La riforma Gelmini è ormai entrata nella fase attuativa e l'imminente obiettivo del rinnovo degli statuti universitari è stato percepito da molti come una potenziale occasione di trasformazione degli atenei, e da altri come uno stimolo di riflessione sulla portata della riforma. La riforma è stata oggetto di considerazioni, confronti e incontri promossi dal Gruppo 2003 con la partecipazione di docenti, ricercatori ed economisti da tempo vicini alle iniziative della nostra Associazione. Ci siamo proposti di valutare insieme, con onestà intellettuale e approccio costruttivo, se realmente esistano leve di cambiamento positivo all'interno della riforma soprattutto in funzione di una maggior autonomia degli atenei, basata su una sana valutazione delle performance e sulla responsabilità sui risultati.
L’Osservatorio Università del Gruppo 2003 ha posto 10 domande ai sette membri dell'ANVUR, l’Agenzia nazionale per la valutazione dell’università e della ricerca che sta per iniziare la sua attività operativa e la sua attività di programmazione. Pensiamo che l’ANVUR abbia un compito fondamentale nel portare il merito al centro del nostro sistema dell’alta educazione e della ricerca. E che per fare questo debba essere un’Agenzia terza, affidabile e trasparente. Le nostre domande sono tese a capire come intenderà operare l’ANVUR per guadagnarsi sul campo queste qualità. Finora non abbiamo avuto un solo riscontro alle nostre domande. Capiamo che siamo ai primi passi di un lungo lavoro. E che anche la semplice analisi di molte questioni debba essere ancora affinata. Ma se l’ANVUR non batte un colpo, se non dimostra subito di esistere e di accettare il dialogo con la comunità scientifica e accademica, forse non inizia bene.
Perché il cambiamento possa almeno in parte esserci, il Gruppo 2003 ha individuato i seguenti punti:
Ma in questo contesto, la vera chiave di volta per un durevole cambiamento di rotta è da tutti identificata nel ruolo dell'ANVUR e nella capacità - tutta da verificare - di questa nuova struttura di valutare seriamente, con affidabilità e trasparenza, con obiettivi chiari e mezzi adeguati la ricerca universitaria e le performance degli atenei secondo i migliori standard internazionali. E’ stato per questo creato un Osservatorio Università del Gruppo 2003: un luogo virtuale di monitoraggio, dialogo e "ascolto”, nei confronti dei segnali di novità e delle potenzialità di cambiamento virtuoso, che la nuova Agenzia potrebbe assicurare al paese.
L'Osservatorio ha formulato una serie di quesiti (vedi sotto) rivolti ai sette membri dell'Agenzia incaricati della valutazione della ricerca, proprio nel momento in cui iniziano le attività di programmazione e si avviano i primi passi operativi sotto la guida di Stefano Fantoni.
Se i quesiti avranno risposta avremo conseguito due importanti obiettivi: anzitutto quello della trasparenza; in secondo luogo, quello (forse più importante) della creazione di un collegamento fra la società civile e i colleghi dell'università e del mondo della ricerca da una parte e i gestori della nuova realtà dell’ANVUR dall'altra, dalla quale tutti si aspettano significativi passi in avanti nel senso della meritocrazia e della valutazione.
Le domande ai sette membri dell'ANVUR sono le seguenti:
1a.
L’ANVUR ha risorse finanziarie sufficienti per svolgere in modo
adeguato il mandato istituzionale di valutazione sistematica della
ricerca?
1b.
Ha risorse finanziarie sufficienti per remunerare una rete di docenti
stranieri di elevata reputazione scientifica per le attività di peer
review?
1c.
Ha risorse finanziarie sufficienti per fare sviluppare una’adeguata
piattaforma elettronica che faciliti il suo lavoro?
2. L'ANVUR conta di fare minimo lavoro sui benchmark internazionali per impostare le scelte strategiche per il suo funzionamento? Ad esempio, ha analizzato in modo approfondito l’esperienza del RAE inglese?
3a.
L’ANVUR dispone di una tecnostruttura adeguata in termini di
personale qualificato nella valutazione?
3b.
Dispone di una segreteria tecnica in grado di svolgere il lavoro
tecnico e amministrativo di supporto?
3c.
Se no o in misura insufficiente, esistono un piano di reclutamento e
condizioni minime per attuarlo?
4a.
I membri designati dell’ANVUR sono nelle condizioni per potere
svolgere adeguatamente il mandato assegnato?
4b.
Hanno una retribuzione sufficientemente adeguata?
4c.
Sono liberi da altri impegni istituzionali e professionali che
potrebbero rallentare o interferire con il loro operato nell’Agenzia?
5. Data l’eterogeneità delle discipline scientifiche in termini di grado di internazionalizzazione e sistemi di condivisi di misurazione della performance dell’attività di ricerca, esiste un piano che coniughi l’esigenza di procedere in tutte le aree scientifiche rispettandone le specificità alla necessità di valorizzare gli approcci più consolidati e strutturati in alcune aree (per esempio in termini di indici bibliometrici)?
6a.
L’ANVUR si è data un piano di lavoro con obiettivi, tempi, mezzi e
indicatori di verifica del suo lavoro?
6b.
E’ prevista la predisposizione di un rapporto annuale delle
attività svolte?
6c.
E’ previsto un sistema di valutazione del suo operato?
6d.
E’ dotata o si vuole dotare di un organo scientifico di
supporto/valutazione?
7a.
Sul tema della trasparenza delle procedure e dei risultati delle
valutazioni, come intende operare? E’ prevista la predisposizioni
di guidance che orientino il suo operato e che permettano di
conoscere come intende operare?
7b.
E' previsto un canale di comunicazione con la comunità (come
newsletter periodica o altro)?
8a.
Dalle decisioni dell' ANVUR dovrà dipendere l'erogazione dei fondi
ai dipartimenti e ai singoli ricercatori. I membri dell' ANVUR hanno
ricevuto informazioni dal Ministro riguardo ai criteri della
successiva erogazione dei fondi?
8b.
Pensano che la loro attività di valutazione debba essere influenzata
da come il Ministero intenderà erogare i fondi dopo?
9a.
Il buon funzionamento di un sistema di incentivazione richiede che i
soggetti da incentivare:
a)
vengano preventivamente informati su quali saranno i parametri della
valutazione;
b)
conoscano le conseguenze di valutazioni positive o negative;
c)
abbiano il tempo di adeguarsi e attrezzarsi per produrre risultati. I
membri dell'ANVUR concordano sulla importanza di questi requisiti?
9b.
In caso di risposta affermativa quando pensano di poter fornire
informazioni sui punti (a) e (b)?
10. L'oggetto delle valutazioni dell'ANVUR saranno gli Atenei, i singoli dipartimenti o i settori disciplinari all'interno degli Atenei? Cosa pensano i membri dell'ANVUR della possibilità di eliminare i settori disciplinari e concentrarsi solo e direttamente sui dipartimenti, quali che siano i ricercatori che li compongono?
Giuliano Buzzetti (a nome dell'Osservatorio Università “Oltre la Gelmini” del Gruppo 2003)
Nel 2005, quando si discuteva nel Parlamento la cosiddetta legge Moratti sull’Università, il Gruppo 2003 fu invitato a esprimere la sua opinione sul disegno di legge nel contesto di un’audizione presso la Commissione competente del Senato della Repubblica. Come presidente pro-tempore del Gruppo, presentai ai senatori le nostre proposte su come avrebbe dovuto essere la riforma: proposte basate su tre abolizioni e nove corollari esplicativi. E’ inutile dire che nessuna delle nostre proposte è stata recepita nella legge che fu successivamente approvata. Abbiamo una nuova legge, fortemente voluta dal Ministro Maria Stella Gelmini e approvata recentemente dal Parlamento. Non voglio in questa sede esprimere le mie opinioni sulla legge, sulla sua applicabilità e sul suo potenziale di rendere “normale” l’Università. Al Gruppo 2003 piacerebbe aprire in SCIRE un dibattito sulle nostre proposte del 2005, sulla loro attualità e sul grado di realizzabilità con la legge Gelmini.
Le proposte del Gruppo 2003: Le quattro abolizioni
– abolizione del valore legale del titolo di studio
– abolizione dei concorsi
– abolizione del posto fisso
– abolizione della elettività nella governance delle Università (Rettore, Preside, etc)
La vera riforma dell'università secondo il Gruppo 2003
– libere assunzioni: ogni università assume chi vuole e come vuole, assumendosene la responsabilità e le conseguenze
– libera scelta del livello delle retribuzioni, con criteri obbiettivamente meritocratici (produzione scientifica, brevetti, didattica innovativa)
– liberalizzazione dei percorsi di carriera: ogni università promuove chi e come vuole, assumendosene la responsabilità e le conseguenze
– liberalizzazione della didattica: ogni università sceglie di insegnare ciò che vuole. Le scelte relative vengono premiate o penalizzate dalle iscrizioni degli studenti, nonché dai risultati ottenuti negli esami di Stato e nel mercato del lavoro
– liberalizzazione delle tasse: ogni università decide autonomamente la loro entità, sulla base della sua capacità di offerta e di attrazione.
– utilizzazione dei fondi derivati dalle tasse per istituire un sistema di prestiti d’onore agli studenti meritevoli e bisognosi
– attribuzione di ogni finanziamento all’Università sulla base della valutazione attraverso peer-review e site visits
– rinnovamento degli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, in termini di capacità di valutazione ed efficacia selettiva, per poter evidenziare le università che producono i migliori laureati
– istituzione di corsi di studio universitari in lingua inglese, per l’internazionalizzazione dell’attività didattica e dei dottorati di ricerca
L’università è, finalmente, al centro di un dibattito pubblico sempre più esteso. Se ne parla sui media. Intervengono nella discussione politici, sociologi, economisti.
Se ne parla in termini quantitativi. E ci si chiede: gli atenei sono troppi o troppo pochi? I giovani laureati sono troppi o troppo pochi? E lo stato investe troppo o troppo poco nell’università?
Se ne parla anche in termini qualitativi. Ci si chiede: le università italiane hanno tutte la medesima qualità? La qualità delle università italiane è migliore o peggiore rispetto alle straniere? E come si fa a valutare la qualità? Le risorse pubbliche, infine, devono essere distribuite sulla base della qualità?
Si tratta di domande complesse. Le risposte possono essere anche diverse: molto dipende dall’idea di università che ciascuno di noi ha. Tuttavia è bene partire da alcuni dati consolidati. Un aiuto ci viene fornito dagli esperti dell’OECD, che periodicamente redigono un rapporto sui sistemi educativi dei paesi membri. L’ultimo è Education at a Glance 2010. Da questo documento abbiamo estratto e manipolato alcuni tra i dati più significativi (i dati si riferiscono all’anno 2008, salvo diversa indicazione), che ci consentono di proporre alcune affermazioni se non certe, certo consolidate.
1. Laurearsi conviene alle persone
Siamo nell’economia della conoscenza, sostengono i redattori del rapporto OECD. E investire nella propria eduzione conviene. Un lavoratore maschio che ha un livello di studio superiore a quello della scuola obbligatoria guadagna molto di più nel corso della sua vita di un lavoratore con il titolo di studio che non va oltre la scuola dell’obbligo. In media nei paesi OECD guadagna 335.000 dollari in più. In Italia, Portogallo e Regno Unito il guadagno è addirittura superiore: 500.000 dollari.
2. Laurearsi conviene allo stato
La laurea conviene allo stato. Perché, in media, nei paesi OECD un laureato porta allo stato nell’arco della sua vita 119.000 dollari in più (al netto della spesa statale per farlo laureare) di un lavoratore che ha solo il titolo della scuola dell’obbligo. Gli stati che investono in alta educazione, dunque, ci guadagnano.
3. In Italia i laureati sono meno che in altri paesi
La percentuale di laureati nel nostro paese nella fascia di età compresa tra 25 e 64 anni è pari al 14%. La media dei paesi OECD è del 28%. La media dei paesi dell’Unione Europa a 19 è del 27%. In Corea del Sud è del 37%, negli Usa del 41% in Giappone del 43%. Tutti i grandi paesi europei hanno una media più alta.
Grafico 1 | Percentuale di laureati sulla popolazione totale (25-64 anni)
4. In Italia i giovani laureati sono meno che in altri paesi.
La percentuale di laureati nel nostro paese nella fascia di età compresa tra 25 e 34 anni è pari al 20%. La media dei paesi OECD è del 35%. La media dei paesi dell’Unione Europa a 19 è del 34%. Negli Usa del 42%, in Giappone del 45%, in Corea del Sud è del 58%. Tutti i grandi paesi europei hanno una media più alta.
Grafico 2 | Percentuale di laureati sulla popolazione totale (25-34 anni)
5. Il numero di disoccupati tra i laureati italiani è minore che tra altri gruppi con titolo di studio inferiore.
I disoccupati tra i laureati italiani risultavano, nel 2008, pari al 4,3% del totale. La disoccupazione tra i diplomati è superiore: 4,6%. È decisamente superiore tra coloro che hanno un titolo di studio inferiore: 7,4%.
L’andamento è analogo in ogni paese e da molti anni.
Se ne può dedurre che la laurea consente un più facile accesso nel mondo del lavoro. Anche in Italia.
Grafico 3 | Disoccupati per titolo di studio
Anche in periodo di crisi i giovani occupati a un anno dalla laurea sono stati pari al 75% in area OECD. Lo stesso valore che nel 2003. La crisi scoppiata nel 2007 non ha dunque eroso la capacità d’impiego dei luareati.
4. La spesa per studente universitario in Italia è inferiore a quella di altri paesi.
La spesa per studente universitario (al netto degli investimenti in ricerca) è in Italia pari a 5.447 dollari/anno. La media dei paesi OECD è di 8.970. La media dei paesi dell’Unione Europa a 19 è di 8.013. Negli Usa è di 24.230. Tutti i grandi paesi europei fanno registrare una spesa più alta.
Grafico 4 | Spesa per studenti (in dollari)
5. La spesa per l’università è inferiore a quella degli altri paesi
La spesa per l’università rispetto al Pil è in Italia pari allo 0,9%. La media dei paesi OECD è dell’1,5%. La media dei paesi dell’Unione Europa a 19 è dell’1,3%. In Giappone è dell’1,5%; in Corea del Sud del 2,4%, negli USA del 3,1%. Tutti i grandi paesi europei fanno registrare una spesa più alta.
Grafico 5a | Spesa per l'università (in % sul PIL)
Analogo l’andamento se si considera la spesa al netto degli investimenti in ricerca effettuati nelle università. In questo caso la spesa italiana è pari allo 0,52%. La media dei paesi OECD è dell’1,07%. In Corea del Sud è del 2,15%; negli USA del 2,84%. Tutti i grandi paesi europei fanno registrare una spesa più alta.
Grafico 5b | Spesa per l'università senza R&S (in % sul PIL)
6. Lo Stato italiano investe meno di altri nell’università
La spesa per l’università dello stato italiano rispetto al totale della spesa pubblica è pari all’1,6%. La media dei paesi OECD è del 3,1%. La media dei paesi dell’Unione Europa a 19 è del 2,9%. In Giappone è dell’1,7%; in Corea del Sud del 2,1%, negli USA del 3,3%. Tutti i grandi paesi europei fanno registrare una spesa più alta.
Grafico 6 | Spesa pubblica per l'università sul totale della spesa pubblica (in %)
L’attivazione dell’Agenzia nazionale di valutazione dell’università e della ricerca (ANVUR), istituita con un percorso bipartisan, costituisce uno snodo essenziale in un percorso di rinnovamento necessario e auspicabile. In particolare per chi ha sempre pensato che la valutazione e la premialità, ossia la distribuzione cioè di risorse sulla base dei risultati della valutazione, costituiscano l’elemento cruciale capace di innescare un circuito virtuoso di rinnovamento del sistema di ricerca del Paese (www.gruppo2003.it).
Ora, sono stati resi noti i nomi dei sette membri del consiglio direttivo, scelti fra una rosa di candidati indicata da un search committee. Il metodo seguito (un search committe autorevole e un bando aperto) è stato corretto e condivisibile. Tuttavia, la scelta finale è stata oggetto di critiche diverse:
Personalmente condivido quest’ultima opinione: sarebbe stato auspicabile avere fra i sette prescelti un autorevole esperto di discipline umanistiche, a maggior ragione perché in queste aree la valutazione costituisce una vera e propria sfida culturale e, inoltre, il paese si dimostra scarsamente competitivo, per esempio a livello dei finanziamenti ottenuti dall'European Research Council. Ma ritengo comunque che, alla mancanza di competenza specifica nell’area umanistica, si potrà ovviare con un’attenzione particolare in sede operativa.
Da molti, inoltre, è stata lamentata l’assenza di ricercatori operanti all’estero o comunque con caratteristiche di leader assoluti in alcuni settori. Certamente nell’attirare candidati –dall’estero e non solo – hanno giocato un ruolo negativo:
Su questi limiti sarà importante riflettere per il futuro. Più in generale, fra i tanti mali di cui soffre il nostro sistema di ricerca, uno è costituito dai troppi lacci e lacciuoli che lo rendono scarsamente flessibile e adattabile e ne rendono difficile, a volte quasi impossibile, il governo. Se la benzina che ci danno è poca, pazienza; ma, almeno che ci tolgano il freno a mano, in modo che sia possibile utilizzare al meglio le risorse disponibili.
In conclusione, nonostante tutto, sono convinto che ANVUR possa fare – e farà – un buon lavoro. Di certo è comunque un passo nella direzione giusta, per dotare il paese di un sistema di valutazione dell’università e della ricerca trasparente e meritocratico. Anche se molto ancora può e deve essere fatto.
Abbiamo appreso con stupore che nel quadro della discussione parlamentare della riforma universitaria è stato proposto un emendamento (18 bis.200, a firma di Luisa Capitanio Santolini e altri parlamentari dell'UDC) che chiede la soppressione del Comitato nazionale dei Garanti per la Ricerca.
Composto da soli 7 membri, studiosi italiani o stranieri di fama internazionale, scelti con un metodo condivisibile (un search committee autorevole nominato sulla base di una forte componente internazionale), questo organismo era stato previsto anche in risposta alle proposte avanzate dal Gruppo 2003 per arrivare a gestire i finanziamenti per la ricerca attraverso uno sportello affidabile. Il Comitato avrebbe infatti il compito di coordinare le procedure di selezione dei progetti di ricerca delle Università e negli enti di ricerca pubblici e privati, utilizzando il meccanismo di peer-review.
Senza aggravio di spesa, unificando e semplificando procedure sinora suddivise tra più commissioni, si voleva introdurre in tal modo uno strumento in grado finalmente di dare garanzie, sulla base di criteri e metodi già collaudati nelle realtà internazionali più avanzate, per un più efficace utilizzo delle risorse pubbliche nel finanziamento della ricerca scientifica. Con prevedibili ricedute in termini di maggior competitività e miglior reputazione internazionale del nostro Paese.
Non si trattava ancora di un’Agenzia nazionale, come ripetutamente richiesto dal Gruppo 2003, ma era certo un primo passo, un’opportunità che, nelle condizioni in cui siamo, senso di responsabilità e buon senso raccomanderebbero di non lasciar cadere.
L'emendamento che intende sopprimere il CNGR sarà discusso martedì alla Camera. Evidentemente, anche un piccolo passo verso la costituzione di una cabina di regia unica, trasparente e meritocratica all’interno del MIUR incontra resistenze formidabili all’interno e all’esterno, con appoggi politici rilevanti. Indipendentemente dai giudizi complessivi sulla riforma, su questo punto particolare tutta la comunità scientifica italiana dovrebbe far sentire la sua voce unanime.
Aggiornamento: il Comitato nazionale dei Garanti per la Ricerca per ora vive
La Camera dei deputati, il 2 dicembre 2010, non ha approvato l'emendamento che chiedeva la soppressione dell'articolo 18 bis e di conseguenza sopprimeva Comitato nazionale dei Garanti per la Ricerca. La discussione del testo al Senato è rinviata a data da destinarsi.
Prendo volentieri spunto dall’articolo di Massimo Mucchetti dello scorso 17 settembre (Un’Agenzia nazionale per la ricerca contro la burocrazia e le clientele), per richiamare l’attenzione su una novità intervenuta negli ultimo giorni, e che può forse contribuire a dare con ancor maggior chiarezza il senso della posta in gioco in questi giorni.
Tra gli emendamenti al ddl Gelmini approvati in Commissione Istruzione, vi è quello che costituisce il Comitato Nazionale di Garanti per la Ricerca. Composto da soli 7 membri, studiosi italiani o stranieri di fama internazionale, scelti con un metodo condivisibile (un search committee autorevole nominato sulla base di una forte componente internazionale), questo organismo avrebbe il compito di coordinare le procedure di selezione dei progetti di ricerca delle Università e negli enti di ricerca pubblici e privati, utilizzando il meccanismo di peer-review.
Senza aggravio di spesa, unificando e semplificando procedure prima suddivise tra più commissioni, si introdurrebbe in tal modo uno strumento in grado finalmente di dare garanzie, sulla base di criteri e metodi già collaudati nelle realtà internazionali più avanzate, per un più efficace utilizzo delle risorse pubbliche nel finanziamento della ricerca scientifica. Con prevedibili ricedute in termini di maggior competitività e miglior reputazione internazionale del nostro Paese.
Non si tratta ancora di un’Agenzia nazionale, ma è certo un primo passo, un’opportunità che, nelle condizioni in cui siamo, senso di responsabilità e buon senso raccomandano di non lasciar cadere.
E’ certamente legittimo chiedersi se questa riforma disegni l’università utopica dei nostri sogni: un’università così come era nelle proposta dal Gruppo 2003, con l’abolizione del valore legale del titolo di studio, l’eliminazione dei concorsi e così via. La riforma proposta dal Ministro Gelmini non corrisponde a tutte le nostre attese. Tuttavia contiene – e in queste ore non lo si ripete mai abbastanza - forti elementi di innovazione. Auspicabili e di certo benvenuti. Di essi, il più importante è il taglio meritocratico: più finanziamenti a chi fa bene, meno a chi fa poco e male, un nuovo scenario che l’istituzione del Comitato dei Garanti per la Ricerca, se la riforma fosse approvata, potrebbe appunto inaugurare. E ancora, la possibilità per gli Atenei che se la sentono, di camminare con governance diversa. Certamente la riforma è migliorabile in alcuni punti, ma rappresenta nel suo insieme un’occasione irripetibile per mettere finalmente mano in maniera organica al sistema universitario del nostro Paese. Certamente la riforma di per sé non basta. Molte sono le cose di cui abbiamo bisogno per iniziare un percorso che doti l’Italia di un sistema di ricerca competitivo, confrontabile con quello dei paesi sviluppati. È necessario ad esempio rimuovere i lacci e lacciuoli che rendono così macchinosa la gestione degli Enti di Ricerca, e tanto difficile il reclutamento di cervelli, promuovere e rilanciare la ricerca industriale e il rapporto fra ricerca accademica e trasferimento tecnologico e, naturalmente, investire di più in ricerca e istruzione superiore. La strada che ci aspetta insomma è sicuramente lunga, e non priva di difficoltà. Ma se lasciamo cadere l’occasione di questa riforma diventa difficile persino muovere i primi passi.
L’intervento di Sylos Labini sulla “riforma da rottamare” richiama dati importanti e valutazioni condivisibili (per esempio lo stipendio dei ricercatori), ma anche errori o mancanze fattuali cruciali per la formulazione del giudizio globale (“da rottamare”). Mi soffermo su alcuni punti specifici in particolare sul tema valutazione-premialità-ricerca:
Le discussioni sul DDL Gelmini sono spesso basate su slogan del tipo: introduce la meritocrazia e la valutazione nell'università, limita i poteri dei "baroni", ecc. A me sembra che dietro questi slogan non ci sia nulla di concreto, tantomeno l'introduzione di criteri di valutazione seri o dei limiti ai poteri dei baroni. Questa è una riforma che non presta alcuna attenzione alle forze più fresche ed attive del mondo della ricerca e dell'università. La riforma Gelmini, con le sue 179 norme più le deleghe (che fa 500 norme)rappresenta l’affossamento definitivo del sistema pubblico.
Il corpo docente
Il corpo docente dell'università (professori ordinari, associati e ricercatori) è il più anziano tra i paesi OCSE. In particolare vi è un grande quantità di ultra-sessantenni (27% con età maggiore di 60 anni, di cui il14% con età maggiore di 65 anni) ed una piccola frazione di giovani (1,8 % sotto i 30 anni e 14% tra 30 e 40). E’ bene tenere presente che entrambe queste caratteristiche non si ritrovano in nessuno dei paesi sviluppati (e non!).
Dal 1980 al 2005, si osserva un innalzamento dell’età media di reclutamento che cresce di circa quattro mesi ogni anno, ovvero i ricercatori assunti nel 1980 erano mediamente di otto anni più giovani rispetto a quelli assunti nel 2005 (29 anni nel 1980 e 37 nel 2005). Questa tendenza è caratteristica del sistema universitario nella sua interezza ed è un fenomeno di lungo corso. In tutti gli altri paesi europei i docenti universitari vanno in pensione a 65 anni. In Italia, si arriva oltre i 70. Il numero di “precari” («giovani» ricercatori qualificati con contratti di lavoro temporanei) nell’università e negli enti di ricerca è stimato essere una frazione rilevante che coinvolgono più del 50% del personale a tempo indeterminato circa (stime dicono addirittura il 100%, ovvero 70,000 o più unità). Dal breve elenco di cui sopra si nota che l’Italia è il paese al mondo in cui è massimo il contrasto tra giovani ed anziani nel corpo docente. Dunque per rimetterci in linea con il resto del mondo bisognerebbe considerare seriamente la proposta di abbassare l’età pensionabile dei docenti a 65 anni. E' una proposta del tutto ragionevole e necessaria. Ovunque si va in pensione a 65-67 anni. Ma un intervento così delicato andrebbe considerato all'interno di una riforma seria dell'università e discusso nel contesto in cui avviene, perché sono tanti i problemi che emergono insieme a quello dell’età pensionabile. Nei prossimi 10 anni, tra il 40 e il 50 per cento del corpo docente attuale andrà in pensione. Diminuendo improvvisamente l’età pensionabile questa frazione aumenterebbe, andando oltre il 60 per cento. Se poi consideriamo il blocco del turn over al 20 per cento, ecco che diventa chiaro un disegno di ridimensionamento del sistema universitario italiano, cosa che potrebbe in linea di principio avere un senso (ma non lo ha se si vogliono raggiungere standard europei) ma solo dopo una discussione pubblica ed approfondita del ruolo dell'università nella società e non come indotto di una politica di tagli indiscriminati.
Reclutamento
Vediamo come viene affrontato il problema del reclutamento, problema chiave non solo per l'immissione in ruolo di nuove leve ma anche per la progressione di carriera degli attuali docenti. Il DDL Gelmini vuole introdurre una figura nuova ispirata alla tenure-track (TT) americana. La TT è un contratto che alla fine di un periodo di prova, in genere di cinque anni, prevede l'assunzione a tempo indeterminato se la valutazione è positiva. E' quindi prevista da subito la copertura finanziaria per l'eventuale posizione tenured. Nella versione italiana invece, la conferma nel ruolo di associato avviene dopo il conseguimento di un giudizio di idoneità nazionale ed il superamento di un concorso locale, senza prevedere dall'inizio la copertura finanziaria per il posto permanente. La TT negli Stati Uniti funziona perché l’università assicura da subito la copertura finanziaria per la posizione permanente (per sempre). Le università italiane ad oggi non sanno ancora quale sia lo stanziamento di bilancio per l’anno in corso, dunque è evidente che la forma italiana della TT è simile ad un contratto a tempo determinato piuttosto che alla vera TT americana.
Inoltre viene messo in esaurimento il ruolo di ricercatore, figura introdotta con la 382/1980 e che è ancora in attesa della definizione dello stato giuridico. Secondo le attuali norme i ricercatori universitari non sono tenuti ad insegnare ma in realtà circa la metà dei corsi sono affidati a loro. Da questa situazione, e dal fatto che le prospettive di carriera per i ricercatori sono del tutto incerte con l'introduzione della TT (all'italiana), una gran parte dei ricercatori ha deciso l'indisponibilità a fare i corsi. Questo non è uno sciopero ma, appunto, una indisponibilità a fare un lavoro che, per legge, non sono tenuti a fare. In buona sostanza l’abolizione del posto di ricercatore con la sua sostituzione con la TT (all'italiana) è una presa in giro non solo per gli attuali ricercatori, ma per i 50.000 o più precari dell’università.
Salari
È noto che un ricercatore in Italia, all’ingresso, percepisce una retribuzione netta di circa 1.500 euro al mese (contro i quasi 2.000 di Francia e Spagna e i 2.500 del Regno Unito), mentre un professore ordinario a fine carriera ha una retribuzione del tutto comparabile agli stipendi dei professori delle università americane (dell’ordine di 100.000 euro lordi all’anno). A questo riguardo è importante notare che, mentre negli Stati Uniti lo stipendio di un professore è correlato al merito accademico, in Italia ciò dipende, all’interno di ogni fascia, solo dall’anzianità di servizio. Quindi, contrariamente agli Stati Uniti, la fascia di professori universitari d’età avanzata coincide con la fascia maggiormente retribuita. Questo fatto può essere dimostrato in maniera quantitativa calcolando la retribuzione media percepita dai docenti di una certa età. Come ci si poteva aspettare, osserviamo una semplice relazione lineare tra età e retribuzione, definite quindi da due quantità, determinate dalla politica salariale, che sono lo stipendio di entrata e la differenza tra retribuzione minima e massima. Dunque, in media, a 30 anni si guadagnano 20.000 euro l’anno, a 50 anni 60.000 ed a 70 se ne guadagnavano 80.000 nel 2002 e quasi 95.000 nel 2004. Questa disparità sembra paradossale, considerando che le necessità economiche di un settantenne sono senz’altro inferiori rispetto a quelle di un trentenne o quarantenne che sia. Analizzando i dati delle retribuzioni dei docenti per vari anni accademici (1998-2004) è possibile osservare come la differenza tra la retribuzione minima e quella massima sia rimasta sostanzialmente invariata negli anni, mentre lo stipendio d’ingresso di un giovane ricercatore è cresciuto di poco. Un aumento che compensa in parte l’inflazione ma certamente non in maniera adeguata da poter confrontare tale stipendio con quello percepito in un altro paese europeo e dunque tale da rendere competitivo il nostro sistema universitario.
Possiamo quindi concludere che la tendenza delle variazioni delle retribuzioni negli anni 1998-2004 non è andata nella direzione di una ripartizione più equa delle risorse tra giovani ed anziani. Dall'analisi dei dati OCSE, si giunge alla conclusione che un ricercatore italiano con un'esperienza lavorativa tra 0 e 4 anni guadagna circa 12.500 euro l'anno contro i 30.500 del collega francese ed i circa 24.000 di quello tedesco. In Spagna si arriva comunque vicino a 17.000: per trovare compensi più bassi bisogna guardare ai Paesi dell'Est. Inoltre si tenga presente che i salari di ingresso attuali sono più bassi di quelli delle generazioni precedenti. Negli ultimi anni si è assistito ad un ritardo nelle progressioni di carriera che dunque hanno aggravato la situazione salariale delle componente più giovane del corpo accademico anche nella prospettiva della pensione.
Valutazione
Passiamo alla questione della valutazione, tema strettamente collegato alla meritocrazia. Il DDL Gelmini non s'impegna nel disegno di un sistema di incentivi che cerchi di premiare chi fa bene e punire chi fa male. Finora di passi concreti verso una valutazione dell’attività di ricerca non ne sono stati fatti, né durante il Ministero Mussi né durante il Ministero Gelmini. L'unico tentativo è stato quello fatto durante il ministero Moratti con il CIVR che ha analizzato la produttività scientifica 2001-2003, senza poi alcun tipo di riscontro nella successiva distribuzione delle risorse.
A questo riguardo, va sottolineato come le parole siano spesso usate per creare una cortina fumogena che nasconde i pochi fatti. Ad esempio, le linee guida diffuse dal ministro Gelmini il 6 novembre 2008 intendevano dare: «Autonomia e responsabilità, quindi, ma anche, soprattutto, il merito come criterio costante di scelta: nell’allocazione delle risorse, nella valutazione dei corsi e delle sedi, nella scelta e nella remunerazione dei docenti, nella promozione della ricerca». Inoltre si dichiarava che: «Già nel 2009 il 7% di tutti i fondi di finanziamento alle università sarà erogato su base valutativa e la percentuale è destinata a crescere rapidamente negli anni successivi per allinearci alla migliore prassi internazionale. L’obiettivo è infatti quello di raggiungere entro la legislatura il 30%». Questi buoni propositi, finora, sono rimasti tali e, come notato da Daniele Checchi e Tullio Jappelli, a metà del 2009 nessun passo concreto è stato fatto verso una ripartizione reale del finanziamento in base alla produttività didattica o scientifica degli atenei. Gli stessi autori, analizzando i criteri con i quali vengono ripartiti i fondi collegati alla Programmazione triennale 2007-2009, concludono: «La morale è che comunque ti comporti avrai qualcosa, e che premio e sanzione non differiscono di molto».
Il punto chiave, non affrontato in alcun modo dal DDL Gelmini, sarebbe stato quello di puntare ad un sistema di incentivi secondo il quale le risorse siano distribuite ai dipartimenti e non agli atenei. Una valutazione analitica e sistematica del sistema universitario è indispensabile per identificare quello che funziona e quello che non funziona, per premiare chi fa bene e "punire" chi fa male. Tuttavia nell'attuale situazione si vuole perseguire una valutazione senza risorse, ovvero perseguire obiettivi di qualità senza strumenti. Il taglio nel finanziamento all'università è stato di fatto orizzontale: si colpisce indipendentemente dal merito ed è una mannaia che si abbatte in maniera indiscriminata su tutto e su tutti, ed in particolare sugli anelli più deboli del sistema universitario, i cosiddetti "giovani".
La meritocrazia nel DDL Gelmini è delegata all’istituzione dell’ANVUR, di cui tra l’altro si parla da un decennio e che per il momento è una scatola vuota.
Governance
Uno dei punti cardine del DDL Gelmini è la riforma della governace universitaria, in cui vi sarà un Senato Accademico senza poteri ed un Consiglio di Amministrazione che diventa il vero organo deliberante dell'ateneo. In questo quadro i Rettori assumono un potere notevolissimo, che di fatto già hanno (e quindi il DDL non fa che istituzionalizzare una situazione che di fatto già esiste ed i Rettori non possono essere che contenti, ed infatti lo sono). L'idea è che il CdA sia aperto all'esterno, ma non si affronta la domanda: chi sono i membri esterni? La riforma della governance apre le porte per la trasformazione delle università in ASL, in cui oltre al potere accademico ci saranno interferenze da parte del potere politico
Conclusione
Concludo citando Il Senato Accademico dell'Università La Sapienza: “Abbiamo fatto tutto il possibile: abbiamo ridotto i Dipartimenti del 40%, le Facoltà del 60%, riordinato la governance, decentrando tutti i poteri gestionali di ricerca e didattica ai Dipartimenti con organi centrali e Facoltà che hanno funzione di valutazione premiale delle attività. La responsabilità è ora del Governo e del Parlamento che debbono dare risposte concrete sui finanziamenti ormai drammaticamente insufficienti (l’università italiana è ultima in Europa) e sullo stato giuridico che i ricercatori attendono da 30 anni. La Sapienza ha operato per razionalizzare, risparmiare e riprogettare in funzione della qualità. Se dalla politica non ci saranno risposte, soprattutto finanziare, avremo una didattica da terzo mondo e una ricerca in dissoluzione. In tali condizioni non saremo in grado di iniziare l’anno accademico 2010-2011”.
La riforma Gelmini non solo sta per assestare un colpo mortale all’università ed alla ricerca in Italia, ma sembra essere un vero e proprio insulto alle nuove generazioni. Quelli che nell’università non sono ancora entrati e che probabilmente, a parte rare eccezioni, non ci entreranno mai. C’è bisogno di un’opposizione intransigente, con iniziative consone alla gravità della situazione, ma è necessario anche elaborare una riforma dell’università che abbia presupposti e prospettive completamente differenti da quelle del DDL Gelmini. Perché rifiutare una riforma insensata come quella della Gelmini è necessario, ma difendere l’esistente è impossibile. Per questo una riflessione seria e sistematica è quantomai opportuna in questo momento, anche se mi sembra difficile che la classe accademica, che ha messo del suo nel generare il disastro attuale, sia capace di auto-riformarsi. C’è bisogno di un coinvolgimento di tutti, compresi gli studenti e gli attuali precari ed i ricercatori che alla fine rappresentano il futuro del sistema universitario, ed anche quella parte dei sindacati che lavora con competenza nel mondo della ricerca per capire come agire.
La scorsa estate, il DDL della riforma universitaria è passato in Senato, ed è ora al vaglio della Camera dei Deputati. Di questa riforma, necessaria, si è tanto discusso, ma ad oggi l’aspetto che ha avuto maggiore visibilità e senza dubbio clamore è quello relativo al pensionamento dei professori. Tuttavia, non è questo il cuore della riforma, né di essa l’aspetto più rilevante.
Certo è legittimo chiedersi se questa riforma disegni l’università utopica dei nostri sogni: un’università così come era nelle proposta dal Gruppo 2003, con l’abolizione del valore legale del titolo di studio, l’eliminazione dei concorsi e così via. La riforma proposta dal Ministro Gelmini non è questo. Tuttavia, contiene - ed è bene sottolinearlo - dei forti elementi di innovazione. Auspicabili e di certo benvenuti.
Di essi, il più importante è il taglio meritocratico: più finanziamenti a chi fa bene, meno a chi fa poco e male. E ancora, la possibilità per gli Atenei che se la sentono, di camminare con governance diversa.
Dallo scorso anno, una quota piccola ma significativa dei fondi che lo Stato distribuisce alle Università viene assegnata sulla base dell’esercizio di valutazione effettuato dal CIVR (Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca). Precedentemente, la valutazione del CIVR era rimasta un puro esercizio senza conseguenze. Per questo una fonte che non è mai stata tenera ma sempre estremamente critica nei confronti della Politica della Ricerca effettuata dai vari Governi, - il gruppo 2003, attraverso il suo Presidente Tommaso Maccacaro - ha pubblicamente elogiato il Ministro Gelmini (vedere articolo “Brava Gelmini”). Ora il CIVR (o VQR) riparte, e non rimane isolato: sta infatti nascendo - dopo un percorso bipartisan - anche l’ANVUR, un’agenzia indipendente il cui compito è valutare gli Atenei e lo stato della ricerca, che funzionerà nel medio-lungo termine. La modalità con cui si sta procedendo alla scelta di chi guiderà ANVUR, attraverso un Search Committee autorevole che presenterà una rosa di candidati al Ministro, è appropriata e a suo tempo proposta come prassi dal Gruppo 2003.
Certamente la riforma non è perfetta ed è migliorabile in alcuni punti (ad esempio ruolo delle Facoltà). Tuttavia rappresenta un’occasione unica. Temo, infatti, che difficilmente si ripresenti in un prossimo futuro la possibilità di varare una riforma di taglio meritocratico. Merito e valutazione sono le parole chiave di questa riforma, ed è questo l’aspetto da valorizzare ed enfatizzare secondo il giudizio del CEPR, il Comitato di esperti chiamato dal Ministero a svolgere attività consultiva sui tema di politica della ricerca. Ci auguriamo che questo carattere meritocratico della riforma non venga snaturato nelle prossime fasi di passaggio legislativo, ad esempio con promozioni comunque mascherate, ope legis, che da sempre rappresentano la fine di tutti gli interventi sull’università proposti nel passato.
Certamente la riforma di per sé non basta. Molte sono le cose di cui abbiamo bisogno per iniziare un percorso che doti l’Italia di un sistema di ricerca competitivo e confrontabile con quello dei paesi sviluppati. È necessario ad esempio rimuovere i lacci e lacciuoli che rendono macchinosa la gestione degli Enti di Ricerca e difficile il reclutamento di cervelli: in questo momento arruolare studenti e scienziati dall’estero è un’impresa titanica che si scontra con difficoltà enormi, a volte insormontabili.
La Riforma è solo una delle quattro “gambe” del tavolo della Ricerca. La seconda è una (o più) cabina di regia (Agenzie di Ricerca Scientifica), che costituiscano sportelli di finanziamento affidabili e trasparenti, prendendo esempio da charity come AIRC .
La terza gamba è la promozione della ricerca industriale e del rapporto fra ricerca accademica e trasferimento tecnologico. Infine, la quarta gamba sono le risorse: il paese investe poco in ricerca e in istruzione superiore. E questa tendenza va invertita, perché non si può riformare il sistema di Ricerca del Paese senza risorse. Non si fanno nozze con i fichi secchi.
Ancora una volta si ripete la triste storia dei tagli alla ricerca e alle sue strutture: dovendo il Governo – di fronte a circostanze eccezionali – ridurre la spesa pubblica, la scure del Tesoro minaccia tagli orizzontali che forse penalizzano meno il rapporto complessivo con l’elettorato e sono facili da realizzare, ma stupiscono soprattutto per la mancanza di criteri di scelta espliciti e oggettivi.
L'unico metodo scientificamente accettabile sarebbe quello di basarsi su una seria e obiettiva valutazione di quanto l'investimento di danaro pubblico renda in termini di produzione scientifica: paradossalmente enti che sono considerati oggi da sopprimere compaiono invece ai primi posti per la loro disciplina nelle classifiche redatte dal Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (CIVR), un organismo governativo.
Il Ministero per l'Università e la Ricerca, che ha promosso l'esercizio di valutazione del CIVR, dovrebbe urgentemente segnalare agli estensori della manovra l'esistenza di criteri oggettivi, anche di fonte internazionale, in base a cui fare scelte che vadano nell'interesse del Paese.
Soppressioni come quelle annunciate invece non fanno risparmiare nulla (i dipendenti verranno tutti trasferiti ad altri enti, come il ministero o il CNR, con pari trattamento economico), ma possono far perdere al Paese alcuni gioielli di eccellenza mondiale, miracolosamente sopravvissuti sinora alla cronica penuria di mezzi e di valutazione del merito. E con ciò si invia anche un messaggio negativo
Se aver ottenuto, con pubblicazioni di altissimo livello e con scoperte ed invenzioni, il rispetto e la fiducia della comunità scientifica internazionale non conta nulla nei momenti difficili, perché sforzarsi di aver successo in futuro? perché lavorare con remunerazioni da fame se questo non viene poi riconosciuto da chi governa? quale incoraggiamento viene dato a studenti e giovani ricercatori per proseguire sul cammino della ricerca e della scienza?
Il Gruppo 2003 si rivolge alla comunità scientifica nazionale e internazionale perché faccia sentire la sua voce, a favore dell'uso di valutazioni esplicite ed oggettive per le scelte di politica della ricerca, nella normalità e a maggior ragione in frangenti difficili come il presente.
Enti di ricerca soppressi nella stesura del decreto inviato al presidente della repubblica
Enti soppressi | Amministrazione subentrante nell’esercizio dei relativi compiti ed attribuzioni | |
---|---|---|
1 | Stazione Sperimentale per l'industria delle Conserve Alimentari (SSICA) | CCIAA Parma |
2 | Stazione Sperimentale del vetro | CCIAA Venezia |
3 | Stazione Sperimentale per la seta | CCIAA Milano |
4 | Stazione Sperimentale per i combustibili | |
5 | Stazione Sperimentale Carta, Cartoni e Paste per carta (SSCCP) | |
6 | Stazione Sperimentale per le Industrie degli Oli e dei Grassi (SSOG) | |
7 | Stazione Sperimentale per le Industrie delle Essenze e dei Derivati dagli Agrumi (SSEA) | CCIAA Reggio Calabria |
8 | Stazione Sperimentale delle Pelli e Materie Concianti, di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 540 | CCIAA Napoli |
9 | IPI, istituto per la promozione industriale | Ministero dello sviluppo economico |
10 | Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale, istituito ai sensi dell'articolo 13 del decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 454 | Ministero per le politiche agricole e forestali |
11 | Comitato Nazionale Italiano per il collegamento tra il Governo e la FAO, istituito con decreto legislativo 7 maggio 1948 n. 1182 | |
12 | Ente teatrale italiano, di cui alla legge 14 dicembre 1978, n. 836 | Ministero per i beni e le attività culturali |
13 | Stazione Zoologica “A. Dohrn”, di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 886 | Ministero dell’istruzione, università e ricerca |
14 | Istituto nazionale di ricerca metrologica (INRIM), istituito con decreto legislativo 21 gennaio 2004, n. 38 | Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR), di cui al decreto legislativo 4 giugno 2003, n. 127 |
15 | Istituto Nazionale di Alta Matematica "F. Severi" (INDAM), di cui alla legge 11 febbraio 1992, n. 153 | |
16 | Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), di cui al decreto legislativo 4 giugno 2003, n. 138 | |
17 | Istituto Nazionale di Oceanografia e di Geofisica Sperimentale (OGS), di cui al decreto legislativo 29 settembre 1999, n. 381 | |
18 | Istituto di studi giuridici internazionali, istituito ai sensi dell'articolo 1, comma 1, del decreto 12 ottobre 2001, n. 16000 | |
19 | Ente Nazionale delle Sementi Elette (ENSE), istituito con decreto del Presidente della Repubblica 12 novembre 1955, n. 1461 | Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), di cui all'articolo 11 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 454 |
20 | Istituto Nazionale Conserve Alimentari |
Enti di ricerca soppressi nella stesura definitiva del decreto
Enti soppressi | Amministrazione subentrante nell’esercizio dei relativi compiti ed attribuzioni | |
---|---|---|
1 | Stazione Sperimentale per l'industria delle Conserve Alimentari (SSICA) | CCIAA Parma |
2 | Stazione Sperimentale del vetro | CCIAA Venezia |
3 | Stazione Sperimentale per la seta | CCIAA Milano |
4 | Stazione Sperimentale per i combustibili | |
5 | Stazione Sperimentale Carta, Cartoni e Paste per carta (SSCCP) | |
6 | Stazione Sperimentale per le Industrie degli Oli e dei Grassi (SSOG) | |
7 | Stazione Sperimentale per le Industrie delle Essenze e dei Derivati dagli Agrumi (SSEA) | CCIAA Reggio Calabria |
8 | Stazione Sperimentale delle Pelli e Materie Concianti, di cui al decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 540 | CCIAA Napoli |
9 | IPI, istituto per la promozione industriale | Ministero dello sviluppo economico |
10 | Centro per la Formazione in Economia e Politica dello Sviluppo Rurale, istituito ai sensi dell'articolo 13 del decreto legislativo 29 ottobre 1999 n. 454 | Ministero per le politiche agricole e forestali |
11 | Comitato Nazionale Italiano per il collegamento tra il Governo e la FAO, istituito con decreto legislativo 7 maggio 1948 n. 1182 | |
12 | Ente teatrale italiano, di cui alla legge 14 dicembre 1978, n. 836 | Ministero per i beni e le attività culturali |
13 | Ente Nazionale delle Sementi Elette (ENSE), istituito con decreto del Presidente della Repubblica 12 novembre 1955, n. 1461 | Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), di cui all'articolo 11 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 454 |
14 | Istituto Nazionale Conserve Alimentari |
Per capire da un lato lo spirito e dall’altro i limiti dell’attuale progetto governativo di riforma dell’Università (ddl Gelmini), è necessario superare un vizio storico del dibattito politico e accademico italiano: quello del provincialismo. Negli ultimi 30 anni, tutti i sistemi universitari dell’Europa continentale si sono trovati esposti a problemi simili e a sfide largamente comuni, a cui governi di qualunque colore hanno fornito risposte analoghe, anche se con modalità e con gradi di efficacia differenti. Se non si ha presente questo quadro, soluzioni quali lo spostamento di funzioni da organi di rappresentanza collegiale come il senato accademico a organi in cui sono rappresentati interessi esterni, o il rafforzamento del potere dei rettori, o ancora l’insistenza sulla valorizzazione del merito sia nel reclutamento sia nel valutare le performance degli atenei, possono sembrare una bizzarria istituzionale, una prevaricazione di poteri forti, una rinuncia all’idea stessa di università.
I governi italiani hanno seguito in ritardo, con notevoli contraddizioni e soprattutto in modo non organico i processi che hanno caratterizzato tutta l’Europa continentale. Un esempio eclatante è quello dell’autonomia, concessa alle università già dal 1990 ma non accompagnata – caso forse unico in Europa – da adeguati meccanismi di valutazione. L’autonomia senza valutazione ha prodotto notevoli guasti, su cui si sono scatenati la polemica e lo scandalismo nutriti dai e attraverso i media. E, in qualche misura, si può dire che sono proprio questi guasti, insieme ai processi avvenuti in tutta Europa, a ispirare la riforma proposta dal governo.
Nelle sue parti migliori e più coraggiose, il ddl mostra chiaramente il proposito di inserirsi nel solco dei mutamenti avvenuti nel resto d’Europa e di colmare i ritardi nella modernizzazione dell’università italiana. L’apertura alla domanda sociale, l’enfasi sull’efficienza delle strutture di governo e sul superamento del dualismo sia a livello centrale sia a quello di base, gli obiettivi di valorizzazione del merito, l’accentuazione del controllo ex-post e della valutazione sulle prestazioni delle università, sono scelte pienamente congruenti con le tendenze che interessano tutti i sistemi universitari europei. Si tratta di obiettivi certamente condivisibili, rispetto ai quali occorre solo discutere la congruità degli strumenti indicati, evidenziando alcuni aspetti problematici.
Al tempo stesso, i guasti provocati negli ultimi anni da un’autonomia non affiancata dalla valutazione – guasti che peraltro sono stati indebitamente attribuiti a tutto il sistema e talvolta appaiono francamente esagerati se visti in un’ottica comparata – sembrano aver lasciato il segno. Si traducono in una percepibile mancanza di fiducia del governo nella capacità degli atenei di gestire la propria autonomia in modo responsabile, e sembrano talvolta lasciar affiorare un intento punitivo verso il mondo universitario.
Questo è l’aspetto meno condivisibile di una riforma che dovrebbe basarsi su un patto esplicito e trasparente di modernizzazione e che si traduce invece in soluzioni istituzionali non sempre congruenti con gli obiettivi di fondo a cui si ispira. Ad esempio, l’equilibrio di poteri fra senato accademico e consiglio di amministrazione (CdA) appare troppo sbilanciato a favore del secondo. Al primo – costituito interamente su base elettiva e quindi senza la presenza di chi svolge ruoli intermedi di gestione e di aggregazione del consenso, come erano i presidi e come saranno i direttori di dipartimento – compete solo “formulare proposte e pareri in materia di didattica e di ricerca”. Mentre al secondo – composto per il 40% da esterni all’ateneo e presieduto da un componente che può essere diverso dal Rettore – vengono attribuite non soltanto, come ovvio, competenze gestionali e funzioni di indirizzo, ma anche poteri in materia di organizzazione dell’offerta didattica, quali la “competenza a deliberare l’attivazione o la soppressione di corsi e sedi”. Da notare che ai componenti del CdA vengono richieste una “comprovata competenza in campo gestionale e un’esperienza professionale di alto livello”, ma non una conoscenza approfondita, e possibilmente maturata dall’interno, dell’ambiente universitario, dei modi in cui si organizza l’offerta formativa e si conduce la ricerca.
Questo evidente squilibrio nei poteri dei due organi di governo centrali e nella loro composizione è stato oggetto di osservazioni critiche da parte della CRUI, che in un recente documento propone un rafforzamento delle competenze del Senato. Probabilmente sarebbe opportuna una correzione assai più radicale, che assegni al Rettore e al Senato Aaccademico la responsabilità della formulazione dei piani scientifici e didattici e quindi l’allocazione delle risorse ai dipartimenti, e che affidi al CdA funzioni non di governo ma di verifica, controllo e sanzione.
Si tratterebbe di una sostanziale ridefinizione delle competenze fra comunità accademica e organi di rappresentanza degli stakeholders, che a parere di chi scrive meriterebbe di essere presa in seria considerazione. Non è qui in discussione l’esigenza che l’università si apra alla domanda sociale e che dunque nei suoi organismi di governo abbiano un peso i rappresentanti di questa domanda, per assicurare una gestione efficiente e controbilanciare il peso delle comunità accademiche che possono essere preda di logiche corporative e auto-referenziali. Ciò su cui si dovrebbe riflettere è invece la natura molto particolare dei beni pubblici “prodotti” dalle università: capitale umano a elevata qualificazione e risultati della ricerca scientifica. Si tratta di beni molto particolari perché le loro caratteristiche non possono essere determinate dalla burocrazia né dal mercato, ma solo dai loro “produttori”. Quali siano le direzioni più promettenti della ricerca, da chi e in quali modi sia più probabile attendersi risultati, quali conoscenze sia più utile trasmettere nel processo formativo e con quali metodi: queste sono tutte scelte sulle quali sono competenti solo le comunità scientifiche di riferimento, alle quali gli organi di governo dell’università non possono che rivolgersi. Questi ultimi incontrano dunque limiti strutturali all’efficacia della loro azione se non coinvolgono le comunità accademiche nelle decisioni.
Si tratta di un punto di equilibrio assai delicato, su cui la riflessione è aperta anche nei paesi anglosassoni. Diversi protagonisti del mondo universitario inglese lamentano ad esempio che difficilmente i “membri laici” entrano nel merito delle questioni più propriamente accademiche come la didattica o la ricerca, per mancanza di competenze o di interesse. Eppure, per diventare componenti del Board di una università inglese solitamente non bastano competenze in campo gestionale ed esperienze professionali, come richiesto dal ddl del governo italiano. Molto spesso tali componenti sono “alumni”, cioè ex-studenti di quell’università e dunque ne conoscono almeno in parte il funzionamento dall’interno: ma ciò sembra in molti casi non bastare. E’ probabile che su questo tema si sviluppi una riflessione più approfondita durante il dibattito parlamentare sul ddl e che possano essere trovati correttivi e punti di equilibrio più adeguati alla situazione italiana.
Per rimanere al tema della governance, un secondo aspetto problematico del ddl Gelmini risiede nello scarso approfondimento del problema del riassetto delle strutture di base. L’attuale quadro organizzativo delle università italiane (ex DPR 382/80) è basato su una forte differenziazione funzionale tra le strutture di base (dipartimenti e facoltà) e su una scarsa integrazione fra loro e con il centro dell’ateneo. In realtà, in molti atenei si è sedimentata la prassi che ha visto superare la dicotomia organizzativa tra ricerca e didattica, con il diretto coinvolgimento dei dipartimenti nell’organizzazione e nella gestione di attività didattiche istituzionali. Ma questo processo non ha intaccato le difficoltà di integrazione sia a livello orizzontale (tra facoltà e dipartimenti) sia a livello verticale (tra il governo centrale degli atenei e le strutture di base). Il testo del ddl prospetta un totale riassetto delle strutture di base e delle loro relazioni, anche se, correttamente, non propone un format omogeneo ed obbligatorio. Saranno quindi le università che, nella loro autonomia statutaria, decideranno come organizzare dipartimenti, facoltà o schools e, soprattutto, quali relazioni disegnare tra esse e quale ruolo dare alle strutture di base nei processi decisionali di ateneo. Proprio questo rinvio all’autonomia statutaria degli atenei, tuttavia, richiede uno sforzo ulteriore di elaborazione di linee guida su questi problemi.
L’esperienza europea, contrariamente a quanto spesso si assume, non offre indicazioni univoche a favore di una ricomposizione delle funzioni di ricerca e didattiche nel dipartimento. In Inghilterra, nel corso dell’ultimo decennio, in molte università la dinamica di riorganizzazione interna ha notevolmente modificato gli equilibri storicamente consolidati: sono stati operati profondi accorpamenti tra le strutture di base, e le Schools sono state caricate di maggiori oneri organizzativi, gestionali e di indirizzo politico. In Olanda, con la riforma del 1997 si è cominciato ad attuare un modello uniforme che prevede un’unica struttura stabile, la facoltà, composta poi, flessibilmente, da diverse unità e centri di ricerca che ad essa fanno capo. Le università francesi si caratterizzano per una struttura di base (l’UFR, unité de formation et de recherche) che può essere paragonabile, nell’esperienza italiana, alle facoltà. La Germania ha mantenuto la struttura organizzativa di tipo confederativo per facoltà (che possono associare, a seconda dei casi, istituti oppure dipartimenti che, comunque, sono tutti basati sull’istituto della cattedra di tradizionale memoria ). Vi sono però stati tentativi di verticalizzazione, e in molti atenei il centro decisionale si è spostato dai consigli di facoltà a consigli ristretti composti, oltre che da una rappresentanza di studenti e docenti, dai direttori degli istituti o dei dipartimenti.
Si tratta di un tema sicuramente da approfondire, ben al di là di quanto disposto dal ddl, che si limita a indicare i dipartimenti come le vere strutture operative che fanno la ricerca e la didattica. Come si è detto, infatti, questa semplificazione non corrisponde ai processi in atto nel resto d’Europa e non risponde in modo adeguato alla tensione crescente fra logica di aggregazione prevalentemente disciplinare dei dipartimenti e logica di risposta multi-disciplinare ai problemi emergenti nell’economia e nella società, che percorsi formativi student-centred e attenti alla domanda dovrebbero avere.
Un terzo aspetto problematico del ddl Gelmini riguarda quella che si potrebbe definire una “concezione monistica” o indifferenziata dell’università. Il testo del governo non tiene conto della – e tantomeno cerca di promuove la – necessaria differenziazione interna agli atenei, oltre che al sistema universitario nel suo complesso. Particolarmente in assenza di un canale vocational nel sistema di istruzione superiore, gli atenei italiani sono chiamati a svolgere una pluralità di funzioni (missions): produzione di conoscenza mediante la ricerca scientifica, formazione di capitale umano a livello variabile di specializzazione (formazione di base, specialistica, dottorale), riqualificazione del capitale umano esistente (formazione permanente), trasferimento dei risultati della ricerca al sistema economico, contributo allo sviluppo territoriale, contributo agli scambi internazionali di capitale umano e di conoscenze. Ma il mix fra queste funzioni non può essere lo stesso in tutte le articolazioni e in tutte le macro-aree disciplinari dell’ateneo, e nessuna area (o struttura che la rappresenta) può essere eccellente in tutte queste funzioni. A maggior ragione questo vale per le diverse università di un sistema territoriale.
Per ciascuna di queste funzioni, merito e qualità vanno diversamente definite, valutate e premiate. Persino la migliore università al mondo secondo tutti i ranking, quella di Harvard, assegna funzioni differenti alle sue strutture. Per fare un solo esempio, gli obiettivi del Department of Government nella Faculty of Arts & Sciences sono diversi da quelli della Kennedy School of Government, e quindi merito e qualità vi sono diversamente definiti e valutati. Occorre dunque un progetto strategico che stabilisca per ciascuna articolazione dell’ateneo e per ciascuna area un mix adeguato fra le diverse funzioni che l’università svolge, e occorre che la valutazione sia compiuta rispetto al raggiungimento degli obiettivi stabiliti.
Infine, vi è un ultimo aspetto problematico della riforma che difficilmente sarà superato dal dibattito parlamentare. Si tratta del tentativo di introdurre nel sistema universitario italiano elementi di differenziazione basati sulla qualità e sul merito, non già mediante incentivi a sostegno di progetti coerenti con una tale strategia come sarebbe auspicabile, ma mediante una diversa allocazione delle risorse già esistenti, e anzi in tendenziale diminuzione. Ma i meccanismi di valorizzazione del merito basati sulle punizioni, sulle sottrazioni anziché sugli incentivi aggiuntivi, come hanno fatto finora i governi italiani, funzionano ovunque male. Basti ricordare come il governo tedesco abbia mobilitato ingenti risorse aggiuntive per avviare una rigorosa selezione delle migliori università tedesche; e come attualmente stia per essere lanciato il secondo round, in cui nuove risorse andranno a premiare le università che presentino i progetti migliori. Così pure il governo francese, che con la loi Pécresse dell’agosto 2007 prefigura una nuova articolazione interna del sistema universitario, prevede un notevole investimento finanziario (5 miliardi di euro in 5 anni) per questo scopo. In queste strategie traspare la piena consapevolezza che cambiamenti di questa portata devono essere sostenuti da misure di incentivazione (premi ai migliori progetti, come in Germania, o a comportamenti considerati virtuosi, come in Francia) e non da interventi punitivi. Altrimenti si dà spazio alla difesa di posizioni corporative o a strategie di trasformazioni “cosmetiche”, nelle quali si rispetta la forma ma non la sostanza del cambiamento necessario per modernizzare l’università italiana.
Il dibattito sul Disegno Di Legge (DDL) procede, e pare incontrare molti consensi. Noi proponiamo una valutazione più severa, a partire da tre quesiti:
Rispondere ai tre quesiti consente di chiarire i limiti del disegno di legge e
le correzioni di rotta necessarie.
1. Qual è l’ispirazione del progetto, la visione dell’università che lo
sottende, l’idea forte che lo ha guidato? Nessuna, apparentemente. La visione
della istituzione università, esposta nel primo articolo, è alquanto modesta:
“sede di libera formazione e strumento per la circolazione della conoscenza”.
Formazione e circolazione solamente? Un sistema universitario deve essere, in
primo luogo centro di produzione della conoscenza, centro di ricerca. Ci sono
due ottime ragioni perchè sia così.
La prima è che formazione e circolazione della conoscenza funzionano bene solo se la produzione della conoscenza è eccellente. E’ perfettamente possibile per una singola istituzione eccellere nell’insegnamento e non nella ricerca. Negli Stati Uniti tra i migliori colleges ci sono Williams, o Vassar, nomi probabilmente sconosciuti in Italia, appunto perché l’insegnamento è la loro missione. Ma quello che vale per un college non vale per un sistema: il sistema universitario americano è eccellente per le sue istituzioni di ricerca, non per i simpatici colleges che formano le menti e fanno circolare le idee prodotte altrove.
La seconda ragione va al cuore della questione di come si fa funzionare una università, o qualunque altra istituzione in una società democratica. La qualità dell’università non si migliora per decreto, o per volontà politica, o con il rigore delle sanzioni, ma trovando gli incentivi giusti. Meritocrazia è fortunatamente un tema che ricorre nel DDL. Premiare il merito non è un principio etico, ma un principio fondamentale del disegno ottimale di una istituzione. Le persone che ne fanno parte lavorano perseguendo ciò che sono motivate a fare, finanziariamente ma soprattutto professionalmente. Ma come si misura il merito? Mentre altri criteri, come la valutazione dell’insegnamento sono facili da manipolare o abbellire, la ricerca non lo è, perché a livello mondiale la produzione di ricerca è estremamente competitiva. Quindi se si vogliono dare incentivi giusti, occorre affidarsi in primo luogo alla ricerca e alla sua valutazione.
2. Quali sono gli obiettivi? Non v’è dubbio che il progetto intende promuovere efficienza e merito. Gli apprezzamenti ricevuti riconoscono esattamente questo. Il problema però è che, mancando il progetto di una ispirazione forte che guidi il disegno degli interventi, gli obiettivi dichiarati rischiano di non esser conseguiti e di rimanere delle pure enunciazioni.
3. Quali sono le linee strategiche verso gli obiettivi di efficienza e merito, e gli eventuali vincoli percepiti? Il decreto punta su tre cose: la riforma della governance centrale dell’ateneo, un sistema di incentivi affidato con precisi criteri direttivi a decreti legislativi del governo, una iper-regolamentazione su tutti gli aspetti trattati dal DDL.
Per quanto riguarda gli incentivi, preoccupa la lentezza delle realizzazioni. Un modello di finanziamento degli atenei fondato su un sistema di incentivi è stato elaborato da anni e in varie versioni, ma non è stato applicato, se non marginalmente. L’unico esercizio di valutazione della ricerca, effettuato dal CIVR per il triennio 2001-2003, è stato utilizzato, seppure in modesta misura, nella distribuzione del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO) 2009! Il DDL affida all’ANVUR, organismo che deve ancora essere costituito, la valutazione di tutte le attività degli atenei. L’iter dell’approvazione del disegno, l’elaborazione dei decreti delegati, il varo dell’onnivalutativo ANVUR implicano una concreta operatività di questo organismo alquanto lontana. Gli impegni del DDL su valutazione e incentivi sono naturalmente importanti, ma la novità di cui oggi si ha bisogno è la rapida prosecuzione di ciò che è davvero cruciale per valutare gli atenei: la valutazione della ricerca.
Niente affatto risolutiva e fonte di nuovi pericoli appare la riforma della governance, impostata su un potere straordinario del rettore, su un Consiglio di Amministrazione (CdA) non elettivo e che diviene l’unico organo deliberante dell’ateneo, su una consistente presenza nel CdA, almeno il 40%, di membri esterni all’ateneo. Il potere dei rettori è già notevolissimo. Non ha dato grandi risultati e non certo perché i rettori difettavano di competenze gestionali. La “comprovata competenza ed esperienza di gestione ... nel settore universitario”, richiesta per i futuri rettori dal DDL, non garantisce nulla e non è condizione necessaria di nulla, se poi significa qualcosa.
Un cambiamento di rotta qui sembra proprio necessario. Fondare la riorganizzazione degli atenei non sul maggior potere del governo centrale, ma sulla maggiore forza e autonomia delle unità di base della ricerca – i dipartimenti – è una correzione di rotta che auspichiamo fortemente nell’iter parlamentare in corso. Del resto, l’innovazione più interessante del ddl è proprio il focus sui dipartimenti, ma il ddl va timidamente in questa direzione. La scelta cruciale è rendere i dipartimenti direttamente responsabili dei risultati conseguiti nella ricerca.
La terza linea strategica del DDL è la capillarità delle disposizioni. Che si fermi il declino dell’università italiana con il dettaglio delle regole è improbabile. Molto più probabile è che, su questa strada, si finisca per prendere decisioni ridicole, come è appunto quella di prescrivere 1500 ore annue di lavoro complessivo, “compresa l’attività di ricerca e di studio” dei professori a tempo pieno. Chi prenderà i tempi e quali garanzie questo monte-ore dà di buona ricerca?
Non molto più seria è la previsione di “criteri e parametri” per l’attribuzione dell’abilitazione a posti di professore “definiti con decreto del Ministro.” Con questo veniamo all’ultimo commento: la selezione della docenza. Il DDL non fa molto per avere buoni professori. Lo schema delineato prevede una abilitazione scientifica nazionale a lista aperta, con una immissione in ruolo nelle singole sedi effettuata poi o attraverso una valutazione comparativa o attraverso una chiamata diretta di persone, provviste della necessaria abilitazione, già in forza nell’ateneo. Un vincitore unico sui posti banditi dalle sedi, dichiarato da un commissione nazionale con innesti internazionali, e la libertà della sede di non chiamare nessuno se è insoddisfatta dell’esito del concorso, ci sembra uno schema più diretto e semplice. E’ uno schema che elimina la mina vagante degli idonei, che il DDL si illude di disinnescare con i criteri e parametri definiti dal Ministro, e che in ogni caso dovrebbe costituire solo una disciplina transitoria rispetto a un futuro, completo affidamento della selezione ai singoli dipartimenti.
E’ senz’altro l’ottimismo della volontà che spinge il ministro Gelmini a cercare di riformare i concorsi universitari (Corriere della Sera, 25/03/2009). La ragione, con il suo sempre più giustificato pessimismo, dovrebbe piuttosto portare ad abolirli. Sappiamo dei tanti concorsi «truccati» e delle assunzioni di parenti, amici e portaborse nelle Università italiane. E’ quindi comprensibile che ci si ponga il problema di rendere abusi e scorrettezze difficili se non impossibili, a salvaguardia dei molti che, forti solo del loro merito, ambiscono a entrare nei percorsi di carriera accademica e di ricerca. Sfugge tuttavia al legislatore, nonostante una pluriennale esperienza, che dettar norme al fine di rendere «oggettiva» la valutazione dei candidati di un concorso è un modo di servire le Università inevitabilmente perdente. E infatti le abbiamo provate tutte: commissioni locali e commissioni nazionali, commissari interni o esterni, eletti o estratti, eletti tra gli estratti o estratti tra gli eletti, che proclamano vincitori singoli o multipli, con o senza idonei. E poi da capo. L’analisi della normativa che regola reclutamento e progressioni di carriera nelle università mostra come lo sforzo del legislatore sia stato soprattutto rivolto a limitare la libertà delle commissioni piuttosto che a fornir loro adeguati strumenti di valutazione. Lo scopo è di «impedire» piuttosto che di «abilitare». Un «sistema esperto» avrebbe da tempo assimilato che non esiste regola capace di impedire di pilotare un concorso. L’interrogativo è quindi, ancora una volta, «che fare?».
Proviamo a immaginare un modo diverso per il reclutamento. La commissione è formata da coloro con cui il ricercatore lavorerà, eventualmente integrata da colleghi dello stesso istituto competenti nelle materie d’esame.
La commissione è quindi totalmente locale, si può riunire con grande agilità e con poca spesa. Immaginiamo che dalla lista dei candidati ne venga estratta una più breve, composta da quelli che, sulla base di titoli e curriculum, sembrano più interessanti e promettenti. Seguono quindi l’invito a tenere un seminario e a sostenere un colloquio. Il processo di selezione si chiude con una graduatoria e una discussione dei termini dell’eventuale assunzione. Assunzione che in prima battuta potrebbe essere a tempo determinato, per venire successivamente convertita in «tenure» dopo alcuni anni e previa verifica della reciproca soddisfazione. Ho inventato nulla di nuovo? No, è quello che si fa da tempo in moltissimi istituti e università esteri, soprattutto anglosassoni.
Questa è una visione antitetica a quella attualmente in vigore: l’arbitrio della commissione è massimo. Come ci si protegge quindi dall’assunzione del genero, del portaborse, del mediocre? Nello stesso modo in cui si proteggono gli istituti esteri. E’ necessario, e questo è il punto nodale, che si leghino, in modo stretto, al rendimento scientifico di un Istituto – determinato da parametri di merito e da opportune commissioni di valutazione, queste sì esterne e indipendenti – quote significative del finanziamento (oltre il 30%). Si devono creare le condizioni per una competizione tra strutture e si deve fare in modo che «non ce ne sia sempre per tutti». In poche parole un po’ di Darwinismo, è anche il suo bicentenario! Questo meccanismo può, nel giro di poco tempo, innescare una spirale virtuosa in cui, come già succede in molti paesi, la gara tra università è continuamente al rialzo.
Un indicatore di successo sarà la presenza, tra i nomi degli aspiranti ricercatori o professori, di un buon numero di stranieri. Ecco, qualsiasi riforma di reclutamento universitario deve porsi l’obiettivo di produrre un sistema che possa competere con quello europeo e pubblicizzarsi sul mercato internazionale. Altrimenti rimarremo inevitabilmente in «serie B» e avremo perso un’altra occasione per diventare un paese «normale».
In conclusione: libertà di scelta e relativa assunzione di responsabilità, verifica e valutazione dei risultati da cui far dipendere i finanziamenti, competizione e prevenzione del consociativismo, internazionalizzazione. Questi sono i punti nodali su cui ricostruire e riqualificare le strade d’accesso alle Università.
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