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Open Science in open society

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Vi sono molte evidenze, e il lettore di Scienzainrete ne ha di certo consapevolezza, che quando l’attuale crisi finirà ci sveglieremo nella knowledge-society ( 1, 2). La figlia della crisi non sarà solo la più grande e veloce ridefinizione dell’assetto geografico e sociale della ricchezza del mondo che la storia ricordi, ma, per merito e demerito della finanza degli ultimi trent’anni, sarà anche il primo vagito di una nuova forma sociale che segnerà la quarta rivoluzione nella storia dell’umanità (dopo la coscienza, l’agricoltura e l’industria). La knowledge-society, infatti, è una nuova forma di società che non si limita più a produrre solo la conoscenza di cui ha bisogno per soddisfare le esigenze che si manifestano nel sopravvivere quotidiano, ma in modo crescente la conoscenza per vivere una vita che ha fra i suoi fini proprio la conoscenza. E se si pensa che sia un paradosso che un bene come la conoscenza (un bene comune, seppur particolare – necessita infatti di governance adeguate per esserlo realmente) faccia girare l’intera società, muovendo investimenti crescenti di denaro privato e pubblico, nonché di tempo di lavoro e di vita per milioni di persone, ciò significa che si ha ancora un’idea di conoscenza molto astratta e un’idea di benessere pratico troppo ristretta.
Ludwig Boltzmann, il fondatore della termodinamica statistica, scriveva che non c’è niente di più pratico di una buona teoria. Persino di una teoria scientifica, dunque. Ma la conoscenza, comunque, non è solo “teoria”. La nostra tradizione umanistica, sin dagli albori della modernità con Federico II e Dante, d’altra parte, ha individuato nella conoscenza, nelle sue varie forme fra le quali rientrano tutte le forme simboliche che denominiamo cultura, non solo un mezzo per realizzare qualche fine benefico, ma anche un fine in sé, un bene sommo essa stessa. Uno di quelli che contraddistinguono il nostro essere umani e rendono la nostra vita più di una sopravvivenza. Per conoscenza non dobbiamo intendere esclusivamente, infatti, leggi e teoremi, ma tutte le competenze e saperi pratici, le sensibilità, gli stili di pensare e vivere che caratterizzano la ricchezza delle nostre comunità, e quello sterminato patrimonio che definiamo usualmente “beni culturali”, ovvero conoscenza oggettivata. La scienza, in questo contesto, altro non è che la funzione sociale preposta alla produzione di conoscenza (affidabile, controllabile, resistente, pubblica, aperta ecc.). Non c’è, dunque, da stupirsi che sia diventato di attualità il tema della open science. Cosa si intende infatti con questo termine? Open science è concetto molto ampio, tuttora in via di definizione in relazione anche al rapido evolversi dei media attraverso i quali la conoscenza si costituisce e si diffonde. Possiamo individuarne due grandi dimensioni.

i due ingressi all'open science

La prima “apertura” cui ci si riferisce concerne i peer, ovvero tutti gli esperti del campo, i quali hanno, per ciò stesso, titolo a prenderne visione, sia per valutarne la qualità e sancirne la pubblicazione sulle riviste specializzate, sia per poterne comunque disporre onde replicare gli esperimenti e sviluppare nuove ricerche. Il meccanismo di accettazione più diffuso sulle riviste scientifiche, la peer review, ha però sollevato da tempo dubbi sulla sua funzionalità valutativa (soprattutto nella forma dubbia e comunque opaca del doppio cieco con la quale si vorrebbe assicurare la “oggettività”). E tutte le tecniche quantitative (tipicamente bibliometriche) della qualità scientifica vengono sopravvalutate nella loro presunta “oggettività”, non essendo fondate altro che su peer review indirette (pubblicazioni accettate, citazioni e nomination ricevute, grant assegnati ecc.), pur essendo tuttora sottutilizzate per studiare la scienza nel suo farsi. Se dovessimo introdurre ex-novo un sistema di valutazione, a detta di chi la fa da tempo nelle più prestigiose riviste, e che quindi ne ha viste di tutti i colori, sarebbe difficile far approvare le procedure che normalmente si seguono e che, non a caso, quasi tutti i governi si guardano bene dal prendere troppo sul serio per costruire classifiche della qualità dei ricercatori e delle loro università (che, notoriamente, hanno tre missioni distinte che andrebbero valutate: oltre alla produzione di nuova conoscenza, l’alta formazione e la diffusione della conoscenza nei canali informali della comunicazione materiale e immateriale). Siamo di fronte, come azzarda qualcuno, a una poor review. Meglio, comunque, un metodo che sbaglia piuttosto che niente? Niente affatto, se il rischio di un metodo di valutazione viziato alla fonte è di promuovere ricerca opportunistica (parrochialism, puzzle solving, shortermism, sexism etc.) a scapito delle poche produzioni scientifiche alle quali davvero vanno riconosciute le accelerazioni del corso della storia della scienza (breakthrough), di certo più onerose, rischiose e rare per i loro autori. Una valutazione è necessaria, ma occorre farla con profondità di analisi. L’apertura dei dati, open data, diventa una garanzia, la principale si direbbe, di controllo pubblico sul processo di valutazione, vasto e teoricamente robusto sulla qualità della ricerca che viene continuamente proposta come benzina nella macchina della knowledge-society. Ma proprio chiunque, e non solo qualcuno in qualche modo dotato di credito (o di budget), può/deve avere accesso ai luoghi nei quali tale conoscenza viene pubblicata. E in effetti open access alla conoscenza è un requisito di buona scienza, e ancor più di buona società della conoscenza.

La seconda “apertura” concerne, infatti, tutti i cittadini. Non solo i ricercatori, studenti (nel senso ampio del lifelong learning ormai divenuto realtà, seppur senza politiche pubbliche adeguate) e stake holders in una società nella cui agenda pubblica i temi tecnoscientifici sono oggetto di deliberazione pubblica sempre più frequente e hanno impatto sulla vita quotidiana di chiunque. Ma proprio tutti i cittadini della knowledge-society, sulla base di nuovi diritti di cittadinanza (knowledge citizenship). Ecco che, allora, i temi della open science convergono con quelli della democrazia nella nuova forma sociale. E a chi sostenesse che, data la presenza oggettiva di ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di questa partecipazione se ne debba abbandonare il perseguimento politico, si deve rispondere, seguendo Piero Calamandrei, che almeno noi italiani siamo obbligati dalla nostra Costituzione (art.3) ad essere riformatori. Infatti, È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Nelle mutate dinamiche della knowledge-society, tutti, insomma, hanno diritto di accedere alle conoscenze più avanzate che vengono proposte, e sempre più spesso, in effetti, tale diritto viene reclamato: sia per poterne disporre a piacimento (per fini pratici conformi alle leggi e per fini intrinseci conformi al valore in sé della conoscenza), sia per poter fornire il proprio contributo creativo (motivazione e creatività del ricercatore, da un lato, e originalità e qualità della ricerca, dall’altro, sono intimamente legati e sempre più spesso i cittadini destinatari di una data comunicazione scientifica sono esperti in altri campi della conoscenza, ovvero dei knowledge-able citizens). D’altronde vi sarebbero anche altri benefici: per esempio, il profluvio di pubblicazioni scientifiche potrebbe, paradossalmente, diminuire al diminuire dell’attuale enfasi parossistica sul publish-or-perish e al ristabilirsi del carattere pubblico del processo di formazione della reputation del ricercatore.

Data sharing, serve una strategia


Ma siamo pronti, come ricercatori e come politici, come docenti e cittadini, come lavoratori e imprenditori a raccogliere le sfide che questa veloce transizione ci lancia? In fondo, nessuno di noi è cresciuto in un mondo diverso da quello che ben conosciamo, né è stato formato a uno studio sistematico di questi problemi in parte ancora da definirsi. La stessa area problemica “Scienza e società” non ha ancora lo statuto di una disciplina e si fatica a riconoscere chi sono davvero gli esperti. L’eccessiva enfasi che troppo spesso viene posta sul breve termine (sempre più breve) mette, inoltre, a repentaglio il valore della conoscenza proprio nel momento in cui la conoscenza, grazie alla sua praticità, ha contribuito in maniera inaudita all’allungamento delle nostre vite in un lungo termine che pone problemi antropologici nuovi (valga su tutti il tema della sostenibilità ambientale, economica, sociale, culturale). Il ritmo vorticoso dei tempi non si batte aumentando la propria velocità, ma alzando lo sguardo, allargando il proprio orizzonte. Non siamo stati educati nel nostro passato, insomma, a gestire i tempi e le stesse categorie concettuali dello scenario che siamo chiamati a immaginare per prendere le decisioni più importanti per il nostro attuale futuro. Di questo ancora soffre persino la ricerca scientifica in campo sociale. E questa è la cifra della problematicità del momento attuale. Di un “cambio di rotta” nella produzione della conoscenza e di come realizzarlo concretamente bisogna parlare con la modestia del ricercatore e l’ambizione del riformatore, senza angustie specialistiche ma con il contributo di ogni specialità, perché non v’è disciplina che risponda all’esigenza di expertise né accademia che ne esaurisca la portata sociale.

Non solo, dunque, ricerca interdisciplinare, ma anche ricerca (sociologicamente) riflessiva sulle stesse modalità e articolazioni disciplinari dell’attuale lavoro cognitivo al fine di superare steccati, idiosincrasie e dualismi epistemologici che pure hanno consentito il grandioso sviluppo della scienza moderna. Quale spazio si potrà ancora riconoscere alla contrapposizione fra le “due culture”? Come potersi accontentare di vetuste dicotomie fra riduzionismo e olismo, natura e cultura, individualismo e comunitarismo, logica e storia, teoria e pratica, idiografico e nomologico, cultura e civilizzazione ecc.? E di fronte a tutto questo, dove trovare nuove risorse per la nostra immaginazione sociologica onde ripensare gli inestricabili rapporti fra scienza e società? E, infine, quale via disegnare per la governance di una democratic science-based society, oltre la contrapposizione moderna fra merito (di pochi) e democrazia (di tutti)? Ben venga l’iniziativa dell’Istituto Italiano di Antropologia (chi altro, d’altronde, per meglio segnalare la transizione davvero antropologica di questo crinale d’epoca?) che ha organizzato un convegno internazionale dal titolo “Scientific data sharing: an interdisciplinary workshop” (Anagni, 2-4 settembre). Sarà un’occasione di confronto fra ricercatori, comunicatori e cittadini, come ancora troppo poche nel nostro Paese, su un tema ormai di rilevanza pubblica. Si tratta, infatti, di aprire urgentemente la scienza alla società non meno che di aprire la società alla scienza.

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