È il 24 dicembre 1967. Da una decina di anni sonde e satelliti artificiali solcano lo spazio fuori dalla Terra. Italo Calvino ha appena pubblicato Ti con zero. E Anna Maria Ortese sulle pagine del Corriere della Sera gli scrive una lettera, datata 24 dicembre 1967.
Caro Calvino,
non c'è volta che
sentendo parlare di lanci spaziali, di conquiste dello spazio, ecc., io non
provi tristezza e fastidio; e nella tristezza c'è del timore, nel fastidio
dell'irritazione, forse sgomento e ansia. Mi domando perché.
La scrittrice, autrice di un acuto e indimenticabile Il mare non bagna Napoli con cui ha vinto il Premio Viareggio, è angosciata dal nuovo mondo tecnologico, che trova una clamorosa rappresentazione nei razzi che sfrecciano nello spazio.
La risposta, immediata, di Italo Calvino viene pubblicata quello stesso giorno sulle pagine del medesimo giornale e giunge forse inaspettata ad Anna Maria Ortese. Certo contiene un'impegnativa serie di giudizi su Galileo Galilei, su Giacomo Leopardi e sull'influenza del primo sul secondo.
Cara Anna Maria Ortese,
guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda? Se si volesse portare il suo discorso alle estreme conseguenze, si finirebbe per dire: continui pure la terra ad andare di male in peggio, tanto io guardo il firmamento e ritrovo il mio equilibrio e la mia pace interiore. Non le pare di "strumentalizzarlo" malamente, questo cielo?
Io non voglio però esortarla all'entusiasmo per le magnifiche sorti cosmonautiche dell'umanità: me ne guardo bene. Le notizie di nuovi lanci spaziali sono episodi d'una lotta di supremazia terrestre e come tali interessano solo la storia dei modi sbagliati con cui ancora i governi e gli stati maggiori pretendono di decidere le sorti del mondo passando sopra la testa dei popoli.
[...] Chi ama la luna davvero non si accontenta di contemplarla come un'immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più. Il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo, Galileo, appena si mette a parlare della luna innalza la sua prosa ad un grado di precisione e di evidenza ed insieme di rarefazione lirica prodigiose. E la lingua di Galileo fu uno dei modelli della lingua di Leopardi, gran poeta lunare...
Per Calvino, dunque, Galileo non è solo un grande scienziato e un grande filosofo. È anche un grande scrittore. Anzi, il più grande scrittore della letteratura italiana.
Carlo Cassola è tra i primi a reagire alla provocazione di Calvino. Non passa una settimana che il Corriere della Sera pubblica (31 dicembre 1967) un articolo molto duro a firma dello scrittore romano: «Domenica scorsa, su questo giornale Italo Calvino ha affermato che Galilei è il più grande scrittore italiano di ogni secolo. Io credevo che Galilei fosse il più grande scienziato, ma che la palma di massimo scrittore spettasse a Dante».
Non si tratta di un'improbabile gara a chi meriti la palma del migliore scrittore. Ma dei fondamenti stessi della letteratura e della cultura. «Mentirei - scrive Cassola - se dicessi che l'affermazione di Calvino mi ha scandalizzato. Lo spirito di dimissioni di molti miei colleghi è giunto a un punto tale che non mi scandalizzo più di niente. L'augurio che rivolgo loro è di liberarsi del complesso di inferiorità nei confronti della cultura scientifica e della tecnologia. E se no, che cambino mestiere».
Carlo Cassola, dunque, pone due temi. Il primo è un assoluto: scienza e letteratura sono dimensioni incomunicanti. Hanno nulla da dire l'una all'altra. Irrimediabilmente: Galileo è uno scienziato, dunque non è uno scrittore. Il secondo tema è più contingente: gli scrittori italiani son subalterni alla cultura umanistica. Una tesi che ha una versione speculare negli ambienti scientifici, secondo cui in Italia sarebbe egemone una cultura umanistica di impronta crociana e gentiliana che impedisce alla cultura scientifica di diffondersi nel paese sia tra le grandi masse, sia tra le classi dirigenti.
Calvino risponde a Cassola qualche settimana dopo, con intervento su L'Approdo letterario. In primo luogo:
Intendevo dire scrittore di prosa; e allora lì la questione si pone tra Machiavelli e Galileo, e anch'io sono nell'imbarazzo perché amo molto pure Machiavelli. Quel che posso dire è che nella direzione in cui lavoro adesso, trovo maggior nutrimento in Galileo, come precisione di linguaggio, come immaginazione scientifico-poetica, come costruzione di congetture.
Infatti:
Galileo usa il linguaggio non come uno strumento neutro, ma con una coscienza letteraria, con una continua partecipazione espressiva, immaginativa, addirittura lirica.
Una coscienza letteraria che Galileo raggiunge soprattutto quando parla della Luna:
Leggendo Galileo mi piace cercare i passi in cui parla della Luna: è la prima volta che la Luna diventa per gli uomini un oggetto reale, che viene descritta minutamente come cosa tangibile, eppure appena la Luna compare, nel linguaggio di Galileo si sente una specie di rarefazione, di levitazione: ci si innalza in un'incantata sospensione.
Tutto questo giustifica il giudizio su Galileo scrittore. In particolare sul Galileo scrive della Luna dopo averla osservata, nell'autunno 1609, col nuovo occhiale.
Tuttavia Galileo non rappresenta una singolarità nella letteratura italiana. Al contrario ne incarna la più intima vocazione. E la dimostrazione l'abbiamo proprio partendo da Dante. Cosa fa il poeta fiorentino, sostiene l'autore di Ti con zero, se non realizzare con un'opera enciclopedica e cosmologica una mappa del mondo e dello scibile e costruire, attraverso la parola letteraria, un'immagine dell'universo?
Non c'è dunque davvero nessuno scandalo nell'accostare Galileo a Dante. Perchè
Questa è una vocazione profonda della letteratura italiana che passa da Dante a Galileo: l'opera letteraria come mappa del mondo e dello scibile, lo scrivere mosso da una spinta conoscitiva che è ora teologica ora speculativa ora stregonesca ora enciclopedica ora di filosofia naturale ora di osservazione trasfigurante e visionaria.
La scienza e la filosofia naturale sono, dunque, la vocazione profonda della letteratura italiana. Una vocazione profonda, che coinvolge altri grandi autori - da Ariosto a Leopardi, entrambi «gran poeti lunari». E che deve essere riscoperta, se vogliamo rinnovare la grandezza passata della nostra letteratura.