programmazioni. Il modello anticipa, internalizza e sottopone al negoziato conflitti e differenze e risulta potenzialmente efficace per realizzare politiche radicali, controverse e ambiziose come il GD. Tuttavia, lo stesso istituto presenta insidie, ostacoli e costi non indifferenti – su tutti quelli relativi alla capacità delle amministrazioni pubbliche di programmare interventi da svolgere secondo un disegno efficace e di successo5 – e ha bisogno di regole chiare e predefinite, segnatamente se articolato su più piani di governo; senza tralasciare il rischio di non ottenere interventi adeguati al livello di impegni previsti per raggiungere gli obiettivi comuni.

3. Il contributo bottom-up e l’apertura agli stakeholders

Il processo di redazione e definizione del PNACC ha un’origine “top-down”, sovranazionale, che poi si sviluppa e si afferma a livello domestico. A ciò va aggiunto il contributo fornito dai privati portatori di interessi, con un approccio che tiene quindi conto di opinioni, proposte e osservazioni mosse dalla società civile e, pertanto, produce un movimento dal basso, di tipo “bottom-up”.

Se ne ha conferma, in primo luogo, dalla predisposizione di uno strumento informativo per consentire ai cittadini di apprendere dati e informazioni sul Piano e sui temi che esso affronta: la “Piattaforma nazionale sull’adattamento ai cambiamenti climatici” (PNACC, p. 5). Si tratta di un portale finalizzato a informare e sensibilizzare sulla tematica dell’adattamento, rendendo altresì disponibili dati e strumenti utili a supportare la pubblica amministrazione nei processi decisionali. In questa fase l’apertura del decision-making pubblico soddisfa la “visione”6, ossia la possibilità di conoscere cosa intende fare la pubblica amministrazione nella materia in oggetto.

In secondo luogo, ha avuto luogo il momento della “voce”7, con il coinvolgimento diretto degli stakeholders: il MASE ha ritenuto che la redazione del Piano dovesse avvenire nell’ambito di un processo partecipativo strutturato, quale quello incluso nel procedimento di Valutazione Ambientale Strategica, e ha quindi avviato una fase di consultazione pubblica sulla proposta di Piano e sul Rapporto Ambientale con la pubblicazione dell’avviso sul portale delle valutazioni ambientali del Ministero. Con la chiusura della consultazione sono pervenute osservazioni e contributi da vari enti e da privati cittadini, per un totale di 84 documenti.

Il momento propriamente partecipativo consta a sua volta di due fasi: una consultazione pubblica tramite questionario, diretta a indagare la percezione dei diversi portatori di interesse nei confronti della tematica dell’adattamento ai cambiamenti climatici e a valutare le possibili azioni da intraprendere per favorirlo; la raccolta di interventi in seguito alla pubblicazione della prima bozza di Piano, al fine di ricevere osservazioni e suggerimenti da tutti i soggetti interessati con riferimento alle politiche pubbliche da porre in essere (PNACC, p. 7).

Il meccanismo descritto mette in luce alcuni elementi di interesse, con risvolti positivi e negativi. In primo luogo, rispetto alla partecipazione nel procedimento amministrativo – non necessaria in caso di pianificazione e programmazione ai sensi dell’art. 13, l. n. 241/1990 – si ampliano gli strumenti di intervento e la loro applicazione alle attività svolte dai poteri pubblici, con l’obiettivo di rafforzare il consenso e aumentare la democraticità delle decisioni. Il PNACC, infatti, avviene in un momento antecedente a quello di amministrazione diretta e non riguarda l’attuazione di misure provvedimentali, ma la formazione dei contenuti delle politiche.

In secondo luogo, la consultazione viene adoperata per tre finalità determinanti e coerenti con il disegno della reazione ai cambiamenti climatici: condividere e rendere note in via anticipata le decisioni e le politiche sulla transizione ecologica; ottenere consenso sugli strumenti da porre in essere per raggiungere gli obiettivi stabiliti; diffondere informazioni su temi poco conosciuti e sulle opportunità economiche a disposizione.

Infine, a fronte degli aspetti positivi, sussiste una problematica legata al peso decisionale delle varie sollecitazioni cui è esposto il PNACC: quali regole definiscono quando e come questo traduce obiettivi e direttive sovranazionali, indicazioni e linee guide del Ministero proponente o istanze provenienti da esperti, stakeholders o dalla collettività? Nella definizione di un modello plurale e partecipato, infatti, non è chiaro – giacché la disciplina non lo specifica – quanto peso decisionale abbiano i vari poteri o soggetti coinvolti nella stesura, negoziazione e approvazione del piano. Inoltre, non vi sono obblighi, in capo ai soggetti competenti, di rendere conto degli esiti della consultazione. Questo aspetto ha un peso rilevante sul giudizio in merito ai sistemi partecipativi che da strumenti di apertura, incremento del pluralismo e allargamento del consenso possono divenire adempimenti meramente formali dai contorni confusi, difficili da valutare e di scarsa efficacia concreta8.

Note

1. Commissione europea, Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni. Il Green Deal europeo, Bruxelles, 11.12.2019 COM(2019) 640 final.
2. Per un’analisi del Reg. come norma sovranazionale di indirizzo delle politiche nazionali sul clima, D. Bevilacqua, La normativa europea sul clima e il Green New Deal: una regolazione strategica di indirizzo, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 3/2022.
3. Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (SNAC), adottata con Decreto Direttoriale del 16 giugno 2015, n. 86.
4. In tal senso, D. Bevilacqua, Il Green New Deal, Milano, Giuffré, 2024, p. 101 ss.
5. In tema di “capacità amministrativa” si vedano i contributi contenuti di F. Di Mascio e A. Natalini, M. Macchia, M. Bevilacqua e A. Sandulli, in Giornale di diritto amministrativo, n. 4/2023, pp. 436 – 469.
6. La partecipazione pubblica all’attività amministrativa si articola in due momenti: uno appartenente alla “visione”, come accesso alle informazioni in possesso delle amministrazioni, l’altro relativo alla “voce”, in cui i cittadini manifestano le loro opinioni alle stesse amministrazioni: M. D’Alberti, La ‘visione’ e la ‘voce’: le garanzie di partecipazione ai procedimenti amministrativi, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 4, 2000.
7. Ibidem.
8. Sui diversi risvolti, in chiave positiva e negativa, della partecipazione alle decisioni pubbliche la letteratura è piuttosto ampia. Con riferimento alla materia ambientale, si richiamano, ex pluribus: M. Carducci, Natura, cambiamento climatico, democrazia locale, in Diritto Costituzionale. Rivista Quadrimestrale, 3/2020, p. 93; H. Stevenson & J. Dryzek, Democratizing Global Climate Governance, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, p. 13 ss.; W.D. Ruckelshaus, The Citizen and the Environmental Regulatory Process, in IND. L.J., 47, 1972, p. 637.

 

Differenze tra danno ambientale e danno climatico

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Il Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica (“MASE”), con decreto n. 434 del 21 dicembre 2023, ha approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici (“PNACC”) che tiene conto della collocazione dell’Italia nel c.d. “hot spot mediterraneo”, area particolarmente sensibile e vulnerabile rispetto al contesto climatico.

Il PNACC programma le azioni di adattamento con l’obiettivo - si legge nella sua Introduzione - di “fornire un quadro di indirizzo nazionale per ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, migliorare la capacità di resilienza e adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, nonché trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche”.

La ricostruzione del quadro normativo di riferimento da parte del MASE riconduce il cambiamento climatico alla materia ambientale, rilevando come - sotto il profilo giuridico – tale tematica nasca principalmente nell’ambito del diritto ambientale, pur presentando connessioni anche con altre branche del diritto, tra le quali, in particolare, quella del diritto internazionale e quella del diritto dell’energia.

La Relazione del PNACC ritiene, in generale, che le norme ed i principi che informano la materia ambientale siano applicabili anche al tema dei cambiamenti climatici1 pur riconoscendo che non vi sia piena aderenza e automatica sovrapposizione giuridica tra i due ambiti e che, partendo dai menzionati principi, si stia progressivamente venendo a delineare un vero e proprio “diritto climatico”.

Ed è proprio sugli aspetti di “autonomia” e “specificità”, ovvero “sussunzione” e “collegamento” tra i due ambiti giuridici, blandamente richiamati dal PNACC, che si ritiene opportuno svolgere qualche breve riflessione.

In particolare, occorre esaminare il rapporto tra clima e ambiente sotto il profilo dei diritti che i cittadini, come singoli e/o come associazioni, possono vantare ed attivare nei confronti dello Stato e/o degli altri soggetti privati/imprese per la tutela (costituzionalmente garantita)2 del diritto a vivere in un ambiente esente da impatti per la sicurezza e la salute. Quindi, nel caso del clima, quali azioni siano in concreto esperibili secondo l’attuale ordinamento per ottenere il rispetto degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 e l’adesione alla pianificazione della transizione energetica, nonché l’eventuale risarcimento dei potenziali e correlati danni.

Il climate change litigation, infatti, è ormai approdato dagli Stati Uniti anche in Europa, e recentemente in Italia, e si fonda sostanzialmente su azioni di risarcimento del danno derivante ai cittadini e alle generazioni future dai cambiamenti climatici in atto.

Si tratta, dunque, di comprendere se tali danni possano effettivamente ricadere nel novero del c.d. danno ambientale, applicandosi – come sembrerebbe indicare in linea di principio il PNACC – le disposizioni di diritto ambientale, ovvero se l’impatto climatico rappresenti una fattispecie giuridica autonoma, con proprie caratteristiche e leve.

Come noto, l’ordinamento comunitario e quello nazionale hanno introdotto una specifica disciplina per regolare il danno ambientale attraverso la Direttiva 2004/35/CE, implementata in Italia dal d.lgs. n. 152/2006 (Parte Sesta). Tuttavia già la Direttiva specifica che “a non tutte le forme di danno ambientale può essere posto rimedio attraverso la responsabilità civile. Affinché quest’ultima sia efficace è necessario che vi siano uno o più inquinatori individuabili, il danno dovrebbe essere concreto e quantificabile e si dovrebbero accertare nessi causali tra il danno e gli inquinatori individuati. La responsabilità civile non è quindi uno strumento adatto per trattare l’inquinamento a carattere diffuso e generale nei casi in cui sia impossibile collegare gli effetti ambientali negativi a atti o omissioni di taluni singoli soggetti”3.

E di fatto, la tutela da cambiamento climatico sembra possedere proprio quelle caratteristiche che ne impediscono una mera sovrapposizione con la tutela da responsabilità civile adottata per l’azione da danno ambientale.

La tesi a favore di un danno climatico quale genere proprio4 si fonda sostanzialmente su tre elementi di differenziazione:

  1. la “globalità”, in quanto il danno climatico investe l’intera biosfera e non è riconducibile ad uno specifico ambito territoriale;
  2. la “temporalità”, in quanto tale danno incide su un arco temporale esteso, tendenzialmente irreversibile, dinamico e non circoscritto;
  3. la “collettività”, in quanto il cambiamento climatico non è riferibile ad un individuo, ma incide sulla collettività in generale.

A ciò si aggiungano, ad avviso di chi scrive:

4. L’oggetto del danno ambientale, ovvero il deterioramento delle “matrici ambientali”5 tipicamente fisiche e misurabili (es. la contaminazione del suolo), che solo molto indirettamente riprende la violazione del diritto umano all’ambiente salubre; e
5. le forme di risarcimento che per il danno all’ambiente portano al ripristino del bene impattato ovvero alla compensazione in forma specifica ove la matrice non sia completamente recuperabile, laddove per il clima invece si articolano in misure di mitigazione, adattamento, supporto alla resilienza, non risultando concepibili (né misurabili né, verrebbe da dire, efficaci) misure ripristinatorie o sanzionatore.

Queste differenze, dunque, mettono in dubbio che i rimedi giudiziali e amministrativi previsti per il c.d. danno ambientale possano trovare applicazione al danno climatico. Non risulta, peraltro, che né i singoli cittadini, né le associazioni abbiano effettivamente avviato le procedure di accertamento del danno ambientale previste dalla Parte VI del d.lgs. n. 152/2006, cercando invece di instaurare giudici risarcitori avanti il giudice civile.

Non a caso, nel ragionare su azioni alternative a quelle previste dal d.lgs. n. 152/2006, la dottrina si è cimentata nell’ipotizzare azioni giudiziarie differenti per far valere in giudizio il danno climatico. In particolare, c’è chi ha valutato la suggestiva ipotesi della c.d. class action deconsumerizzata e chi quella dell’azione popolare avanti il giudice ordinario6.

Relativamente alla prima ipotesi, è stato tuttavia rilevato che lo strumento della class action applicato al danno climatico difetti, tra le altre cose, dell’interesse ad agire nel senso che tale istituto mira a tutelare un interesse individuale, mentre il clima è pacificamente un interesse diffuso7.

Nel secondo caso, l’azione popolare non risulta integrata nell’ordinamento italiano, non esistendo una norma di rango legislativo o costituzionale che introduca tale azione in materia ambientale8.

Tale dicotomia di vedute è sintomatica di un’ampia divisione sull’adattabilità dei criteri di responsabilità aquiliana alla peculiarità del danno climatico sia come sub species di danno ambientale, sia come azioni alternative in sede civile. E ciò per diversi ordini di ragioni:

  • per quanto il cambiamento climatico sia riconosciuto dal mondo scientifico come fenomeno antropico, risulta sostanzialmente impossibile accertare il nesso di causalità (che, tra le altre cose, per il diritto ambientale si pone quale conditio sine qua non di ammissibilità dell’azione) tra le diverse e molteplici cause che concorrono allo stesso e gli impatti che ne derivano;
  • le azioni che, direttamente o indirettamente, concorrono al cambiamento climatico sono, sotto il profilo del diritto ambientale, lecite e autorizzate (in un quadro che non valuta - e non è, ancora, attrezzato a farlo – nell’ambito dell’iter autorizzativo, il contributo climatico delle attività ambientalmente impattanti);
  • gli effetti del cambiamento climatico sono globali, trasversali, a-territoriali (ed extranazionali), così come le cause.

Si aggiunga poi, aldilà delle semplici e strumentali mistificazioni, che il cambiamento climatico è un fenomeno imputabile alla stessa umanità, che ne è anche vittima, nel suo complesso, e non alla mera azione di singoli specificatamente individuati ed individuabili. Con riferimento al danno climatico, dovrebbe infatti piuttosto parlarsi di “responsabilità collettiva” in quanto le emissioni di CO2 sono prodotte sia da imprese, sia da consumatori, in un binomio inscindibile di domanda e offerta. E dove per “collettività” deve intendersi l’umanità intera e non specifici gruppi legati ad una territorialità identificata.

E se è vero che alcuni Stati o regioni hanno maggiormente contribuito alle emissioni di CO2 in passato è altrettanto vero che oggi altri e diversi Stati stanno producendo emissioni in quantitativi ben superiori ai Paesi c.d. sviluppati, spostando così anche “politicamente” cause e reazioni. Non è un caso, quindi, che la soluzione alla crisi climatica sia rimessa ad accordi internazionali tra Stati che, oltre a prendere coscienza del problema, stanno cercando di individuare il delicato bilanciamento per uno sviluppo sostenibile, fermo restando il fatto che il processo correttivo oggi dipende largamente da Stati diversi da quelli EU che pure risultano maggiormente impegnati.

La dimensione globale del fenomeno e la necessità di una misura sovranazionale distinguono, dunque, ulteriormente il danno conseguente al cambiamento climatico da qualunque altro danno, incluso il danno ambientale. Quasi a sintesi di tutti i ragionamenti qui riportati, depone infine la recente sentenza del Tribunale di Roma relativa al c.d. Giudizio Universale9, che ha ritenuto inammissibile la domanda risarcitoria avanzata da cittadini e associazioni ambientali contro lo Stato Italiano rilevando una carenza assoluta di giurisdizione dell’organo giudicante in quanto le scelte per arginare il fenomeno climatico comporterebbero valutazioni strategiche di ordine socioeconomico interessanti in termini di costi-benefici più settori della vita della collettività, rientrando in ciò nella sfera di attribuzione del potere politico e dei suoi organi10.

Ci troviamo quindi a dover concludere che, sotto il profilo fattuale in primis e giuridico poi, il cambiamento climatico sia un fenomeno peculiare e specifico e la sua tutela, in sede giurisdizionale, sia tutt’affatto sussumibile alle categorie giuridiche del diritto ambientale o anche della responsabilità civile extracontrattuale, così come oggi disciplinate e note.

Anche alla luce della prima decisione italiana sul clima, appare necessaria (e non ulteriormente rinviabile) l’individuazione di una reale alternativa di tutela efficacemente attivabile per non lasciare sguarnito il “diritto al clima”, ritenendo, però, che gli strumenti di tutela – per essere realmente efficaci a contrastare il fenomeno - dovrebbero comunque assumere rilevanza internazionale.

Note

1. Come riportato al Cap. 1 Il Quadro Giuridico di Riferimento, della Relazione sul PNACC, si tratta, in particolare, del divieto di cagionare danni transfrontalieri, degli obblighi di cooperazione e di valutazione d’impatto ambientale, dei principi di salvaguardia dell’ambiente, di prevenzione, di precauzione, del “chi inquina paga”, delle responsabilità comuni ma differenziate e rispettive capacità, di equità intergenerazionale e intragenerazionale, dello sviluppo sostenibile, di non regressione, d’integrazione, di sviluppo resiliente al clima, di conoscenza scientifica e integrità nel processo decisionale, di solidarietà, del divieto di arrecare un danno significativo all’ambiente (DNSH). Parimenti rilevanti sono i diritti previsti nella Convenzione di Aarhus sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, del 25 giugno 1998, entrata in vigore il 30 ottobre 2001. Oltre alle norme e ai principi formatisi nel quadro del diritto dell’ambiente, devono ritenersi applicabili alla tematica dei cambiamenti climatici, ove pertinenti, le norme e i principi posti a salvaguardia dei diritti umani: i cambiamenti climatici, difatti, possono avere un impatto su tali diritti (es. diritto alla salute, diritto alla vita, diritto alla vita privata e familiare, diritto di proprietà).
2. A seguito delle modifiche agli artt. 9 e 41 della Costituzione introdotte con Legge costituzionale 11 febbraio 2022, n. 1, la tutela dell’ambiente è adesso espressamente prevista tra i principi fondamentali della Costituzione italiana: l’art. 9, comma III, della Costituzione stabilisce che «La Repubblica [...] Tutela l'ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell'interesse delle future generazioni».
3. Considerata n. 13 Relazione PNACC.
4. V. CONTE, Per una teorica civilistica del danno climatico. Interessi non appropriativi, tecniche processuali per diritti trans-soggettivi, dimensione intergenerazionale dei diritti fondamentali, Convegno DPCE Caserta 2022 (on line). G. GHINELLI, “Le condizioni dell’azione nel contenzioso climatico: c’è un giudice per il clima?, DeJure. M. ZARRO, Danno da cambiamento climatico e funzione sociale della responsabilità civile, Ed. Scientifiche Italiane.
5. F. FRANCESCHELLI, L’impatto dei cambiamenti climatici nel diritto internazionale, Napoli, 2019, p.29 ss.; v. anche F. FONTANAROSA, Climate Chante Damages: un’analisi comparatistica del diritto al clima tra ipotesi di responsabilità e fattispecie risarcitorie, in “the Cardozo Electronic Bulletin, 2020, p. 55 ss. Secondo cui “sebbene “ambiente” e “clima” possano a primo acchito essere considerati parenti, se non addirittura equivalenti da punto di vista giuridico non costituiscono materie sovrapponibili a cagione della diversità di disciplina e di tutela”.
6. V. CONTE, op.cit.altra
7. Nonostante tale rilievo, è significativa l’opposta posizione di altri autori che hanno valorizzato il significato dell’espressione «diritti individuali omogenei» per includere nell’ambito dello strumento in parola anche le controversie inerenti ai danni all’ambiente e al clima in quanto afferenti ai c.d. diritti trans-soggettivi. Tuttavia, non può non rilevarsi che mentre tale sforzo ermeneutico è concettualmente più agevole per le domande inibitorie (art. 840 sexiesdecies c.p.c.), nel caso dell’azione collettiva risarcitoria (art. 840 bis c.p.c.) la legittimazione del singolo sia sempre legata alla doglianza di un diritto direttamente leso. P. L. PORTALURI, Del non pensare per diadi: un dialogo di pochi decenni con Giampaolo Rossi, in Vecchie e nuove certezze nel Diritto Amministrativo, F. Grassi e O. H. Kassim (a cura di), RomaTre Press, 2021, p. 215 ss.; P. FEMIA, Il civile senso dell’autonomia, in The Cardozo Electronic Law Bulletin, 2019, p.8, secondo il quale tali diritti sarebbero «valenze collettive che ciascuno può attivare, ma delle quali nessuno può diventare il signore».
8. S. VINCRE e A. Henke, Il contenzioso climatico: problemi e prospettive, BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto – n. 2/2023. Anche M. ZARRO, op. cit., pag. 80 e ss
9. Trib. Ord. Civ. di Roma n. 3552/2024
10. F. Vanetti, I cambiamenti climatici tra cause civili, scelte politiche e giurisdizione amministrativa, RGA on line.

 

La dimensione regionale e locale dell’adattamento ai cambiamenti climatici

Tempo di lettura: 9 mins

Il PNACC rappresenta un documento programmatorio di rilevanza fondamentale ai fini della identificazione delle misure di adattamento al climate change da implementare nel territorio italiano1, la cui pubblicazione era ormai attesa da anni e, in particolare, dal giugno 2015, quando è stata approvata la “Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici” (della quale il PNACC rappresenta di fatto l’atto di impulso ed attuazione).

Agli operatori più attenti che hanno intrapreso la lettura del PNACC non potrà essere sfuggita la rilevanza posta dal Ministero alle amministrazioni sub-statali ed al contributo che Regioni ed enti locali possono fornire nell’implementazione delle misure di adattamento al cambiamento climatico.

Alla “dimensione regionale e locale dell’adattamento ai cambiamenti climatici”, infatti, non solo è dedicato il paragrafo 1.5 del documento di piano (da cui il presente contributo prende la denominazione), ma ai piani regionali e locali di adattamento sono stati specificamente riservati due allegati (rispettivamente allegato I e II) volti a dettare – tra le altre cose - le indicazioni metodologiche per la redazione del piano a ciascun livello e per i monitoraggi dell’efficacia delle rispettive azioni.

Se da un lato il rilievo posto dal PNACC alle amministrazioni sub-statali si rivela un elemento di indubbia importanza (considerata altresì la scarsa attenzione che per lungo tempo è stata prestata al ruolo di tali amministrazioni nel contesto dell’adattamento al cambiamento climatico, non di rado ritenuto unicamente una “questione da risolvere tra Stati”2), dall’altro lato detto rilievo non può – e non deve – stupire, e ciò per una serie di ragioni.

In primo luogo, da un punto di vista “sistemico”, è innegabile che il tema dei cambiamenti climatici coinvolga differenti aspetti, ivi inclusi profili in relazione ai quali le amministrazioni regionali e locali sono dotate di significative competenze. Sul punto meritano una particolare menzione gli aspetti correlati alla difesa del suolo, all’uso delle risorse idriche ed all’economia circolare: materie, queste, che necessitano dapprima di un “pensiero globale”, per “agire poi a livello locale”3.

Inoltre, con riferimento alla organizzazione amministrativa, la scelta del legislatore europeo in materia di “climate change” è andata chiaramente nella direzione di sposare “un disegno proprio dell’amministrazione che fa fare”, identificando obiettivi concreti (in primis la neutralità climatica dell’Unione Europea entro il 2050) e lasciando agli attori nazionali una “maggiore autonomia decisionale interna”4, anche a fronte della diversità di impatti che il cambiamento climatico può produrre in relazione a ciascuno Stato5.

Tale quadro organizzativo ha dunque favorito – quantomeno con riferimento all’ordinamento italiano – la valorizzazione del principio di sussidiarietà, attribuendo agli enti prossimi al territorio il compito di fornire le risposte più efficaci alle esigenze di adattamento delle comunità locali, pur all’interno di una cornice programmatoria unitaria assicurata dal livello nazionale.

Alla luce di quanto sopra esposto, si rivela pertanto agevole comprendere le ragioni dello spazio riservato dal PNACC alle amministrazioni sub-statali, le quali sono chiamate ad adottare strategie di adattamento al cambiamento climatico (e conseguenti piani di azione) a livello regionale e locale, recependo le linee-guida nazionali ad un livello di maggior dettaglio sulla base delle specifiche caratteristiche dei territori interessati6 ed integrando – laddove necessario – gli atti di pianificazione di rispettiva competenza (si pensi, ad esempio, ai piani regionali di tutela delle acque, piani energetici, piani paesaggistici e piani regolatori) con gli “interessi climatici” tramite un processo di “mainstreaming”.

L’approccio seguito dal Ministero si pone dunque sostanzialmente in linea con gli indirizzi “top-down”, in cui, man mano che si scende “nei rami più bassi dell'ordinamento, gli obiettivi divengono sempre più pregnanti, condizionando la programmazione economica, sociale e ambientale delle Regioni e degli enti locali”7.

In tale contesto un ruolo rilevante sarà svolto dalle indicazioni che saranno fornite dall’“Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici”8, a cui spetterà declinare le modalità e gli strumenti funzionali ad introdurre i principi e le misure di adattamento ai cambiamenti climatici all’interno della pianificazione regionale e locale (e che, a loro volta, saranno adeguati su base locale dalle strutture di governance sub-nazionali).

In attesa della formale istituzione dell’Osservatorio e della pubblicazione delle “linee-guida” a cui in precedenza si accennava9, è bene comunque evidenziare come ad oggi le amministrazioni regionali, provinciali e comunali, pur agendo in un contesto maggiormente frammentario, non abbiano esitato a intraprendere iniziative degne di nota al fine di individuare ed attuare misure di adattamento.

Differenti regioni, ad esempio, oltre all’approvazione di documenti espressamente previsti ex lege (ivi incluse le strategie regionali di sviluppo sostenibile ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. 152/2006), hanno già adottato atti di pianificazione strategica in questo senso, deliberando proprie strategie regionali di adattamento al cambiamento climatico10.

Allo stesso tempo, anche molte amministrazioni comunali hanno fatto ricorso ad atti di carattere volontario11.

Particolare attenzione – ad esempio - è stata riservata dalla dottrina ai “Piani d’Azione per l’Energia Sostenibile ed il Clima” (PAESC), ovvero documenti elaborati dai Comuni aderenti al c.d. “Covenant of Mayor “(Patto dei Sindaci) al fine di identificare strumenti implementabili a livello locale per contribuire al raggiungimento degli obiettivi in esso declinati (tra cui, nella versione originaria, il raggiungimento dell'obiettivo minimo del 20% in termini di riduzione delle emissioni di CO2 entro l'anno 2020)12,13.

Ad ogni buon conto, allo stato attuale risulta naturalmente difficile prevedere l’efficacia che le azioni programmate dal PNACC recentemente approvato produrranno sul breve e sul medio-lungo periodo.

Ciò che si può tuttavia anticipare è che, già alla semplice lettura dei suoi contenuti, traspare il chiaro intento ministeriale di incidere in maniera maggiormente significativa - anche rispetto al quadro preesistente - sulle azioni di adattamento al cambiamento climatico da sviluppare a livello locale, contemplando l’inclusione di tali misure all’interno di atti di pianificazione declinanti indicazioni vincolanti (rectius, ad effetti conformativi) per i destinatari, tra cui il piano regolatore ovvero i piani paesaggistici.

Tale approccio da parte del Ministero – anche in tal caso - non deve sorprendere.

Infatti, da un lato, l’adozione di misure di adattamento (si pensi, ad esempio, a interventi correlati a finalità di messa in sicurezza idraulica, o di prevenzione di incendi boschivi) rappresenta ormai una urgenza anche nell’ottica del soddisfacimento di interessi pubblici primari, quali la tutela della salute. Inoltre, dall’altro lato, è innegabile come l’adattamento al climate change configuri un “settore” in cui le discussioni prettamente politiche si rivelano essere di intensità minore rispetto a quanto accade nel contesto della identificazione delle azioni di mitigazione (dove, agendosi direttamente sulle cause del cambiamento climatico, gli “interessi politici” emergono in misura più rilevante), agevolando così una presa di posizione maggiormente significativa.

In ogni caso, l’auspicio è che le tempistiche di attuazione previste nel PNACC vengano finalmente rispettate, e che i meccanismi di concertazione tra differenti livelli (nazionale, regionale e locale) previsti dal documento in questione possa favorire la celerità degli interventi.

Note

1. In merito alla distinzione tra misure di misure di mitigazione e misure di adattamento, si veda F. FRANCESCHELLI, Il diritto al clima: criticità, limiti e possibili soluzioni, in Federalismi.it, 4 agosto 2023. Sul punto l’autore ricorda che, mentre le misure di mitigazione “intervengono sulle cause del cambiamento climatico, perseguendo una riduzione delle emissioni climalteranti…e un aumento o potenziamento delle fonti di assorbimento”, le misure di adattamento “agiscono, invece, sugli effetti (o impatti) dei cambiamenti climatici e sulle vulnerabilità”. La circostanza che il PNACC sia principalmente preordinato a dettare misure di adattamento emerge alla luce del contenuto del medesimo PNACC, il quale afferma espressamente che il suo obiettivo principale “è fornire un quadro di indirizzo nazionale per l'implementazione di azioni finalizzate a ridurre al minimo possibile i rischi derivanti dai cambiamenti climatici, a migliorare la capacità di adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali, nonché a trarre vantaggio dalle eventuali opportunità che si potranno presentare con le nuove condizioni climatiche”.
2. Come evidenziato anche da N. BERTUZZI, F. CITTADINO, G. GIACOMINI, A. MEIER, Climate change integration in the multilevel governance of Italy and Austria: the key role of vertical and horizontal coordination, in ISSiRFA-CNR, 3/2022, secondo cui “the role of subnational governments in the fight against climate change is still largely understudied”.
3. Cfr. M.A. SANDULLI, Cambiamenti climatici, tutela del suolo e uso responsabile delle risorse idriche, in Rivista Giuridica dell’Edilizia, fasc. 4/2019, p. 291 e ss.
4. D. BEVILACQUA, La normativa europea sul clima e il green new deal. Una regolazione strategica di indirizzo, in Riv. trim. dir. pubbl., 2022, 2, 297 ss. In merito si veda anche B. MARCHETTI, Vincoli sovranazionali e discrezionalità amministrativa, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2022, 721 ss.
5. È stato infatti correttamente affermato che “ogni Stato Membro sperimenterà diversi impatti dei cambiamenti climatici, a fronte di una vulnerabilità specifica per Paese, derivata da caratteristiche ambientali, sociali ed economiche” (CASTELLARI S. e altri, Analisi della normativa comunitaria e nazionale rilevante per gli impatti, la vulnerabilità e l’adattamento ai cambiamenti climatici, MATTM, Roma, 2014, p. 16). Tale affermazione è stata espressamente ripresa anche nei documenti del PNACC.
6. Passaggio significativo in merito è contenuto nell’Allegato I del PNACC, in cui si afferma che “le strategie regionali di adattamento devono essere complementari con quelle nazionali e indirizzare le azioni locali”.
7. F. FRACCHIA, P. PANTALONE, Verso una contrattazione pubblica sostenibile e circolare secondo l'Agenda ONU 2030, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2022, 243 ss.
8. Di prossima istituzione da parte del MASE.
9. Il PNACC prevede che l’istituzione dell’Osservatorio entro tre mesi dall’approvazione del PNACC medesimo, mentre l’“individuazione delle modalità, degli strumenti e dei soggetti competenti per l’introduzione di principi, misure e azioni di adattamento ai cambiamenti climatici nei Piani e Programmi nazionali, regionali e locali” entro sei mesi dall’approvazione.
10. Tra le altre, si segnala Regione Lombardia che, già nel 2012, ha predisposto apposite “Linee Guida per un Piano di Adattamento ai Cambiamenti Climatici”, alle quali successivamente hanno fatto seguito la strategia regionale (2014) ed il relativo documento di azione (2016). Sul punto, il PNACC menziona, tra gli altri, anche gli esempi di Regione Emilia-Romagna, Sardegna, Val d’Aosta, Piemonte, Molise e Liguria, aggiungendo altresì che ulteriori regioni hanno “formalmente intrapreso l’iter verso l’adozione di un piano o di una strategia, predisponendo gli atti funzionali ad essi”.
11. In aggiunta ai tradizionali strumenti contemplati dai testi normativi, tra cui i Piani Urbani della Mobilità Sostenibile (PUMS) di ambito comunale e di area vasta, i Piani del verde urbano, i Piani di emergenza comunale, i Regolamenti edilizi «climate proof», i Piani Urbanistici Generali, i Piani strategici e – per quanto attengano ad un livello territoriale superiore - i Piani territoriali metropolitani.
12. Cfr. tra gli altri, E. FERRERO, Le smart cities nell’ordinamento giuridico, in Foro Amministrativo, fasc.4, 2015, p. 1267 ss, in cui si evidenzia che il Patto dei Sindaci “esprime un'indubbia moral suasion nei confronti degli organi di governo delle comunità locali, perlomeno da un punto di vista degli scopi da raggiungere entro un determinato periodo di tempo”. 13. Sulla base delle prassi sviluppate dai comuni interessati, nei PAESC sono rinvenibili sia azioni di mitigazione (ad esempio, misure atte a garantire un maggiore risparmio energetico degli edifici), sia di adattamento (ad esempio, la messa in sicurezza di infrastrutture).

 

La tutela della biodiversità nel Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici

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1. Introduzione

La perdita di biodiversità e il cambiamento climatico sono fortemente connessi e si influenzano a vicenda. È cosa nota che i cambiamenti climatici possono infatti causare il declino e la scomparsa di molte specie, in particolare quelle meno adattabili. Meno diffusa è la consapevolezza che la biodiversità si traduce in funzionamento degli ecosistemi e quindi maggiore resilienza a eventi atmosferici estremi, nonché mitigazione del surriscaldamento globale. Conservare gli ambienti naturali funzionanti e biodiversi aiuta infatti a ridurre i gas serra generati dalle attività antropiche attraverso il sequestro e l’immagazzinamento di carbonio atmosferico: foreste, zone umide, mangrovieti, mari e oceani sono molto preziosi in questo. Nel 2021, l’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) e l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), hanno pubblicato un report1, nel quale vengono esaminate le connessioni tra biodiversità e clima ed evidenziata l’importanza di trovare soluzioni che tengano conto di entrambi. Se non si riconosce e non si affronta l'intreccio tra i fattori diretti e indiretti del cambiamento climatico e del declino della biodiversità e le loro cause più profonde, si otterranno soluzioni non ottimali per affrontare entrambi i problemi.

Le misure di mitigazione del clima che non considerano le conseguenze sulla biodiversità possono avere gravi conseguenze indesiderate in termini di perdita di specie native ed endemiche. Lo sviluppo di tecnologie per l’energia rinnovabile comporta l’estrazione in profondità oceaniche di minerali rari, con significativi impatti sull’ambiente; gli impianti eolici, solari e idroelettrici possono avere significativi impatti (per esempio l’eolico ha comprovati effetti sull’avifauna migratrice e sui chirotteri, gli impianti solari estesi sottraggono suolo e causano distruzione e frammentazione dell’habitat). Anche la piantumazione di alberi non è immune da ricadute negative e può aumentare la probabilità di un cambiamento nella funzione dell'ecosistema, soprattutto se si tratta di monocolture o se si concentra esclusivamente sul reimpianto di specie con un grande potenziale di sequestro e immagazzinamento del carbonio, peggio ancora se specie esotiche. Al contrario, il ripristino di ecosistemi danneggiati, la riduzione delle minacce alla biodiversità (deforestazione, diminuzione delle pressioni su stock ittici, riduzione emissioni, ripristino di ecosistemi danneggiati etc…) sono misure vincenti anche per il contrasto al cambiamento climatico. Gli scienziati di IPBES e IPCC stressano però sull’importanza di una visione di ampio respiro e di lunga durata: la tutela della funzionalità degli ecosistemi deve essere efficace e durevole perché si possano davvero misurare effetti positivi nell’adattamento al cambiamento climatico. Inoltre, nella programmazione delle azioni di conservazione e di adattamento va tenuto conto che, per quanto le soluzioni basate sulla natura siano importanti, non possono adempiere da sole al contrasto ai cambiamenti climatici e quindi essere considerate alternative a misure quali la riduzione delle emissioni di gas serra.

2. Limiti del PNACC sul tema natura e biodiversità

Nella parte introduttiva del PNACC si parla genericamente di importanza di “migliorare la capacità di adattamento dei sistemi socioeconomici e naturali”, mentre la strategia europea di adattamento2 fa più volte riferimento alla necessità di integrazione dei piani per la biodiversità nel contrasto alla crisi climatica. Vengono però citati nel PNACC, come atti UE di rilievo in tema di adattamento al cambiamento climatico, le Direttive Habitat e Uccelli, nonché la Strategia sulla biodiversità 2030. È piuttosto accurata la rassegna degli effetti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità su scala italiana, in particolare per quanto riguarda il Mar Mediterraneo, dove le sempre più frequenti ondate di calore possono provocare morie di massa: questo si è già verificato, per esempio per le gorgonie, ed è oggetto di un progetto di ricerca internazionale che cataloga questi fenomeni nel mare nostrum. A questo si somma l’aumento di salinità, la cementificazione delle coste e l’arrivo di specie aliene tropicali, che beneficiano delle acque più calde.

Meno approfondita è la descrizione degli impatti sulle specie legate alle acque interne e alle zone umide, ambienti particolarmente a rischio a causa di una cattiva gestione storica che include: il drenaggio e riconversione per l'agricoltura, l’urbanizzazione, le variazioni nel regime idrologico dei corsi d’acqua e inquinamento. Tra le minacce trasversali ai diversi ambienti c’è quella posta dalle specie esotiche invasive che, essendo molto adattabili, potrebbero trarre un ulteriore vantaggio dai cambiamenti climatici in atto e aumentare a discapito delle specie autoctone.

Un capitolo dedicato alla biodiversità terrestre riassume gli effetti del rialzo delle temperature su fisiologia, produttività, abbondanza e distribuzione della flora e fauna italiana, molti dei quali sono già visibili. A questo proposito, grandi assenti, nel paragrafo dedicato agli ambienti alto montani, sono gli impatti degli effetti del riscaldamento globale sulle specie caratteristiche degli ambienti d’alta quota, mentre viene menzionato il problema della “modifica delle attività alpinistiche”, che in realtà, in alcuni casi, possono peggiorare la situazione per le già minacciate specie alpine, provocando un disturbo che va ulteriormente a incidere sulla loro occupazione dello spazio, già alterata dalle crescenti temperature.

In generale, nel PNACC manca una disamina delle attività antropiche che comportano una perdita di biodiversità nel nostro Paese e vanno a sommarsi ai cambiamenti climatici, fatta eccezione per l’ambiente marino, dove viene esplicitato il problema del sovrasfruttamento degli stock ittici mediterranei, con un tasso di prelievo pari al doppio del massimo sostenibile per il 70% delle specie. Per esempio non è esplicitato l’effetto dell’agricoltura intensiva e di una insufficiente diversificazione paesaggistica delle aree agricole, problema particolarmente pronunciato nelle aree di pianura in Italia, e causa della progressiva scomparsa di specie legate agli habitat rurali. Ne è un esempio l’andamento costantemente negativo del Farmland bird index3 che dimostra come, in Pianura Padana, ci sia stato un dimezzamento della numerosità di molte specie di uccelli negli ultimi vent’anni. Pratiche agricole intensive sono una forte minaccia anche per gli impollinatori4, il che è un serio problema non solo ambientale, ma anche di produttività delle colture stesse. Anche l’impoverimento della biodiversità del suolo ha forti ripercussioni sulla fertilità dei terreni, e aumenta la vulnerabilità a eventi climatici estremi e siccità.

3. Le soluzioni

Sono un’ottantina le soluzioni indicate nel database del PNACC connesse alla biodiversità (circa il 22% delle azioni previste), sia in modo diretto che indiretto. Tutte hanno una valutazione di importanza alta o medio-alta in termini generali, e sono giustamente considerate soluzioni “no regret” cioè con effetti benefici in diversi scenari di cambiamento climatico, e “win-win" perché i vantaggi della loro applicazione si estendono oltre la riduzione degli impatti climatici. La maggior parte delle azioni proposte si interseca con l’attuazione della direttiva Habitat e con la Strategia Nazionale per la Biodiversità5, non a caso tra le misure integrative del PNACC è previsto un raccordo con questa strategia, nonché con il Comitato per il Capitale Naturale.

Tra le misure indirizzate agli ambienti agricoli, sono incluse la promozione di una diversificazione colturale, il mantenimento di aree di interesse ecologico e la promozione del pascolo arborato. Sono una quindicina le misure dedicate alla biodiversità degli ecosistemi terrestri: tra queste, il potenziamento della connettività ecologica e una proposta di ristrutturazione delle aree protette, per riadattarle agli spostamenti delle specie causati dal clima. L’aumento della percentuale di aree sottoposte a tutela e il miglioramento della connettività ecologica coincidono con il primo target della Strategia Nazionale per la Biodiversità, che punta al potenziamento di una rete coerente di aree protette e all’istituzione di una governance che ne garantisca la tutela e un adeguato finanziamento per le misure di conservazione.

Per le aree marine e costiere, oltre al monitoraggio degli impatti dei cambiamenti climatici sulla biodiversità, sono previsti il ripristino degli ambienti più degradati, la rinaturalizzazione delle aree costiere, la decontaminazione delle acque inquinate, il rafforzamento delle aree protette e la ricolonizzazione assistita dei coralli, attraverso il posizionamento di strutture che agiscano da substrato per la colonizzazione da parte di questi organismi. Molto importanti sono le misure che puntano a una maggiore sostenibilità del prelievo ittico, considerata la situazione attuale di sovrasfruttamento dovuto alla pesca nel Mediterraneo. Sono inoltre previste misure per il restauro e il mantenimento delle zone umide, sia interne che nelle fasce costiere, nonché il ripristino della vegetazione di piante acquatiche alla foce dei corsi d'acqua dolce.

La maggior parte delle misure per la biodiversità è rivolta al potenziamento delle conoscenze (monitoraggio, creazione di database per l’individuazione delle azioni da prioritizzare) e alla sensibilizzazione e formazione; i dati ottenuti dal monitoraggio servono anche come guida per la valutazione dello stato di avanzamento ed efficacia delle azioni. Ulteriori misure per favorire la biodiversità sono integrative, e includono il contrasto alla perdita di suolo, una governance per le aree montane, il ripristino ecologico e rewilding di aree urbane e agricole abbandonate.

4. Conclusione

La biodiversità favorisce il funzionamento degli ecosistemi, e le misure del PNACC vanno nella direzione di tutela della naturale resilienza. La sinergia con la strategia nazionale per la biodiversità sarà di particolare importanza, anche alla luce della sovrapposizione di molte misure proposte. Resta un po’ vaga in generale la ripartizione dei fondi, e ci si auspica che la biodiversità e la tutela della natura non siano per l’ennesima volta le cenerentole dei finanziamenti, un annoso problema in Italia, dove spesso le stesse aree protette non hanno fondi adeguati per le attività di protezione della natura che è la loro mission.

Molte delle misure del PNACC inoltre sono le stesse previste dalla proposta di legge europea per il ripristino ambientale, la Nature Restoration Law6 che sta avendo un iter molto sofferto: presentata a giugno 2022, ha ricevuto oltre duemila emendamenti. A febbraio 2024 c’è stata l’approvazione dell’Europarlamento, anche se di una versione della legge fortemente indebolita rispetto alla proposta iniziale. Il 25 marzo 2024 si attendeva la ratifica da parte del Consiglio europeo, che è slittato a data da destinarsi, e proprio l’Italia è tra i Paesi che si sono opposti al passaggio della legge, insieme a altri Paesi come Polonia, Austria e Ungheria.

Garantire il ripristino degli ecosistemi degradati, rinaturalizzare aree antropizzate e assicurare la tutela di habitat e specie prioritarie è di fondamentale importanza per conferire al nostro territorio, estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici, la resilienza necessaria per l’adattamento. L’UE stima che ogni euro investito in questa direzione frutta dai 4 ai 40 euro in benefici, ma si tratta di un traguardo lungo, non di un qualcosa che garantisce un riscontro immediato, e questo troppo spesso fa sì che si continui a procrastinare questo investimento. L’UE ha già leggi virtuose per la biodiversità, e una delle più ampie reti ecologiche esistenti, Natura 2000, eppure l’81% degli habitat sono degradati, e si fatica a far passare una legge che può cambiare per davvero le cose. È davvero tempo di un cambiamento in positivo, che garantisca un futuro di adattamento e mitigazione delle crisi esistenti.

Note

1. Lo Scientific outcome of the IPBES-IPCC co-sponsored workshop on biodiversity and climate change https://zenodo.org/records/5101125 è stato pubblicato in seguito al primo workshop congiunto di IPBES e IPCC, tenutosi nel dicembre 2020
2. EU Climate adaptation strategy https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM:2021:82:FIN
3. Il Farmland Bird Index (Fbi), è un indicatore utilizzato per valutare lo stato della biodiversità negli habitat agricoli europei, ed è basato sul numero di specie nidificanti negli ambienti agricoli degli Stati Membri https://www.reterurale.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/25657
4. Circa l'80% delle colture e delle piante a fioritura spontanea dipende dall'impollinazione animale, ma gli impollinatori sono in declino soprattutto a causa della perdita di habitat, della mancanza di habitat adatti al letargo e alla nidificazione e della mancanza di cibo per i bruchi e le larve, dovuta all'agricoltura intensiva, all'uso di pesticidi e all'elevato apporto di fertilizzanti. Su questo si legga la EU pollination initiative https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/PDF/?uri=CELEX:52023DC0035 che mira proprio a contrastare questo trend negativo con obiettivi mirati fino al 2030
5. La strategia Nazionale per la biodiversità 2030 https://www.mase.gov.it/sites/default/files/archivio/allegati/biodiversita/2_snb_2030_marzo_23.pdf è stata adottata il 3 agosto 2023 con il Decreto Ministeriale n. 252
6. Elemento cardine del Green deal europeo, la Nature Restoration Law https://environment.ec.europa.eu/topics/nature-and-biodiversity/nature-restoration-law_en prevede, tra le varie misure: l’aumento delle superfici soggette a tutela, il ripristino degli ecosistemi danneggiati, in particolare delle zone umide, la rimozione delle barriere obsolete per migliorare la connettività fluviale, una maggiore diversificazione degli ambienti agricoli, una gestione forestale sostenibile, il ripristino degli stock ittici e l’aumento del verde urbano.

 

Adattamento climatico e risorse idriche nel PNACC

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A. Introduzione al PNACC

Il PNACC, approvato all’esito di un procedimento durato circa 6 anni, dovrebbe rappresentare il primo strumento attuativo di carattere generale, con cui l’Italia affronta i cambiamenti climatici in una prospettiva non più solo di mitigazione, ma di adattamento. È quindi il primo atto di attuazione della SNAC (Strategia Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici), adottata dall’Italia nel 2015, un documento di indirizzo che ha fatto il punto sullo stato delle conoscenze scientifiche sugli impatti e sulla vulnerabilità ai cambiamenti climatici e ha illustrato un insieme di proposte e misure per fronteggiarne le conseguenze. Alla realizzazione di questi obiettivi il PNACC intende contribuire agendo su due diversi livelli.

Nell’ambito del primo livello di intervento (definito “sistemico”) il PNACC prevede l’istituzione di un’apposita struttura permanente di “governance nazionale” (“Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici”). A questo organismo sono affidati compiti di indirizzo e coordinamento, diretti sia a mettere a sistema e orientare l’attività di pianificazione in materia di adattamento ai cambiamenti climatici, sia a individuare e dettagliare su scala regionale e locale le azioni per dare attuazione agli obiettivi del PNACC. Questa parte del Piano è quindi finalizzata unicamente alla definizione del quadro (strutturale e funzionale) della nuova governance nazionale. Questa è però anche l’unica parte del Piano dotata di efficacia prescrittiva: solo in relazione all’istituzione, alla composizione e all’operatività dell’“Osservatorio” il PNACC indica modalità di attuazione, tempi di realizzazione e soggetti coinvolti1.

Il secondo livello di intervento del PNACC ha invece una funzione dichiaratamente di “indirizzo” per la futura attività di pianificazione in materia di adattamento su scala nazionale, regionale e locale. In questa parte il Piano fornisce delle Linee Guida per una fase successiva, non definita nella tempistica, nella quale saranno soprattutto le Regioni e gli enti locali a dover agire concretamente, sviluppando piani con cui dar attuazione agli obiettivi del PNACC.

Più specificamente, con il secondo livello di intervento il PNACC fornisce indirizzi per la pianificazione a scala regionale e locale (Allegati I e II) e propone 361 misure di adattamento (Allegato IV) destinate a essere successivamente applicate e integrate nei diversi strumenti di pianificazione (nazionale, regionale e locale), secondo le indicazioni e le modalità che saranno individuate dalla struttura di governance nazionale e poi ulteriormente dettagliate dalle Regioni e dagli enti locali.

Da uno sguardo d’insieme, il PNACC si presenta quindi come un documento ricognitivo e di sintesi sui temi dell’adattamento ai cambiamenti climatici: si configura come un articolato e ampio quadro conoscitivo che può servire alle istituzioni per pianificare, con allegato un compendio di buone pratiche e una raccolta ragionata di azioni possibili da intraprendere per concorrere all’adattamento. Il PNACC però non è uno strumento operativo e non ha quindi effetti diretti sul patrimonio naturale, ambientale, sociale ed economico del Paese.

B. Le risorse idriche nel PNACC

1. Dalla SNAC al PNACC nel settore delle risorse idriche

Nel PNACC è incluso un quadro illustrativo sugli impatti dei cambiamenti climatici nei settori ambientali e socio-economici più vulnerabili. Per ciascuno dei settori indagati il PNACC si prefigge di fornire un aggiornamento sullo stato delle conoscenze scientifiche relative agli effetti dei cambiamenti climatici e sulla normativa e sugli strumenti di pianificazione esistenti che potrebbero governare quegli impatti (Allegato III), individuando poi le possibili azioni di adattamento, elencate nell’Allegato IV del Piano.

Seguendo l’impostazione adottata nella SNAC, nel PNACC le risorse idriche sono indicate come uno dei settori più sensibili ai cambiamenti climatici. Il settore è di particolare rilevanza per l’Italia in quanto il territorio nazionale è da sempre caratterizzato da una scarsità di risorse idriche (non tanto in termini di disponibilità complessiva su base annua, quanto piuttosto in termini di disomogenea disponibilità nel tempo e nello spazio della risorsa) e da criticità gestionali. Già nella SNAC si dà atto che l’Italia, dovendo da sempre affrontare difficoltà connesse alla disponibilità di acqua, possiede una cultura diffusa sul tema e nel tempo si è anche dotata di una serie di strumenti che potrebbero renderla relativamente pronta ad affrontare anche i maggiori impatti dovuti ai cambiamenti climatici.

La SNAC individua comunque alcuni fattori chiave su cui agire per migliorare la capacità di adattamento anche nel settore idrico. Precisamente, la SNAC evidenzia: le carenze infrastrutturali e gestionali croniche del sistema di distribuzione, ritenute la causa di un utilizzo non efficiente della risorsa idrica; la necessità di adottare nuovi paradigmi di gestione delle conoscenze acquisite sul ciclo idrogeologico, che permettano di prendere in considerazione una serie di possibili scenari climatici e socioeconomici futuri2; l’introduzione e/o il potenziamento e miglioramento di un insieme di misure, da applicare diversificandole in base alle specifiche condizioni territoriali locali.

In questa prospettiva, la SNAC propone anche una serie di misure di adattamento ai cambiamenti climatici riferite al settore delle risorse idriche, suddivise in cinque categorie: azioni di tipo non strutturale o “soft”, azioni basate su un approccio eco-sistemico (“azioni verdi”), azioni di tipo infrastrutturale e tecnico (“azioni grigie”), azioni a breve e a lungo termine (le azioni a breve termine da realizzare entro il 2020 e le azioni a lungo termine da realizzare dopo il 2020) e le azioni di tipo trasversale tra settori.

Il PNACC, come atto di pianificazione attuativa della SNAC, dovrebbe declinare i dati forniti dalla SNAC per compiere un passo avanti nel mettere in pratica gli indirizzi delineati per i vari settori vulnerabili, compreso quello idrico.

2. Le azioni di adattamento

L’Allegato IV del PNACC elenca per ciascun settore le misure di adattamento. Per il settore delle risorse idriche, le azioni proposte sono 283, di cui 24 sono definite “soft”, 1 “green” e 3 “grey”. Tutte le azioni elencate riproducono quelle già indicate nella SNAC; più precisamente ne costituiscono un’estrapolazione, in quanto la SNAC prevede un numero largamente superiore di misure per ogni categoria (soft, verde e grigia).

Nel selezionare le misure di adattamento proposte dalla SNAC, il PNACC privilegia in modo netto le azioni di tipo non infrastrutturale (“soft”), le quali hanno un ridotto impatto sulle componenti ambientali e sono anche meno onerose e più agili da attuare. Resta però da comprendere se questa scelta sia anche la più coerente con la SNAC, nella quale le carenze infrastrutturali e gestionali del sistema idrico sono valutate come una delle situazioni sulle quali intervenire con priorità mediante azioni “a breve termine”4. Azioni indicate nella SNAC che però il PNACC ha selezionato solo parzialmente.

Deve poi osservarsi che il PNACC non introduce elementi di maggior concretezza rispetto alla SNAC, ad eccezione dell’aggiunta di brevi note esplicative a latere di ogni misura su contenuti, obiettivi generali e ambiti geografici interessati.

Le azioni di adattamento continuano quindi a essere enunciate senza una descrizione puntuale, senza essere definite in termini dimensionali e senza dare conto del processo che ha portato alla loro individuazione. Le misure sono inoltre elencate senza un ordine di priorità, non sono definite scadenze o periodi temporali per la loro applicazione, né obiettivi da raggiungere nel medio o lungo periodo5. Sotto questo profilo, il PNACC si presenta quindi ancor più astratto della SNAC, nella quale invece è stabilito quali siano le azioni da realizzare con precedenza (“a breve termine”) rispetto alle altre in elenco6.

Il PNACC inoltre non prevede risorse specifiche per il finanziamento delle misure di adattamento, rinviando a questo fine all’elenco delle fonti di finanziamento europee, nazionali e regionali che potrebbero essere utilizzate, senza però connettere le singole azioni ai fondi utilizzabili per darvi attuazione.

L’impostazione seguita nel PNACC per determinare le azioni di adattamento è stata messa in discussione da più parti nell’ambito del procedimento di VAS, ove diversi dei soggetti istituzionali coinvolti hanno giudicato insufficienti le misure proposte, soprattutto in considerazione dell’urgenza che i cambiamenti climatici in atto impongono7. Per questo la Commissione Tecnica per la VAS, nel proprio parere finale8 ha previsto una serie di integrazioni da apportare alle azioni individuate dal PNAAC. In particolare, per il settore delle risorse idriche, la Commissione ha richiesto l’introduzione nel Piano di interventi più specifici e mirati9, nonché una prima localizzazione precisa delle azioni grey e green giudicate più urgenti, con anche l’indicazione delle risorse attivabili tra le fonti di finanziamento destinate all’emergenza climatica già disponibili. La stessa Commissione però, nello stesso parere, prende atto della natura prettamente ricognitiva e di indirizzo del PNACC e, in questa prospettiva, rinvia ogni integrazione alla fase di concretizzazione della strategia di adattamento, promossa e guidata dalla struttura di Governance nazionale.

3. La funzione “sistemica” del PNACC nel settore delle risorse idriche

In Italia le risorse idriche sono una delle matrici ambientali più studiate e compiutamente disciplinate. Come emerge anche dall’Allegato IV del PNACC, il T.U. in materia ambientale (D.Lgs. n. 152/2006) prevede già meccanismi e strumenti attraverso i quali mettere in pratica le azioni indicate nel PNACC, nonché gli Enti e le Autorità competenti ai vari livelli.

Nel Rapporto Ambientale sul PNACC10 sono anche individuati in modo completo e aggiornato gli atti di pianificazione nazionali, interregionali e regionali in materia di acque che già devono tenere conto degli effetti dei cambiamenti climatici; con riferimento alle azioni grey e green si danno anche delle indicazioni sugli strumenti per attuare le azioni proposte dal PNACC.

Vi è quindi da chiedersi se il PNACC non abbia perso l’occasione per mettere direttamente “a frutto” questo corposo e aggiornato quadro ricognitivo: definendo “modalità, strumenti e soggetti competenti per l’introduzione di principi, misure e azioni di adattamento ai cambiamenti climatici” e “modalità e strumenti settoriali e intersettoriali di attuazione delle misure ai diversi livelli di governo”11, invece che demandarne il compito all’istituenda struttura di Governance nazionale.

Note

1. Cfr. in particolare il Cap. 6 del PNAAC.
2. Sotto questo profilo, la SNAC evidenzia anche che la scienza dei cambiamenti climatici riferita alle risorse idriche ha prodotto risultati con un grado d’incertezza elevato, che deriva da un’oggettiva limitatezza delle conoscenze e in particolare dalla capacità dei modelli idrologici di simulare gli aspetti di maggiore interesse per le risorse idriche: variabilità climatica (in particolare delle precipitazioni) ed eventi estremi (siccità e alluvioni).
3. Per completezza, va detto che l’Allegato IV indica 13 azioni aggiuntive, comuni a tutti i settori, compreso quello delle risorse idriche.
4. Riciclo e riuso dell’acqua, interventi strutturali per l’efficientamento e l’ammodernamento delle reti per la riduzione delle perdite e adeguamento tecnologico.
5. Il database comprende invece degli indicatori da cui si apprende che 20 delle misure proposte sono state classificate come azioni di valore “alto”, 7 di valore “medio-alto” e 1 di valore “medio”.
6. Da notare anche che le azioni indicate nel PNAAC appartengono sia alla categoria delle azioni “a breve termine”, sia alla categoria delle azioni “a lungo termine” della SNAC: nel PNAAC tutte le azioni selezionate sono poste sullo stesso livello, con conseguente annullamento del criterio di priorità proposto nella SNAC.
7. Cfr., in particolare, la sintesi contenuta nel parere n. 13 del 3 maggio 2021 della Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale – VIA e VAS Sottocommissione VAS.
8. Parere n. 472 del 12/6/2023 della Commissione Tecnica di Verifica dell’Impatto Ambientale – VIA e VAS, recepito nel DM 4 agosto 2023, recante il parere motivato di VAS del PNAAC.
9. Ad esempio, le azioni a sostegno, in ambito agricolo, di tecnologie innovative, strategie e pratiche di gestione ottimale delle risorse idriche che favoriscano il risparmio idrico; le azioni che, in ambiente urbano, consentano di migliorare il deflusso delle acque meteoriche verso la base delle alberature cittadine, nei parchi e nei giardini o creino aree o bacini di ritenzione delle acque meteoriche urbane.
10. Rapporto Ambientale e il relativo documento integrativo del luglio 2023, redatti all’interno del procedimento di VAS sul PNAAC. 11. Cfr. pag 103 del PNAAC (azioni di sistema n. 2 e 3).

 

Cambiamento climatico e rischio geo-idrologico: reinventare la ruota senza mai agire

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1. Introduzione

Quanti milioni di euro sono stati impiegati in Italia negli ultimi due decenni in attività di ricerca e di sviluppo tecnologico per cercare di limitare il “dissesto idrogeologico”, anche alla luce dei cambiamenti climatici? La somma totale ad essere sincero non la conosco, ma è sicuramente molto, molto elevata, in quanto deriva da centinaia di progetti finanziati dall’Unione Europea, dallo Stato, dalle Regioni e da altri Enti (per esempio Autorità di Bacino/di Distretto idrografico, Consorzi di Bonifica). Il mondo accademico e gli enti territoriali hanno potuto quindi redigere innumerevoli “studi”, “piani” e “linee guida”, ed implementare numerosi “progetti pilota” tesi alla mitigazione del rischio idraulico e geologico, più spesso chiamato – molto infelicemente come spiegherò successivamente – “dissesto idrogeologico”. Negli ultimi anni questi progetti hanno riguardato esclusivamente o per lo meno includevano anche i diversi scenari di cambiamento climatico attesi. E quali azioni (dette anche “misure”) prevede il PNACC per il settore “Dissesto geologico, idrologico ed idraulico”? Scorrendo il database disponibile online delle azioni, troviamo come queste siano quasi unicamente rappresentate da attività del tutto simili a quelle già realizzato grazie ai progetti già conclusi o ancora in corso1: “sviluppo di modelli”, “condivisione di informazioni”, “messa a punto di linee guida”, “messa a punto di diagrammi di flusso”, “miglioramento del monitoraggio”, “miglioramento e recupero di misure strutturali”, e “miglioramento del supporto tecnico”.

Ovvero il PNACC “dimentica” che vi sono una montagna di lavori – pubblicati su riviste scientifiche o protocollati dai vari enti territoriali – che già forniscono gli strumenti (linee guida, sistemi di supporto alle decisioni, diagrammi di flusso, modelli di gestione, ecc…) per monitorare, modellare, progettare e gestire al meglio i pericoli di natura idraulica (alluvioni) e geologica (frane). Si tratta dell’impegno profuso da moltissime università e centri di ricerca italiani in sinergia con i tecnici delle Agenzie nazionali (in primis ISPRA e Protezione Civile) e regionali (ARPA, direzioni per la Difesa del Suolo), che ha portato nella maggior parte dei casi a “prodotti” di grandissimo valore, sia scientifico che applicativo. Inoltre, gli effetti dei cambiamenti climatici vengono descritti nel documento principale del PNACC in maniera del tutto sbrigativa ed ambigua, in quanto si parla quasi sempre in modo generico di “variazioni” attese invece di sottolineare come l’aumento di pericolosità idraulica e geologica sia ritenuto altamente probabile dalla comunità scientifica, soprattutto nel caso di bacini idrografici di dimensioni medio-piccole, oltre che nel caso delle alluvioni costiere.

Per mitigare gli effetti avversi dei cambiamenti climatici su frane ed alluvioni in Italia, è la cosa più urgente redigere nuove linee guida, sviluppare nuovi modelli e nuove sperimentazioni gestionali, in sintesi “studiare” ancora la situazione? La mia valutazione, da persona totalmente dedita ed appassionata allo “studio” (tramite la ricerca scientifica) di tali problemi da ormai 25 anni, è NO! Certo, migliorare ed affinare modelli e conoscenze non fa mai male, anzi va benissimo, ma non sono queste a mio avviso le soluzioni che ora servirebbero per ridurre i danni e le vittime dei processi idraulici e geologici. Per chiarirne le ragioni devo tornare innanzitutto su un problema terminologico che si porta dietro un errore concettuale.

2. Il problema sta già nei termini: non dissesto, ma rischio

Perché dissesto idrogeologico è una locuzione infelice? Per due motivi: il primo, il meno importante, è che l’idrogeologia è la scienza che studia il movimento dell’acqua nel sottosuolo, e quindi almeno un trattino tra idro e geologico (quindi “idro-geologico”) sarebbe opportuno per significare invece i problemi di natura idrologico-idraulica e geologica. Meglio ancora per evitare confusioni sarebbe parlare di processi “geo-idrologici”. Ma la ragione che ritengo fondamentale per cui dovremmo abbandonare il termine “dissesto idrogeologico” è che il primo suggerisce che le frane e le alluvioni avvengano perché qualcosa si sia “rotto” o non sia adeguatamente “controllato” sui versanti montani e lungo i torrenti ed i fiumi. Al contrario, frane ed alluvioni sono processi del tutto naturali – purtroppo certamente attese ora con maggior frequenza a causa del riscaldamento globale di natura antropica – nella stragrande maggioranza dei casi, e determinano vittime e danni alla nostra società solo dove noi abbiamo occupato aree che con una certa frequenza vengono inondate o investite da colate, crolli e scivolamenti. Il termine corretto da utilizzare non è quindi “dissesto” bensì “rischio”!

Il concetto di “rischio” esprime infatti i danni economici e le vittime derivanti dal verificarsi di un evento naturale avente una certa “pericolosità”, la quale dipende da quanto l’evento è intenso e frequente in una specifica area, per esempio quanto profonda e veloce è la corrente idrica lungo una strada in caso di alluvione per un dato “tempo di ritorno” (tipicamente si usano i valori di 30, 100 e 200 anni). Perché ci sia rischio, un evento deve avvenire su un’area caratterizzata da una certa “esposizione”, quantificabile come numero e valore economico degli edifici e dal numero di persone presenti. Questi elementi esposti presentano una certa “vulnerabilità”, che deriva da come sono fatti gli edifici, e da come le persone reagiscono e si comportano durante un evento di piena o di frana. Il rischio è matematicamente definito dal prodotto tra pericolosità, esposizione e vulnerabilità. Se vogliamo ridurre (ovvero mitigare) i danni e le vittime dovuti al verificarsi di eventi di natura geo-idrologica, possiamo agire su pericolosità, esposizione e vulnerabilità, puntando a “minimizzare la funzione rischio” tenendo in considerazione i vincoli di natura ambientale, socio-economica e tecnica.

3. Ridurre la pericolosità o l’esposizione e la vulnerabilità?

Dobbiamo puntare sulla riduzione della pericolosità? Lo abbiamo fatto da secoli tramite interventi strutturali, ovvero argini, briglie, e più recentemente tramite casse di espansione. È la strada migliore da percorrere? Quasi sempre no, o almeno non da sola. Esiste infatti sempre un pericolo residuo che eccede le nostre difese e tale pericolo residuo crescerà sempre di più a causa del cambiamento climatico per la maggior parte dei bacini italiani, soprattutto in quelli di piccole dimensioni dove la maggior frequenza e magnitudo di eventi meteorici di natura convettiva (ovvero le precipitazioni breve ed intense) determinata dal riscaldamento globale sta generando e genererà sempre più incrementi delle portate idriche di piena. Sembra paradossale, ma quanto fatto da decenni in termini di interventi strutturali di riduzione del pericolo ha determinato quasi ovunque un aumento del rischio idraulico. Questo perché abbiamo considerato “sicuri” i terreni difesi dalle arginature o dalle briglie permettendo di costruirci insediamenti produttivi e residenziali, che hanno enormemente aumentato la nostra esposizione al pericolo residuo, e senza nessuna attenzione a garantirne una bassa vulnerabilità in caso di esondazione.

E quindi che fare? La comunità tecnico-scientifica a livello internazionale ha ormai compreso che gli interventi di riduzione dell’esposizione e della vulnerabilità sono prioritari, e in molti casi da affiancare a interventi ambientalmente vantaggiosi di riduzione della pericolosità (ad esempio casse di espansione solo su aree agricole e allargamento degli spazi da lasciare alla dinamica fluviale).

4. Ridurre l’esposizione: limiti del Piano

Al fine di ridurre l’esposizione, le seguenti azioni sono ritenute fondamentali: pianificazione territoriale fondata in modo stringente sulle mappe del pericolo idraulico e geologico, impedendo del tutto nuove costruzioni in aree a forte pericolosità e obbligando invece di adottare accorgimenti costruttivi per costruire o ristrutturare in aree a media pericolosità; delocalizzazione degli edifici già esistenti posti nelle aree a pericolosità più elevata, a fronte di compensazione adeguate per i privati interessati; rimozione di ponti e tombinature non sufficientemente dimensionati, che quindi creano ostruzioni durante le alluvioni; sistemi di allerta. Cosa prevede il PNACC per la riduzione dell’esposizione? Molto correttamente spinge all’utilizzo più diffuso dei sistemi di monitoraggio e di allerta, e questo è sicuramente positivo, ora che la tecnologia consente di implementare in modo economico ed efficiente tali sistemi. Tuttavia in molti casi – quando i brevi tempi di allertamento sono troppo brevi come nel caso di piene improvvise, frane e colate, oppure quando l’intensità dei processi è troppo elevata per essere contenuta tramite interventi strutturali – la delocalizzazione degli edifici a rischio rappresenta l’unica soluzione sostenibile.

Il PNACC prevede e sostiene tali interventi? Per nulla, e questo è veramente il suo vulnus principale a mio avviso. Certamente le delocalizzazioni possono essere “scomode” a livello di consenso elettorale ma sono di gran lunga le soluzioni più efficaci nel lungo periodo, e dopo un alluvione – come nel caso dell’evento del 2023 in Romagna – sono gli stessi abitanti delle case più devastate a chiedere di andare a vivere in posti meno pericolosi.

5. Ridurre la vulnerabilità: limiti del Piano

In merito alla riduzione della vulnerabilità, questa si può efficacemente ottenere tramite prescrizioni urbanistiche sull’uso delle singole abitazioni, implementando accorgimenti architettonici da realizzarsi sugli edifici per ridurre i danni alluvionali (le cosiddette “case anti-piena”), perseguendo una maggiore educazione della popolazione a convivere con i rischi naturali da attuarsi con incontri pubblici, gruppi social ed esercitazioni periodiche frequenti. Non ultimi, i piani assicurativi obbligatori contro i fenomeni idro-geologici con premi calmierati dallo Stato, e funzione del livello di pericolosità della zona e degli interventi architettonici di riduzione della vulnerabilità realizzati. Cosa contiene il PNACC di tutto questo, che rappresenta da anni ormai la base per la riduzione del rischio in molti Paese europei? Solamente attività di educazione della popolazione, certamente molto utili in un orizzonte soprattutto medio-lungo, ma non sufficienti in un territorio a rischio come quello italiano dove è necessario intervenire con rapidità, iniziando seriamente a predisporre sistemi assicurativi virtuosi e a incentivare interventi architettonici “anti-piena”, come si fa da anni per il rischio sismico.

5. Conclusioni

In definitiva, il PNACC appare decisamente troppo vago e deludente in merito agli obiettivi di riduzione dei rischi geo-idrologici nella prospettiva del cambiamento climatico, seppure alcune azioni siano corrette, in primis quelle relative ai sistemi di allerta e all’educazione della popolazione. Oltre a questi, gli interventi da realizzare rapidamente per ridurre vittime e danni sono ben conosciuti ormai in modo capillare nel territorio italiano: delocalizzazioni degli edifici nelle aree più pericolose, realizzazione di aree di laminazione diffusa e di mobilità degli alvei primariamente in aree agricole, piani assicurativi misti pubblico-privati, prescrizioni e interventi urbanistici “anti-piena” a scala di quartiere e di singolo edificio. Purtroppo, tali interventi sono spesso avversati da amministratori locali e portatori di interesse in quanto non generano consenso immediato tra la popolazione o non “rendono” economicamente – per chi li progetta e realizza – quanto gli interventi strutturali classici, e pertanto si continua a far finta di essere ancora nello scorso millennio, quando si sapeva poco e bisognava ancora “studiare” prima di agire.

Ora invece è tempo di agire, lasciando più spazio per “l’assorbimento” dei processi naturali in crescente intensificazione.

Note

1. Si pensi alle decine di iniziative del PNRR con ricadute su questo tema.

 

L’applicazione al clima dei principi sull’ambiente e la tutela dei diritti umani

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1. Considerazioni introduttive

Sullo sfondo della progressiva emersione dell’obiettivo di adattamento ai cambiamenti climatici sul piano internazionale e sul piano eurounitario, culminata rispettivamente nell’Accordo di Parigi1 e nel Regolamento (UE) 2021/11192, nonché nelle Strategie europee di adattamento3, e sullo sfondo del quadro conoscitivo definito a livello nazionale dalla Strategia nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici4, è stato (finalmente) approvato il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici con decreto del Ministro dell’ambiente e della sicurezza energetica del 21 dicembre 2023, n. 434.

Con l’approvazione del Piano è stata così avviata una seconda fase finalizzata ad assicurare l’immediata pianificazione e l’attuazione delle azioni di adattamento nei diversi settori attraverso la definizione di priorità, ruoli, responsabilità e fonti/strumenti di finanziamento dell’adattamento, nonché la rimozione degli ostacoli all’adattamento, sia riconducibili al mancato accesso a soluzioni praticabili, sia agli ostacoli di carattere normativo/regolamentare/procedurale. Siffatta fase, i cui risultati convergeranno nei piani settoriali o intersettoriali, sarà gestita da un’apposita struttura di governance, ovverosia dall’Osservatorio nazionale per l’adattamento ai cambiamenti climatici, la cui istituzione era prevista entro tre mesi dal decreto ministeriale di approvazione del PNACC, secondo il prospetto temporale definito nel Piano.

La prima parte del Piano è riservata alla ricostruzione del quadro giuridico di riferimento, con l’indicazione dei principali atti adottati a livello internazionale, europeo e nazionale che vertono nello specifico sull’adattamento ai cambiamenti climatici e dei principi in materia ambientale e per fini di salvaguardia dei diritti umani che troverebbero applicazione anche con riferimento al tema dei cambiamenti climatici. Con il presente contributo si propone pertanto di specificare in quali termini i principi in materia ambientale rilevino in materia di adattamento ai cambiamenti climatici, nonché di meglio precisare l’intersezione tra i diritti umani e il cambiamento climatico.

2. L’adattamento ai cambiamenti climatici e i principi in materia ambientale

L’esigenza di precisare in quali termini debba intendersi il rilievo dei principi espressamente richiamati nel documento di Piano5 rispetto all’obiettivo di adattamento ai cambiamenti climatici deriva non solo dal fatto che tale aspetto appare tutt’altro che messo a fuoco, ma anche perché dal documento medesimo risulta che i principi espressamente richiamati interessino più in generale il tema del cambiamento climatico e non specificatamente l’obiettivo in questione.

Chiarito ciò, tra i diversi principi richiamati dovrebbe assumere rilevanza il principio di prevenzione. Anzi, nella misura in cui si individua l’essenza del principio nell’anticipazione delle diverse azioni di tutela al fine di scongiurare perdite irreversibili, si dovrebbe ritenere che l’obiettivo di adattamento ai cambiamenti climatici discenda (anche) da questo principio. Aderendo alla definizione offerta dall’IPCC6, così come condivisa nel Piano7, se per taluni versi l’adattamento può apparire un processo attivato esclusivamente in sede postuma, come adeguamento al constatato mutamento delle condizioni attuali del sistema climatico, per altri versi la finalità ultima del processo medesimo rimane quella di moderare, preventivamente appunto, i danni da ciò derivanti, ovvero di sfruttarne le opportunità benefiche. Peraltro, seguendo le medesime coordinate definitorie, l’adattamento andrebbe altresì inteso come un processo di adeguamento al clima, non solo attuale, ma anche previsto e ai relativi effetti, quale declinazione che mette ulteriormente in luce la natura preventiva di tale processo. Il corollario di una simile lettura dell’adattamento conduce a constatare come quest’ultimo costituisca un processo che si confronta con una dimensione di incertezza, a più riprese richiamata nei documenti che compongono il Piano, riferibile sia alla portata del mutamento delle condizioni fisiche del sistema climatico, essendo comunque variabilmente condizionata dall’efficacia delle politiche di mitigazione8, sia in ordine agli impatti stimati del mutamento medesimo9. Alla luce di queste considerazioni pertanto tra i diversi principi in materia ambientale rilevanti nell’ambito dei processi di adattamento c’è altresì il principio di precauzione, riferibile, come noto, alle ipotesi che vertono sulle probabilità di un rischio individuato nel quadro di un’incertezza scientifica, come per taluni versi potrebbe declinarsi la stima degli impatti del cambiamento climatico.

Tra gli altri principi richiamati che rilevano rispetto all’adattamento ai cambiamenti climatici va inoltre annoverato il principio dello sviluppo sostenibile, il cui fondamento si rinviene nelle stesse disposizioni dell’Accordo di Parigi, in conformità alle quali l’obiettivo dell’adattamento apparirebbe legato allo sviluppo sostenibile secondo un nesso di strumentalità10. In questo senso, quindi, a partire dalla constatata incidenza del mutamento del sistema climatico sulle condizioni favorevoli per un percorso che miri alla composizione delle istanze sottese alla tutela dell’ambiente, alla crescita economica e al benessere sociale, nelle relative diverse sfumature, l’adattamento dovrebbe essere configurato come un obiettivo strumentale a quest’ultimo valore-obiettivo. A ben osservare, si potrebbe peraltro aggiungere che il legame tra adattamento ai cambiamenti climatici e sviluppo sostenibile possa intendersi come una forma di limite del secondo rispetto al primo. Invero, coerentemente con la tradizionale lettura del principio, dallo stesso deriverebbero doveri delle generazioni attuali nei confronti delle generazioni future, che, nel caso di specie, si imporrebbero come limite alla predisposizione da parte delle prime di soluzioni di adattamento ad un clima attuale (o previsto) basate su un impiego (eccessivo) di risorse che contragga le possibilità delle seconde, ovvero che differiscano nel tempo la vulnerabilità ai cambiamenti climatici (c.d. maladaptation)11.

Indirizzando lo sguardo nei confronti dei principi di più recente gestazione, assume rilevanza il principio del DNSH, nella misura in cui tra gli obiettivi ambientali di cui all’art. 9 del Regolamento (UE) 2020/852 cui esso si riferisce è espressamente annoverato l’adattamento ai cambiamenti climatici. Sul punto, come noto, il Regolamento Delegato della Commissione 2021/2139 ha precisato i criteri di vaglio tecnico che consentono di determinare a quali condizioni si possa considerare che un’attività economica non arrechi un danno significativo all’obiettivo in questione e contribuisca in modo sostanziale al medesimo. Ebbene, ciò che potrebbe in via di mera ipotesi ritenersi è che il quadro di indirizzo così come risultante dal Piano potrebbe costituire un solido punto di riferimento ad integrazione dei richiamati criteri di vaglio tecnico, utile per comprendere se un’attività/misura si ponga nella direzione di contribuire nel territorio nazionale all’obiettivo in questione, anche considerando che le specifiche redatte a livello nazionale hanno precisato i termini del contributo sostanziale di una misura al solo obiettivo della mitigazione dei cambiamenti climatici, e non anche dell’adattamento12.

3. L’intersezione tra i diritti umani e il cambiamento climatico

Come anticipato, il PNACC affronta parimenti il tema della tutela dei diritti umani (e nella fattispecie, il diritto alla vita, il diritto alla salute, il diritto all’acqua e ad un’alimentazione adeguata, il diritto alla casa) nell’ottica dell’adattamento al cambiamento climatico. In particolare, l’Allegato I al Piano specifica che risultano rilevanti le norme del diritto internazionale convenzionale attraverso cui la comunità internazionale ha affrontato la questione le cause e gli impatti dei cambiamenti climatici (p. 11).

Poiché gli impatti riguardano i singoli territori con effetti molto differenti l’uno dall’altro, da un lato, il Piano dispone l’intervento dei livelli più alti di governo (azioni di indirizzo, coordinamento, supporto e risorse); dall’altro, in ossequio al principio di sussidiarietà, al fine di intercettare le esigenze delle comunità territoriali, il Piano dispone che le azioni vengano concretamente realizzate su scala regionale e locale (p. 12). Con riguardo, in particolare, ai diritti umani, il Piano ribadisce la sussistenza di obblighi di protezione e promozione a carico degli Stati e dei loro organi, sanciti dal diritto internazionale consuetudinario e convenzionale, oltreché dalle Carte costituzionali. A tal proposito, è notoria la giurisprudenza interna e internazionale che verte sulla violazione da parte dello Stato e dei suoi organi delle norme sui diritti umani contenute negli ordinamenti interni e nelle fonti internazionali causata dall’inerzia (o dall’insufficiente impegno) nel contrastare la crisi climatica in corso.

Le numerose controversie climatiche intersecano il tema dell’adattamento ai cambiamenti climatici, che assume rilievo primario allorché gli eventi climalteranti potrebbero essere scongiurati o attenuati tramite adeguate misure di adattamento.

In sintesi, il PNACC si presenta come un manifesto di impegno al rispetto della disciplina nazionale e internazionale nella gestione del territorio minacciato dall’emergenza climatica; è questo il suo merito rispetto ai precedenti atti di pianificazione riguardanti il clima, non altrettanto espliciti nel coniugare sistematicamente cambiamento climatico e tutela del territorio nazionale in nome della vita e della salute umana in proiezione intragenerazionale e intergenerazionale. Ma ne costituisce anche il limite: difatti, il PNACC resta uno strumento di prevenzione secondaria rispetto alla prevenzione primaria dei danni da cambiamento climatico, garantita esclusivamente dalla mitigazione climatica.

Ne deriva che l’adattamento climatico è perseguito in assenza di un meccanismo conoscibile e verificabile di quantificazione delle cause da cui dipende l’efficacia stessa di quell’adattamento. Non a caso, il Parere n. 13/2021 della Commissione VIA-VAS aveva già evidenziato questa lacuna, non in linea con le previsioni normative sulla sequenza mitigazione-adattamento.

In questo modo, il PNACC rischia di tradursi nell’ennesimo documento simbolico di lotta insufficiente al degrado del territorio; prevedere i danni senza prevenirli significa esporre Stato ed enti territoriali a responsabilità future, oltre che accentuare responsabilità già presenti, dato che lo Stato italiano è soggetto di contenziosi climatici in cui si deduce, tra l’altro, proprio l’assenza di linee guida di quantificazione della mitigazione climatica necessaria a non ledere i diritti umani, tutelati dagli artt. 2 e 8 CEDU.

In conclusione, la prima occasione di applicare l’art. 9 Cost. appare – neanche troppo latamente – sprecata.

Il presente contributo è il frutto di una collaborazione tra i due autori. Il paragrafo n. 2 è stato redatto da Riccardo Stupazzini, mentre il paragrafo n. 3 da Fabio Cusano. Il paragrafo n. 1 è il frutto di una riflessione comune.

Note

1. Cfr. art. 7 dell'Accordo di Parigi. 2.
2. Cfr. art. 5 del Regolamento (UE) 2021/1119.
3. Cfr. COM(2013) 216 final e COM(2021) 82 final.
4. Decreto Direttoriale del 16 giugno 2015, n. 86, emanato dal Direttore Generale della ex DG Clima ed Energia del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare.
5. Nello specifico, all’interno del documento di Piano, sono espressamente richiamati i principi: di salvaguardia dell’ambiente, di prevenzione, di precauzione, del “chi inquina paga”, delle responsabilità comuni ma differenziate e rispettive capacità, di equità intergenerazionale e intragenerazionale, dello sviluppo sostenibile, di non regressione, d’integrazione, di sviluppo resiliente al clima, di conoscenza scientifica e integrità nel processo decisionale, di solidarietà, del divieto di arrecare un danno significativo all’ambiente (DNSH).
6. IPCC, Annex II: Glossary, in IPCC 2022: Climate Change 2022: Impacts, Adaptation, and Vulnerability. Contribution of Working Group II to the Sixth Assessment Report of the Intergovernmental Panel on Climate Change, 2022.
7. Cfr. l'introduzione dell'Allegato I del Piano (Metodologie per la definizione di strategie e piani regionali di adattamento ai cambiamenti climatici).
8. Su questo si cfr. il capitolo n. 2 del documento di Piano nel quale vengono definiti i lineamenti del quadro climatico nazionale, che si compone non solo dell'analisi del clima sul periodo di riferimento 1981-2010, ma anche delle variazioni climatiche attese sul trentennio centrato sull’anno 2050 (2036-2065) rispetto allo stesso, considerando i tre scenari IPCC: RCP8.5 “ad elevate emissioni”, RCP4.5 “scenario intermedio”, RCP2.6 “mitigazione aggressiva”. Per ciascuno di essi, quindi, l'analisi degli indicatori climatici considerati è stata corredata da una valutazione delle variazioni medie attese in futuro, riportando le informazioni relative all'incertezza.
9. Su tale punto si cfr. invece l'Allegato III del Piano, che riporta il quadro delle conoscenze sugli impatti dei cambiamenti climatici in Italia. La dimensione dell'incertezza circa la stima degli impatti della variazione del regime climatico è esplicitamente richiamata, tra l'altro, con riferimento alla proiezione delle precipitazioni, alla quantificazione dell’impatto del cambiamento in atto sul ciclo idrologico, nonché alla stima della variazione di occorrenza e magnitudo dei fenomeni di dissesto.
10. Art. 7, par. 1, dell'Accordo i Parigi.
11. Si tratta di un aspetto che non è stato trascurato all'interno del Piano. Invero, le azioni di adattamento settoriali sono state valutate rispetto a cinque criteri e, sulla base di tale valutazione, è stato associato a ciascuna di esse un giudizio di valore. Tra di essi, è stato incluso il criterio dei c.d. effetti di secondo ordine, finalizzato a valutare gli effetti, positivi e negativi, che deriverebbero dall'attuazione delle azioni di adattamento che tuttavia non costituirebbero il fine principale ed esplicito. Ebbene, come risulta dalle precisazioni di cui al paragrafo n. 4.2.4 del documento di Piano, le ipotesi di effetti di secondo ordine negativi consisterebbero propriamente nella fattispecie della c.d. maladaptation.
12. Cfr. la Guida operativa per il rispetto del principio di non arrecare danno significativo all'ambiente (cd. DNSH) elaborata dal Dipartimento della Ragioneria dello Stato del MEF.