L’omeopatia è un esempio eloquente dell’innata tendenza degli uomini a illudere sé stessi. Si tratta di una cura che contrasta con ogni principio scientifico consolidato e la cui utilità non è stata ancora chiaramente dimostrata. Al meglio è probabilmente solo uno spreco di risorse. Nonostante ciò la popolarità di questa pratica sembra intatta se non in aumento. In Europa farmacie continuano a vendere prodotti scarsamente credibili quali l’Oscillococcinum accanto a “vere” medicine, molti medici praticano l’omeopatia a tempo pieno o parziale, facoltà mediche tengono corsi master e assegnano diplomi in omeopatia, organizzazioni di pazienti che si curano con l’omeopatia reagiscono irate ad ogni critica obbiettiva rivolta a questa pratica. Perché?
Dire che l’omeopatia non ha alcuna possibilità di funzionare perché manca di qualsiasi fondamento scientifico non ha avuto finora alcun effetto. Stranamente, un argomento ovvio come quello che una molecola non può avere alcun effetto biologico dopo che è stata rimossa dal medicamento ha mancato di dissuadere pazienti e operatori sanitari. Illustrare l’improbabile chimica delle diluizioni omeopatiche, la gratuità della “legge degli infinitesimi” e del principio secondo cui “similia similibus curantur” si è mostrato ugualmente inefficace. Come dice il matematico americano Norman Levitt, “siamo passati dal concetto di uguaglianza tra gli individui a quello di uguaglianza tra le idee e le credenze. Oggi è politicamente scorretto chiamare qualcosa una idea stupida”.
I sostenitori dell’omeopatia hanno risposto alle accuse di infondatezza con una compagine di spiegazioni dubbie se pur ingegnose. Essi ammettono - e come potrebbero fare altrimenti? - che i fondamenti dell’omeopatia non sono strettamente provati, ma sostengono che la pratica non è implausibile alla luce dei moderni sviluppi della scienza, quale la meccanica quantistica.
Ecco alcuni aspetti di questo tipo di argomentazioni. Secondo Richard Feynman, nessuno capisce appieno la fisica quantistica. Essa tuttavia “funziona”, e, secondo i sostenitori dell’omeopatia, questo mostra che ignorare il meccanismo di un’azione fisica (quale l’ipotetico trasferimento di proprietà dal soluto al solvente) non è una ragione sufficiente per negarne l’esistenza. Il principio di indeterminazione di Heisenberg è spesso citato come esempio che il mondo è imprevedibile e che quindi in natura niente può essere escluso a priori. Concetti quantistici non intuitivi come l’”entanglement” e il “collasso della funzione d’onda” sono spesso tirati in ballo per spiegare i risultati negativi degli studi clinici. L’ipotesi è che in omeopatia paziente, medico e farmaco sono uniti (“entangled”) in uno stato funzionale con un reciproco scambio di informazioni simile a quello formato da coppie di elettroni, fotoni e altre particelle subatomiche. E come nella meccanica quantistica indagare sulle caratteristiche (posizione, spin e altro) di queste particelle provoca il collasso della loro funzione d’onda interrompendo il flusso di informazioni, così il procedimento usato negli studi clinici randomizzati annullerebbe l’unità paziente-medico-farmaco cancellando l’effetto curativo. C’è in rete un divertente saggio sul tema intitolato “Verso una Interpretazione Quantistica dell’Omeopatia”. L’articolo, pieno di fantasiose espressioni e formule matematiche, termina con la raccomandazione all’omeopata di astenersi, dopo aver prescritto la cura, da ogni controllo (meglio se il medico si trasferisce in un’altra città) per evitare di produrre il collasso della funzione d’onda del paziente e rendere la cura inefficace.
Il valore di questi argomenti è per lo meno incerto dato che metafore e analogie di per sé non provano niente. Eventi come l’ “entanglement” e il collasso della funzione d’onda riguardano entità subatomiche e non possono applicarsi ai pazienti che non sono esattamente oggetti quantistici. Per di più la meccanica quantistica è un ramo della fisica che ha uno straordinario successo pratico confortato da esperimenti e innumerevoli applicazioni tecnologiche mentre l’omeopatia non si è mossa dallo stato di ipotesi clinica. Quindi nessun parallelo apporopriato può essere proposto tra questi due soggetti.
Indicare il fatto che l’utilità dell’omeopatia resta da essere ancora provata non ha avuto miglior effetto. Una causa dell’insuccesso è che il rumore di fondo presente nella letteratura medica permette a chi passa in rassegna la bibliografia su un argomento di selezionare, se vuole, studi che si accordano con le proprie preconcette opinioni. Va detto che questa tattica è adesso meno applicabile grazie ai progressi della metodologia clinica. Esiste oggi un ampio consenso sui minimi criteri da seguire per condurre studi clinici validi (presenza di controlli credibili, campionatura adeguata, randomizzazione corretta, “blinding”, basse percentuali di “patient drop out” eccetera) che permettono una valutazione obbiettiva della qualità e validità di ogni studio clinico. Questo significa che i sostenitori dell’omeopatia sono oggi meno credibili quando oppongono a uno studio di documentata alta qualità che riporta un risultato negativo il risultato positivo di un altro studio avente qualità inferiore.
Nella letteratura medica esiste spesso un rapporto inverso tra la qualità degli studi clinici e l’efficacia attribuita alla cura (1). In altre parole, accade meno di frequente che uno studio ben fatto dia risultati genuinamente positivi di quanto avvenga per studi di qualità inferiore. La tendenza diventa regola quasi costante per quel che riguarda l’omeopatia - e, incidentalmente, le altre medicine alternative. Questa circostanza è una prova convincente dell’inefficacia dell’omeopatia poiché nelle scienze sperimentali quando una teoria è corretta, se miglioriamo la qualità delle osservazioni gli effetti previsti dalla teoria si manifestano più chiaramente, non meno.
Questa relazione inversa è ben illustrata dai seguenti esempi. Secondo una rassegna di studi clinici pubblicata nel 1997, autori Linde et al (2), il miglioramento di regola osservato dopo una cura omeopatica non è interamente spiegabile con l’effetto placebo. Tuttavia questi studiosi non trovarono prove convincenti che “nessun singolo tipo di cura omeopatica [fosse] chiaramente efficace in alcuna condizione clinica”. Il che, in senso ampio, è come dire che una medicina fa bene a tutti eccetto a uomini, donne e bambini. A parte questa rettifica la metanalisi di Linde et al suscitò dubbi perché includeva lavori di qualità inferiore che avrebbero potuto rafforzare il giudizio complessivo favorevole all’omeopatia. Anni dopo Linde e al (3) analizzarono di nuovo i dati e osservarono che gli studi più rigorosi erano quelli meno positivi concludendo che la metanalisi precedente per lo meno sovrastimava l’effetto della trattamento omeopatico. Incidentalmente questo illustra bene quanto il giudizio complessivo delle metanalisi sia sensibile agli standard individuali degli studi considerati.
Forse la prova più convincente del rapporto inverso qualità degli lavori clinici/risultato positivo si trova in una metanalisi fatta da un gruppo di studiosi di metodologia medica guidati da Matthias Egger (4). Il lavoro, pieno di tecnicismi statistici, non è di facile lettura e può prestarsi a false interpretazioni. Tuttavia secondo ogni apparenza esso possiede ogni requisito di credibilità scientifca e il suo messaggio non lascia adito a dubbi: giudicando sulla base dei soli studi che veramente contano (quelli condotti su un materiale clinico ampio, e metodologicamente impeccabili) è giustificato concludere che il beneficio osservato sui pazienti durante una cura omoepatica è riconducibile a un effetto placebo. A una simile conclusione possiamo arrivare da noi dopo aver esaminato qualsiasi segmento della letteratura omeopatica disponibile. Esattamente come ammettevano Linde et al (2), non esistono prove convincenti che l’omeopatia sia efficace in alcun tipo di malattia.
Negli ultimi due decenni la statistica inferenziale comunemente usata negli studi clinici (statistica frequentistica) è stata messa in dubbio. Esperti di statistica (5) hanno sottolineato che il P value, una componente basilare di questo approccio, è una misura insoddisfacente del significato dei dati ottenuti. Una lacuna del P value consiste nel fatto che esso è calcolato senza prendere in considerazione la plausibilità dell’ipotesi in esame. Questa limitazione può non avere conseguenze rilevanti sugli studi clinici riguardante la medicina comunemente intesa nella quale sono di regola esaminate teorie plausibili. Tuttavia il P value esagera notevolmente la significatività statistica dei risultati quando l’ipotesi considerata è debole - che è il caso della maggior parte degli studi di medicina alternativa. Quindi un P value che altrimenti sarebbe considerato “significativo” può corrispondere in un trial omeopatico a una probabilità non trascurabile che il risultato ottenuto è solo un prodotto del caso. Se usiamo un altro tipo di statistica inferenziale (la statistica bayesiana) si può osservare che, in condizioni ampiamente generali (6), un P value=0,01 in un trial ove la probabilità a priori che l’ipotesi in questione sia giudicata solo del 10% corrisponde a una probabilità a posteriori che il risultato è frutto del solo caso di 0,37. In questa luce quasi tutti i risultati “significativi” dei trial clinici omeopatici (e quelli di altre scientificamente implausibili medicine alternative come l’agopuntura) diventano dubbi. Attualmente una seconda misura della significatività, l’intervallo di confidenza (IC), è spesso riportato assieme al P value. L’IC è un utile complemento inferenziale poiché, a differenza del P value, ci informa sull’ampiezza dell’effetto osservato. Tuttavia anche esso appartiene alla statistica frequentistica ed è in principio soggetto allo stesso tipo di distorsioni che interessano il P value.
Il dibattito sull’omeopatia non mostra alcun segno di finire né di indebolirsi. Questa situazione persiste anche perché molti sostenitori dell’omeopatia sembrano concepire la ricerca come un mezzo per confermare le loro credenze piuttosto che un metodo per accertare come veramente stanno le cose. Essi accettano senza discutere ogni risultato positivo ma affermano che “ulteriori ricerche sono necessarie” tutte le volte che sono posti di fronte a risultati negativi. Ma il fatto che “absence of evidence is not evidence of absence” non giustifica il proseguimento senza fine di ricerche le quali non possono essere che sterili. Come sosteneva il poeta Lucrezio “ex nihilo fit nihil”.
Argomenti in favore di migliori standard scientifici in medicina possono non influenzare tutti allo stesso modo. Tuttavia è sperabile che essi siano presi in considerazione da organismi indipendenti e specialmente da quelle amministrazoni pubbliche e Università che sembrano nutrire simpatia per l’omeopatia - e per altre medicine alternative. Il gradimento dei pazienti e la scarsità di effetti collaterali non sono ragioni sufficienti per rendere una cura rimborsabile dal servizio sanitario nazionale o regionale. E alcune facoltà mediche dovrebbero capire che non possono ragionevolmente impartire in corsi post laurea nozioni che nell’insegnamento precedente sarebbero considerate assurde e ragioni sufficienti per bocciare uno studente del secondo anno di medicina.
[1] Knipschild P. The false positive therapeutic trial. J Clin Epidemiol 2002; 55: 1191-1195.
[2] Linde K, Clausius N, Ramirez D et al: Are the clinical effects of homeopathy placebo-effects? A meta-analysis of placebo-controlled clinical trials. Lancet 1997; 350: 834-843.
[3] Linde K, Scholz M, Ramirez G et al. Impact of study quality on outcome in placebo-controlled trials of homeopathy. J Clin Epidemiol 1999; 52: 361-366.
[4] Shang A, Huwiler-Müntener K, Nartey L et al. Are the clinical effects of homeopathy placebo effects? Comparative study of placebo-controlled trials of homeopathy and allopathy. Lancet 2005; 366: 726-732.
[5] Hubbard R, Lindsay M: Why P values are not a useful measure of evidence in statistical significance testing. Theory & Psychology 2008; 18:69-88.
[6] Matthews R: Significance levels for the assessment of anomalous phenomena. Journal of Scientific Exploration 1999; 13:1-7.
Questo articolo è stato pubblicato in versione originale sull'European Journal of Internal Medicine ed è disponibile all'indirizzo: http://www.ejinme.com/article/S0953-6205%2810%2900046-4/pdf